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Perché la produttività è il futuro del lavoro

Si può misurare la performance di un lavoratore con un algoritmo? La risposta è sì se la decisione aziendale di recedere dal rapporto di lavoro è generata dalla valutazione (umana) dei dati forniti dall’algoritmo. Questo è ciò che avviene negli Stati Uniti. In Italia le cose stanno diversamente. Il datore di lavoro non può limitarsi a provare, anche ai fini di un provvedimento disciplinare, il mancato raggiungimento di un determinato risultato atteso ma deve dimostrare il “notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali imputabile al lavoratore. Ma con la transizione verso forme di organizzazione del lavoro più flessibili non è giunta l’ora di iniziare a valutare anche il lavoro subordinato in termini di efficienza produttiva, senza peraltro rinunciare alle tutele?

E’ possibile parlare di produttività nell’ambito del nostro diritto del lavoro? Possiamo utilizzare questo parametro per misurare la performance di un collaboratore?

Il quesito non è di poco conto, il tema è particolarmente delicato e non è certo possibile risolvere l’interrogativo in questo breve editoriale. Ma la riflessione sta diventando obbligatoria. Pertanto, cercherò di focalizzare l’attenzione del lettore in questo scorcio d’estate su pochi aspetti di grande rilevanza pratica.

Innanzitutto, l’Italia non sono gli Stati Uniti. Quindi non possiamo applicare al nostro ordinamento giuridico categorie giuridiche che trovano invece, da anni, ampia applicazione all’estero e che stanno iniziando ad affacciarsi prepotentemente anche da noi grazie all’eco originata da alcune grandi realtà imprenditoriali.

Qualche mese fa ha fatto il giro dei quotidiani la notizia che nello stabilimento di una grande realtà imprenditoriale si è proceduto, nell’arco temporale di un anno, al licenziamento di circa 300 dipendenti, “colpevoli” - a quanto consta - di bassa produttività e rendimento. In realtà, ha spiegato la società, non vi era stata una diretta consequenzialità tra la misurazione della bassa performance e la decisione di risolvere il rapporto di lavoro dei poor performers. Quindi non è l’algoritmo in sé ad avere generato la decisione, quanto piuttosto è la misurazione dei dati forniti dall’algoritmo e la valutazione (umana) dei risultati - stimati peraltro utilizzando parametri che abbracciavano un arco temporale piuttosto lungo - ad aver generato da un lato il processo di valutazione del personale e, dall’altro, la decisione di risolvere il rapporto di lavoro. Recesso avvenuto, comunque - anche negli Stati Uniti - solo dopo l’esame complessivo dei dati raccolti. Si è trattato, quindi, di un processo non automatico, non affidato – come erroneamente ipotizzato – solo ad un algoritmo, quanto piuttosto all’attenta valutazione dei dati raccolti. Il che ha comportato comunque di fare ricorso a valutazioni umane, inserite nel quadro dei processi organizzativi e decisionali aziendali.

Viene allora da chiedersi se un analogo modo di procedere sarebbe possibile in Italia. In teoria sì, trattandosi appunto dell’esito di un processo organizzativo, ma in pratica occorre molta cautela. Il nostro diritto del lavoro non ammette tra le proprie categorie giuridiche lo “scarso rendimento” come parametro di valutazione della prestazione di lavoro. Mi spiego meglio, il nostro diritto del lavoro non consente – in ipotesi - di risolvere il rapporto di lavoro in base al solo mancato raggiungimento degli “obbiettivi” programmati dal datore di lavoro. Quindi non consente di fare ricorso a motivazioni collegate a “scarso rendimento” o “bassa performance”. E’ invece possibile fare ricorso alla categoria giuridica dell’inadempimento connesso ad un comportamento negligente del lavoratore nell’esecuzione della prestazione lavorativa. Inadempimento che il datore di lavoro è comunque tenuto a provare rigorosamente.

In pratica, nel nostro ordinamento giuridico, il datore non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento di un determinato risultato atteso, ma è onerato della dimostrazione di un “notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali imputabile al lavoratore sulla base di una serie di comportamenti da valutare nel loro complesso – quindi non episodici e/o isolati – posti in essere in un determinato arco temporale.

La giurisprudenza più recente ammette che, ove siano individuabili dei “parametri” per accertare che la prestazione debba essere eseguita con la diligenza e professionalità medie proprie delle mansioni affidate al lavoratore, l’eventuale “discostamento” da detti “parametri” possa costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, portando nei casi più gravi alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Come è possibile constatare da questo breve richiamo ai principi che governano la valutazione della performance nel nostro ordinamento giuridico, non è così semplice o così immediato collegare il mancato raggiungimento degli obiettivi ad un atto di gestione del rapporto di lavoro, quale un provvedimento disciplinare oppure un licenziamento per motivi soggettivi. Eppure, comincia ad essere di fondamentale importanza cominciare a ragionare, anche nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, in termini di obiettivi e di risultato.

La nuova organizzazione del lavoro imposta dalla tecnologia ci obbliga infatti ad iniziare a misurare la prestazione lavorativa di tipo subordinato anche in termini di “obiettivi” determinando, giocoforza, l’ingresso nei processi decisionali aziendali di sistemi di valutazione della performance applicabili a tutto il personale e non più solo alla categoria dei dirigenti. Il che non significa rinunciare alle tutele proprie del lavoro subordinato tipiche del nostro diritto del lavoro. Significa piuttosto ripensare le categorie giuridiche tipiche del nostro ordinamento di civil law in modo da assicurare il necessario adeguamento di un impianto normativo e regolamentare che in molti aspetti non è più in grado di accompagnare le trasformazioni in atto nel mondo dell’impresa 4.0.

Erroneamente si pensa che il contratto di lavoro si regga solo sullo scambio tempo di lavoro/denaro, indipendentemente dal risultato che una certa attività in un tempo determinato (ora/giorno/settimana) crea. Tutti sanno che non è cosi, le aziende si prefiggono (giustamente) degli obiettivi attesi dall’attività di ciascun collaboratore e devono poter intervenire quando i risultati non sono quelli stimati. Se le forme di riorganizzazione del lavoro, figlie dell’applicazione della nuova disciplina del lavoro agile, inducono a ripensare la prestazione lavorativa – di tipo subordinato – in termini di obiettivi (la legge sul lavoro agile parla di lavoro per fasi, cicli e obiettivi, peraltro senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro) è facilmente comprensibile come sia ormai divenuto necessario iniziare a familiarizzare anche con un nuovo modo di intendere il rapporto tempo/prestazione perché l’efficienza produttiva sarà sempre più influenzata in futuro da un diverso modo di interpretare questo binomio, figlio della rivoluzione industriale.

Se iniziamo a valutare anche il lavoro subordinato in termini di “risultato”, senza peraltro rinunciare alle tutele proprie di questa forma di lavoro, è possibile anche immaginare di transitare verso forme di organizzazione del lavoro più flessibili, che consentano addirittura di rendersi efficaci e produttivi con un numero di ore di lavoro anche inferiore a quello “normale”, pari a 40 ore settimanali.

E’ quanto possiamo intravedere in alcuni recenti accordi integrativi aziendali.

Da questo punto di vista è interessante il recente accordo Luxottica. Accordo con il quale si è provveduto a regolare la progressiva stabilizzazione di più di 1000 giovani lavoratori, assunti a tempo indeterminato ma con la previsione di un orario di lavoro ridotto – su base volontaria – per far fronte alla stagionalità del ciclo produttivo e quindi per favorire nei periodi di più bassa produzione un migliore bilanciamento vita-lavoro.

E’ un importante esempio di modernizzazione del sistema delle relazioni industriali. Un’occasione straordinaria per far sì che la contrattazione collettiva di secondo livello accompagni i cambiamenti in atto.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/08/31/produttivita-lavoro

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