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Evoluzione del mercato del lavoro e PNRR. A che punto siamo?

Il Ministero del Lavoro ha recentemente reso noto il rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2023. Una fotografia degli andamenti del mercato del lavoro attraverso i dati che sono stati rilasciati, appunto, sulla base delle comunicazioni obbligatorie che ogni imprenditore è tenuto ad effettuare all’autorità pubblica al momento dell’instaurazione (o della cessazione) di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. L’analisi dei dati complessivi dice molto della composizione del nostro mercato del lavoro. E purtroppo, malgrado l’attuazione del PNRR sia oramai in fase avanzata, il Paese sembra ancora ben lontano da quegli obiettivi di incremento dell’occupazione (che c’è, ma è modesta) e di miglioramento della qualità dell’occupazione.

Mentre oramai sembra definitivamente terminato il periodo della pandemia, si possono cominciare a fare i primi bilanci dei cambiamenti che ha dovuto affrontare il mercato del lavoro nel triennio 2020-2022: si tratta di una valutazione importante perché, anche a seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del decreto “del primo maggio” (D.L. 4 maggio 2023, n. 48, recante “Misure urgenti per l'inclusione sociale e l'accesso al mondo del lavoro”), potrebbe scoprirsi che alcuni dei caratteri che hanno connotato il quadro complessivo degli ultimi venti anni hanno registrato un’evoluzione.Non sarebbe illogico che, prima di qualunque proposta di modifica della disciplina vigente, quale si rinviene ancor oggi negli otto decreti legislativi in cui si articolava il Jobs Act del 2015, si ripetesse l’esperienza del 2003, quando il Governo allora in carica fece predisporre da un gruppo di economisti e di giuristi un “libro bianco” sul mercato del lavoro. Da questo punto di vista si deve dire come, anche se non mancano segnali di lento miglioramento, restano sempre preoccupanti i dati sull’occupazione in Italia, poiché, innanzi tutto, resta confermata la tendenza di fondo di una limitata diffusione dell’occupazione regolare, poiché, su poco meno di 59 milioni di persone residenti, sono stimati in 23 milioni gli italiani che lavorano. Si tratta, come si vede, di una percentuale che si attesta intorno al 40% e che si colloca molto lontano dalla porzione della popolazione attiva degli altri Stati europei. Ovviamente, è del tutto fisiologico che una parte della popolazione sia “mantenuta” da qualcun altro, perché o troppo giovane o troppo vecchia per lavorare: ed in questo senso si deve aggiungere che le pensioni INPS in pagamento al 2023 (per vecchiaia, invalidità e ai superstiti) erano in numero di 13.685.475, mentre i giovani fra 0 e 18 anni sono circa 9 milioni, tenendo conto di un numero di nuovi nati in costante calo, e che si colloca di poco al di sotto delle 400.000 unità per anno. Detratta questa quota (ma si tenga presente che molti sono i pensionati che legittimamente svolgono attività lavorativa e che molti giovani accedono al mercato del lavoro ancor prima di aver raggiunto la maggiore età) resta che, secondo le stime, mancano all’appello quasi 13 milioni di persone in età lavorativa. Si tratta di una percentuale enorme (pari ad oltre il 21% della popolazione residente) che non si sa bene cosa faccia. L’inattività, invero, sembra interessare soprattutto gli italiani, atteso che l’apporto di manodopera straniera rimane tendenzialmente invariato nelle sue dimensioni complessive, senza dimenticare la progressiva integrazione (testimoniata da matrimoni “misti” che oramai raggiungono circa un terzo del numero fatto registrare ogni anno), che porta molti stranieri a richiedere ed ottenere la nazionalità italiana. I dati rilevati in ordine al lavoro degli stranieri, dunque, sono limitati solo a quanti operano in Italia o avvalendosi della libertà di movimento riservata ai cittadini degli altri Stati europei (senza, quindi, dover rinunziare alla propria cittadinanza di origine, come ad es. molti cittadini rumeni) o che comunque sono in possesso di un valido permesso di soggiorno. In questo senso, si deve dire che il numero di stranieri rilevati è pari a poco più di 5 milioni, la stragrande maggioranza dei quali sono lavoratori (87,1%), mentre secondo l’INPS nel 2021 erano 280.923 i pensionati (7,2%) e 224.086 percettori di prestazioni a sostegno del reddito (5,7%). Si suppone che una certa quota di chi risulta estraneo al mercato del lavoro sia costituita da lavoratori “scoraggiati”, che cioè, dopo aver tentato di trovare un’occupazione, abbiano alla fine rinunziato (senza che però si comprenda bene a quali fonti di reddito costoro possano attingere per assicurarsi il pane quotidiano). Un’altra importante fetta, poi, è costituita da lavoratori “in nero” o irregolari, che prestato la loro attività senza che il datore di lavoro effettui le dovute comunicazioni alle autorità pubbliche (le stime parlano di un numero impressionante che oscillerebbe fra i 3 e i 4 milioni di persone, che comprende però anche lavoratori che sfuggono agli stessi uffici dell’anagrafe perché irregolarmente presenti sul territorio nazionale). Un’altra parte di soggetti, infine, è dedita ad attività del tutto illegali, perché criminose (e questo senza dire che ogni anno vengono scoperte alcune decine di migliaia di imprese completamente ignote al Fisco e agli istituti previdenziali, seppure attive nei normali settori produttivi). Interessante, in questa situazione, è quindi esaminare i dati che sono stati rilasciati recentemente dal Ministero del Lavoro sulla base delle comunicazioni obbligatorie che ogni imprenditore è tenuto ad effettuare all’autorità pubblica al momento dell’instaurazione (o della cessazione) di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. Questi dati sono valutati su base trimestrale e si riferiscono ai “flussi”, in ingresso o in uscita, dal mercato del lavoro (e riguardano circa un sesto degli occupati, posto che sono circa 15 milioni i lavoratori subordinati impiegati in Italia in forza di un contratto a tempo indeterminato). Essi mostrano un certo dinamismo, segnalando la presenza di opportunità importanti per chi fosse interessato ad entrare oggi o nei prossimi mesi nel mondo del lavoro, anche se si registra un certo rallentamento rispetto allo scorso anno, essendosi oramai esaurito l’effetto conseguente al venir meno delle restrizioni che erano state imposte dalla pandemia. Nel primo trimestre 2023, dunque, il numero complessivo di “attivazioni” di contratti di lavoro ha toccato i 3 milioni 323 mila, in aumento del 3,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Si tratta, tuttavia, di un dato che tiene conto dei contratti, di qualunque durata, anche brevissima (1-2 giorni), di modo che ove si faccia questione del numero di occupati (che stipulano in un anno anche due o più contratti di breve durata), si scopre che l’occupazione a termine ha riguardato 2 milioni 326 mila lavoratori, mentre le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato sono state, nel complesso, modeste, risultando pari nel trimestre a 209 mila lavoratori. Il dato complessivo su base annua continua, quindi, a registrare una crescita (+5,0%) delle assunzioni a tempo determinato, seppure secondo una dinamica in attenuazione rispetto al tasso di crescita annuo registrato in precedenza, quando si era avuta una ripresa quasi vertiginosa delle attivazioni. Questo dato mostra una tendenza al rallentamento, come è altresì dimostrato dalla riduzione del tasso delle risoluzioni dei rapporti di lavoro (con una diminuzione sia delle dimissioni, sia dei licenziamenti, inferiori di 33 mila rispetto al primo trimestre del 2022). Anche l’analisi dei dati complessivi rispetto ai flussi “in ingresso” dice molto della composizione del mercato del lavoro in Italia: solo il 22%, infatti, è fatto di assunzioni a tempo indeterminato, mentre il contratto a termine la fa ancora da padrone, segnando un dato pari al 63,1% sul totale annuo delle assunzioni; si riducono anche il peso dell’apprendistato (il 2,9% del totale) e delle collaborazioni coordinate e continuative (pari al 31%). Alta, tuttavia, rispetto al numero complessivo degli occupati, rimane la percentuale degli occupati a tempo indeterminato (che dovrebbe così oscillare intorno ai cinque sesti del totale degli occupati). Concludendo, non sembrano mancare le occasioni per trovare lavoro, ma in un contesto di occupazione poco professionalizzata e, in certa misura, di relazioni nelle quali comunque sembra mancare, da entrambi i lati, una prospettiva e un solido affidamento sulla loro proiezione nel tempo. Malgrado l’attuazione del PNRR sia oramai in fase avanzata, il Paese sembra insomma ancora ben lontano da quegli obiettivi di incremento dell’occupazione (che c’è, ma è modesta) e di miglioramento della qualità dell’occupazione. Ancora una volta, quindi, si registra una carenza di investimenti nei settori, come l’istruzione tecnica ed universitaria, che potrebbe consentire il miglioramento della qualità del lavoro. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/07/15/evoluzione-mercato-lavoro-pnrr-punto-siamo

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