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Licenziamenti. Cassa integrazione. Smart working. E’ ora di un cambio culturale

Il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione a pioggia non potranno essere ancora sostenuti per molto tempo; ci si interroga, pertanto, su cosa accadrà. E anche lo smart working comincia a fare i conti con la sua sostenibilità per l’impresa e per i lavoratori coinvolti. Non c’è più tempo, perché il problema è strutturale. Occorre dar vita a quel famoso cambio culturale di cui si parla da tanti anni e che, limitatamente al mercato del lavoro, comporta l’abbandonare definitivamente il vessillo della tutela del posto di lavoro. Quali azioni specifiche intraprendere per il New Normal?

Dopo aver cercato di gestire un periodo – assai lungo – definito a tutti gli effetti di “emergenza” anche al fine di poter emanare provvedimenti che in tempi ordinari non sarebbero stati consentiti, è giunto il momento di domandarsi quale futuro c’è da aspettarsi.

Una domanda certamente necessaria per poter rispondere poi alle varie istanze sociali e non che giorno dopo giorno cominciano a farsi sentire e, soprattutto, hanno bisogno di risposta. Non è più tempo – a mio avviso oramai da molto – di provvedimenti quindicinali, di provvedimenti carenti sotto il profilo della visione più ampia, di provvedimenti che hanno creato e creano incertezza, un’incertezza particolare che rischia di minare il Paese anche a livello psicologico forse più di quanto non lo abbia già fatto dal punto di vista economico e lavorativo.

Il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione a pioggia che forse avevano rassicurato i lavoratori ora si comprende che non potranno essere ancora sostenuti e pertanto ci si interroga su cosa accadrà. Dall’altra parte un finto smart working non compreso nella sua vera essenza organizzativa comincia a fare i conti con due elementi: il primo è la sostenibilità futura da parte dell’imprenditore, il secondo – a mio avviso anche più complicato – la “sostenibilità” da parte dei lavoratori coinvolti. Cominciano ad emergere serie criticità legate alle modalità di svolgimento della prestazione, della misurazione di essa, del tempo “dilatato” di lavoro/connessione e così via.

Ecco, per comprendere come sarà il futuro partiamo da cosa è stato fatto per gestire lo “straordinario” e come tali strumenti possono aiutarci a disegnare una “nuova normalità”.

Il nostro Paese ha fatto fronte sostanzialmente con due provvedimenti: (i) cassa integrazione Guadagni “COVID” con una platea generalizzata (ii) blocco dei licenziamenti oggettivi per un periodo coincidente con quello di fruizione della cassa.

L’unica novità rispetto alla “gestione” di tutte le crisi precedenti è il “blocco dei licenziamenti” e questo basterebbe per guidarci senza troppe incognite a cosa dobbiamo aspettarci dal futuro, o meglio, nel futuro.

Ciò che è stato posto in essere è un sistema di “sussidiampio e generalizzato volto a contrastare cosa: la disoccupazione? La povertà? Sembra una domanda stupida e banale ma in realtà credo sia qui il problema per il “futuro”.

Unicamente con cassa integrazione e blocco dei licenziamenti non si combatte la disoccupazione e non si sostiene l’occupazione, essi sono – così come implementati – provvedimenti privi di prospettive fondate sull’utilizzo di risorse economiche che il Paese non aveva.

Infatti, occorre ricordare che prima del “blocco COVID” l’Italia non versava di certo in condizioni ottimali, di crescita, di rilancio dell’occupazione e come tutti gli anni doveva affrontare le criticità derivanti dal mercato ordinario, dall’assenza di competenze, dall’assenza di quelle che si possono raggruppare come “politiche attive”. Scontavamo un ritardo in tutto: formazione, digitalizzazione, orientamento, transizione, riqualificazione, etc… ritardo che non abbiamo colmato, né tantomeno tentato di colmare in questo anno e mezzo!

Mentre il mondo cambia velocemente anche a causa del COVID, noi siamo rimasti ancorati a dibattiti anacronistici: reintegrazioni sì, reintegrazioni no, il lavoro precario, luogo e orario di lavoro, lavoro agile come se fosse un danno, una punizione per il lavoratore.

Sul lato dell’impresa “precaria”, del lavoro femminile, delle nuove organizzazioni di impresa, sulla digitalizzazione ed i processi tecnologici, sulla formazione e riqualificazione, sulle politiche attive … nulla.

Nulla anche sotto il profilo del costo del lavoro.

I timidi tentativi solamente da ultimo pensati per avere una qualche risposta positiva soprattutto da parte dell’Europa nostra finanziatrice e creditrice – parlo del Fondo nuove competenze, contratto di sistema o rete – non ci offrono alcuno spazio di seria riflessione del futuro.

Servono molte altre informazioni sul nostro Paese, sulla popolazione, sulla forza lavoro, sulla scolarizzazione, sulla competitività, sulla produttività, se veramente volessimo sapere cosa ci attenderebbe nel futuro. Scopriremmo che abbiamo la popolazione di lavoratori più vecchia d’Europa, il minor numero di giovani occupati, il più alto numero di NEET, etc.

Su questa strada potremmo andare avanti e ciò che è importante è evidenziare che non c’è più tempo perché il problema è strutturale; non si può più intervenire chirurgicamente e con provvedimenti straordinari che rincorrono le situazioni.

Alla luce di quanto sopra possiamo già agevolmente rispondere alle domande iniziali: se continuiamo come fatto fino ad ora il futuro sarà molto scuro con il rischio di un vero e proprio default.

Occorre iniziare a dar vita a quel famoso cambio culturale di cui tanto e da tanti anni si parla e per quanto attiene la cultura del lavoro abbandonare definitivamente la tutela del posto di lavoro quale driver per costruire le società.

Occorre implementare le politiche attive atte a gestire l’ingresso e la transizione nel mondo del lavoro; implementare un sistema obbligatorio di formazione e riqualificazione professionale che deve tener conto della domanda del mercato e non costruire cittadini ben “preparati” alla disoccupazione.

Mentre il tema “culturale” si svilupperà nei prossimi venti anni, quello delle azioni di governo deve essere affrontato immediatamente senza indugi.

E veniamo al punto.

Quanto detto circa le politiche attive, etc. non ha alcun elemento di novità rispetto a quanto si è detto in Italia negli ultimi trent’anni. Non c’è nessuna pensata geniale o pensiero innovatore e ciò significa che il problema – tutto italico – è l’implementazione, l’esecuzione, la messa a terra …

È già tutto pronto a livello formale e teorico, manca solamente la volontà di agire in tal senso. Non è il luogo in cui indagare le ragioni di queste “resistenze” ma certamente se non ci interroghiamo sulla questione credo che difficilmente si riuscirà ad andare avanti: non credo in un futuro che viene subito.

Il New Normal non esiste o, meglio, spero non esista; di certo non potrà essere quello del blocco dei licenziamenti ab libitum o della cassa integrazione “a perdere”.

Se volessimo immaginare positivamente, dovremmo pensare ad una normalità fatta di strumenti che gestiscono le “transizioni” nel lavoro, che implementano percorsi formativi e di riqualificazione obbligatoria gestiti da soggetti qualificati che facciano dimenticare l’idea di poter rimanere “uguali a sé stessi” per tutta la vita lavorativa ed accettare il cambiamento come un’opportunità e non un “lutto”.

Poiché non ritengo il legislatore in grado di agire così velocemente, credo il ruolo delle parti sociali sia determinante e la legittimazione della contrattazione aziendale sia fondamentale. Sotto diverso profilo occorrerà lavorare sul costo del lavoro per far sì che vi sia un generale aumento della retribuzione.

Sono pochi spunti… ma sicuramente sarebbero un buon inizio.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/02/20/licenziamenti-cassa-integrazione-smart-working-ora-cambio-culturale

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