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Maggiore produttività con minori ore di lavoro. Si, se si punta sulla contrattazione di secondo livello

“Un esperimento, condotto su scala globale, nell’ambito della campagna 4 day week ha dimostrato che le organizzazioni del lavoro coinvolte hanno registrato anche una crescita del fatturato e, al tempo stesso, della produttività dei dipendenti. Aspetti ai quali si sono affiancati cali dell’assenteismo e del turnover. Ma una nuova organizzazione del lavoro intesa ad aumentare la produttività richiede lo sviluppo di modelli efficaci. Dunque, ormai, la quantità di ore lavorate non è certamente più il valore che definisce e sostiene la produttività. Ritengo che, sul piano della produttività, assuma rilevo la contrattazione di secondo livello, che permetta di negoziare un rapporto concreto ed equilibrato tra organizzazione del lavoro, produttività e retribuzioni adeguate". Il Ministro del Lavoro del Governo Prodi, Cesare Damiano, anticipa a IPSOA Quotidiano i temi al centro del suo intervento al XII Forum One LAVORO, dedicato al “Mondo del lavoro 2023: novità e prospettive”, che si svolge oggi a Modena e in live streaming.

Si svolge oggi a Modena il XII Forum One LAVORO, dedicato al “Mondo del lavoro 2023: novità e prospettive”, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro. Il Ministro del Lavoro del Governo Prodi, Cesare Damiano, anticipa a IPSOA Quotidiano i temi al centro del suo intervento.Secondo Lei la produttività aziendale è legata necessariamente alle ore di lavoro?Il tema della produttività incrocia diversi argomenti. Dai salari, all’organizzazione del lavoro, alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, alla struttura della contrattazione. Certamente la pandemia ha accelerato la percezione della concreta possibilità di attuare una diversa organizzazione del lavoro. In questo senso, un esperimento, condotto su scala globale, nell’ambito della campagna 4 day week (4 giorni di lavoro a settimana) ha dato risultati molto interessanti. I dati raccolti nel corso dell’esperimento hanno dimostrato che le organizzazioni coinvolte hanno registrato anche una crescita del fatturato e, al tempo stesso, della produttività dei dipendenti. Aspetti positivi ai quali si sono affiancati cali dell’assenteismo e del turnover. I dati hanno dimostrato anche che i lavoratori con un orario di quattro giorni settimanali erano più inclini a operare presso il posto di lavoro piuttosto che da casa. Siamo, ormai, lontani, nel tempo e nelle prassi, dal modello produttivo taylorista-fordista. Ma una nuova organizzazione del lavoro intesa ad aumentare la produttività richiede lo sviluppo di modelli efficaci. Dunque, ormai, la quantità di ore lavorate non è certamente più il valore che definisce e sostiene la produttività. Si tratta di una questione fondamentale per il nostro Paese, che ha visto declinare con costanza la produttività e, insieme ad essa, i salari. E val la pena di ricordare come l’Italia, dagli anni 90 ad oggi, sia l’unico Paese dell’area Ocse a segnare un arretramento nel potere d’acquisto delle retribuzioni. Ritengo che, sul piano della produttività, assuma rilevo la contrattazione di secondo livello, che permetta di negoziare un rapporto concreto ed equilibrato tra organizzazione del lavoro, produttività e retribuzioni adeguate.Il mondo del lavoro in questi ultimi anni è cambiato. Sono cambiate le modalità di erogazione della prestazione lavorativa. È ancora attuale la normativa sull’orario di lavoro?Come detto sopra, il tema dell’orario si pone e va affrontato nell’insieme di una visione complessiva dell’organizzazione del lavoro che è sottoposta, da un lato, a un’impostazione sempre più articolata e, dunque, sempre meno circoscrivibile in schemi rigidi. Dall’altro, al modificarsi delle aspettative e dalle esigenze esistenziali dei lavoratori, in particolare dei giovani, sempre meno disposti ad accettare una condizione rigida e, al tempo stesso, precaria.Quali proposte farebbe al Governo per migliorare il benessere dei lavoratori?Sostengo da tempo che una delle criticità fondamentali sia il fallimento del modello della flexicurity. Ormai in declino in tutta Europa, la flexicurity si fonda su una forte flessibilità contrattuale. La quale produce contratti di lavoro indirizzati alla flessibilità produttiva. Ciò ha anche determinato il dilagare del tempo determinato. E, al tempo stesso, richiede un supporto ai lavoratori impostato sulla formazione continua, su un robusto sistema di politiche attive che facilitino collocazione e ricollocazione, protezione sociale e sostegni ai redditi. Questo meccanismo, in Italia, non ha mai funzionato. La flessibilità dalla mansione si è trasferita ai rapporti di lavoro, diventando precarietà; la sicurezza non ha prodotto né formazione, né politiche attive. È, perciò, importante riavviare la discussione sul mercato del lavoro per impostare un progetto che faccia perno sulla qualità dell’impresa e del lavoro come via maestra per fronteggiare le sfide della competitività globale. A mio giudizio è, perciò, necessario superare questo modello che tanto svantaggia il lavoro. Per converso, è necessario affermare una visione nella quale la flessibilità diventi uno strumento nella disponibilità del lavoratore, anziché una condizione di precarietà strutturale. Un meccanismo, che intendo definire flexstability, da fondare su alcuni cardini. In primo luogo spostare l’asse della flessibilità dal rapporto di lavoro alla prestazione del lavoratore. Uno scambio, da proporre alle imprese, che incroci stabilità del rapporto di lavoro e flessibilità della mansione, la quale sia impostata sull’organizzazione del lavoro aziendale. In secondo luogo affermare la stabilità del rapporto di lavoro. Terzo punto, aiutare questo processo con incentivi pubblici indirizzati a sostenere sempre più le assunzioni a tempo indeterminato: il lavoro stabile deve costare meno di quello flessibile. Favorire, insomma, la qualità del lavoro. Un secondo argomento è quello della sicurezza sul lavoro, più che mai urgente. È necessario continuare la marcia al ribasso di incidenti mortali, infortuni e malattie professionali che, dagli anni 60-70 del XX Secolo, si sono ridotti drasticamente, ma appunto, in modo insufficiente. Marcia che è stata positivamente influenzata da un significativo miglioramento nella sensibilità dell’opinione pubblica, da una più incisiva azione legislativa e sindacale, da scelte di una parte importante delle imprese con l’innovazione nei campi tecnologico ed ergonomico. Occorre svolgere un’azione legislativa coerente: non ci pare, però, che il nuovo codice degli appalti, con le sue liberalizzazioni, vada in questa direzione, a conferma che, quello compiuto, non è stato un percorso né facile né lineare. Voglio, in proposito, rivendicare i protocolli sottoscritti dall’Inail con grandi imprese come Ferrovie dello Stato, Aeroporti di Roma, Autostrade, Enel ed Eni. Protocolli nei quali sono stati individuati specifici ambiti di collaborazione. Si tratta di intese finalizzate ad avviare un confronto permanente per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Utilizzando, ad esempio, la digitalizzazione dei cantieri per monitorare l’esclusione di subappalti con lavoratori al nero o ai quali non viene applicato il contratto dell’edilizia, sostituto da altri contratti di costo inferiore. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/05/25/maggiore-produttivita-minori-ore-lavoro-si-punta-contrattazione-secondo-livello

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