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Superamento del periodo di comporto: quali verifiche deve fare il datore di lavoro

Il datore di lavoro può recedere dal contratto nel caso in cui sia stato superato il periodo di comporto da parte del lavoratore. La durata massima del periodo di malattia o infortunio è disciplinata dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio previsto dal codice civile. Prima di procedere ad avviare la procedura di risoluzione, quali verifiche deve effettuare il datore di lavoro? Innanzitutto, deve verificare che nei periodi presi in considerazione non vi siano eventuali malattie escluse dal periodo di comporto, in attuazione di quanto previsto dal CCNL. Inoltre, vanno escluse malattie o infortuni imputabili al datore di lavoro per violazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza. In definitiva, quali sono le modalità per il calcolo del periodo di comporto?

Il periodo di comporto è quel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, nel quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. Trascorso tale periodo, è possibile recedere dal contratto. La disposizione è contenuta all’interno dell’art. 2110 del codice civile. In particolare, il comma 2, stabilisce che “nei casi indicati nel comma precedente (infortunio e malattia), l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.”. Nella pratica, il periodo massimo di malattia o infortunio è disciplinato dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio previsto dal codice civile e la relativa durata. Cosa prevede la contrattazione collettiva In linea di massima, il contratto collettivo distingue due ipotesi: - il comporto secco, e cioè il termine di conservazione del posto nel caso di un’unica malattia di lunga durata; - il comporto per sommatoria, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di più malattie. Prima di procedere ad avviare la procedura di risoluzione, il datore di lavoro deve effettuare alcune verifiche preliminari. Va verificato, innanzitutto, che nei periodi presi in considerazione non vi siano eventuali malattie escluse dal periodo di comporto, in attuazione di quanto previsto dalla contrattazione collettiva. Infatti, è possibile che alcuni contratti collettivi abbiano escluso particolari patologie che per la loro natura e gravità sono considerate dall’opinione pubblica e dalla sensibilità delle persone come malattie da escludere dal comporto (ad esempio le malattie di natura oncologica). Da questo punto di vista, il legislatore non ha previsto alcuna esclusione. Ma come conoscere eventuali malattie da escludere se il datore di lavoro non può avere contezza delle patologie presenti nei certificati medici? In questo caso la verifica è demandata al medico competente il quanto dovrà appurare tali patologie su richiesta del dipendente, all’atto dell’informativa circa il raggiungimento del periodo massimo di comporto. Ciò al fine di escludere dal comporto stesso tali malattie. Inoltre, vanno escluse malattie o infortuni imputabili al datore di lavoro per violazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza. Da questo punto di vista ci viene incontro la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 2527 del 4 febbraio 2020, ha affermato come “le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'articolo 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex articolo 2087 codice civile”. Stesso tenore anche l’ordinanza n. 7247 del 4 marzo 2022 della stessa Cassazione. In definitiva, per il calcolo del periodo di comporto andranno sommate le sole malattie e infortuni non causati da una responsabilità del datore di lavoro e si dovranno detrarre quelle per cui sussista una sua responsabilità. L’importanza del calcolo per la verifica circa il superamento del periodo di comporto è fondamentale. Infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27334 del 16 settembre 2022, ha stabilito che ove il giudice di merito accerti il mancato superamento del periodo di comporto, occorre disporre la reintegra nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza presso l’azienda, in quanto si è in presenza di un recesso adottato in violazione di una norma di legge, per cui il mero risarcimento non è sufficiente per sanare l’errore datoriale. Modalità di comunicazione Ma veniamo alle modalità di comunicazione. È importante la tempestività della comunicazione di recesso. In tempi brevi il datore di lavoro dovrà accertare l’entità degli episodi morbosi e dovrà valutare la continuazione (o meno) del rapporto di lavoro. Il trascorrere di un lasso di tempo eccessivo può significare la rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il diritto di recedere dal contratto per il superamento del periodo di comporto (Cassazione, sentenza n. 7899 del 22 luglio 1999)‏. Ricordo che la decisione di recedere dal rapporto di lavoro, per tale motivazione, è discrezionale, per cui qualora il datore di lavoro ritenga di voler proseguire il rapporto, non considerando quanto previsto dal comma 2, dell’articolo 2110 c.c., potrà tranquillamente trascurare tale disposizione ed attendere il rientro del lavoratore dalla malattia/infortunio. Viceversa, in caso di recesso, il datore di lavoro dovrà concedere il periodo di preavviso ovvero erogare la relativa indennità sostitutiva del mancato preavviso. In merito al recesso per tale motivazione, è di recente intervenuta la Corte di Cassazione che con la sentenza n. 9095, del 31 marzo 2023 ha affermato la nullità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato a un lavoratore disabile, qualora il CCNL non abbia differenziato tale periodo per i lavoratori affetti da patologie correlate alla disabilità, in quanto ciò si presta a forme di discriminazione indiretta. In particolare, l’articolo 2, comma 1, lett. b), del Decreto Legislativo n. 216/2003, riconduce tra le forme di discriminazione indiretta le disposizioni e i comportamenti apparentemente neutri che mettono, tuttavia, le persone portatrici di handicap in una situazione oggettiva di svantaggio rispetto ad altre persone. Non trattandosi di licenziamento disciplinare non è obbligatoria una preventiva contestazione delle assenze, né, tantomeno, è obbligatorio riportare analiticamente l’elenco delle assenze (Cassazione, sentenza n. 20761/2018)‏. Sull’argomento è ritornata recentemente la Corte di Cassazione (sentenza n. 6336 del 2 marzo 2023) precisando che il datore di lavoro non è obbligato a specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, la motivazione da indicare nella lettera di recesso deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato. L’elenco delle assenze potrà essere consegnato al lavoratore dopo il licenziamento, previa sua richiesta (Cassazione, sentenza n. 5752/2019)‏. Il lavoratore, in prossimità del termine del periodo di comporto (non dopo), potrà richiedere la fruizione delle ferie residue, al fine di procrastinare la scadenza del periodo di comporto. Tali ferie potranno essere negate, da parte del datore di lavoro, esclusivamente in presenza di motivate ragioni. (Cassazione, sentenza n. 27392/2018)‏ Un’ulteriore richiesta, da parte del lavoratore in malattia/infortunio, per evitare lo sforamento del periodo di comporto, è quello di richiedere una aspettativa per gravi e documentati motivi, prevista dall’art. 4, comma 2, Legge n. 53/2000. Si tratta di una aspettativa dalla prestazione lavorativa di una durata massima pari a due anni che non dà diritto alla retribuzione ed alla relativa contribuzione previdenziale. Inoltre, il periodo di congedo non è computato nell'anzianità di servizio. Recentemente, il legislatore è intervenuto sull’argomento (art. 6, del decreto legislativo n. 105/2022) stabilendo che il rifiuto, l'opposizione o l'ostacolo all'esercizio di tale diritto comporta la perdita della certificazione della parità di genere, prevista dall’articolo 46-bis, del decreto legislativo n. 198 del 11 aprile 2006. Infine, il recesso al termine del periodo di comporto non è da considerarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto ha una propria norma di riferimento (articolo 2110 c.c.) e non è previsto nell’art. 3 della Legge 604/1966. Inoltre, l’art. 7, della Legge 604/1966, lo esclude dalla procedura di conciliazione obbligatoria prevista in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da questo punto di vista, la Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 12568, del 22 maggio 2018), ha precisato che “la giurisprudenza ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d'una mera "assimilazione" (e non "identificazione") affermata al solo fine di escludere la necessità d'una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando ovviamente - l'onere del datore di lavoro di allegare e provare l'avvenuto superamento del periodo di non recedibilità).”. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/10/13/superamento-periodo-comporto-verifiche-datore-lavoro

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