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Parità di genere e discriminazioni: quali sono le sanzioni per i datori di lavoro

L’effettività delle tutele della parità di genere e il contrasto alle discriminazioni muove anche dalle misure sanzionatorie che l’ordinamento riesce a prevedere e ad applicare nei confronti dei datori di lavoro e dei sistemi aziendali che violano gli obblighi e non riconoscono i diritti posti a presidio delle garanzie di protezione valorizzate. In particolare, il quadro punitivo distingue attualmente le condotte penalmente rilevanti del datore di lavoro che non dà seguito agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni dai comportamenti sanzionati in via amministrativa per le discriminazioni attuate in modo diretto o indiretto dalla selezione preassuntiva alle diverse fasi di svolgimento del rapporto di lavoro. Quali sono gli altri illeciti sanzionati?

L’analisi della normativaantidiscriminatoria” fornisce il quadro di una serie “aperta” di interventi legislativi dei quali il D.Lgs. n. 198/2006 (con le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 5/2010, dal D.Lgs. n. 151/2015 e dalla legge n. 162/2021) rappresenta l’odierna ultima frontiera, orientata ad impedire che un qualsiasi elemento “differenziale” - legato alla identità personale, fisica o psicologica, della persona che lavora o cerca lavoro - possa presentarsi quale “fattore di rischio” per il realizzarsi di pregiudizi più o meno rilevanti per il soggetto interessato dalla “diversità” individuata. In questa prospettiva, allora, anche la fotografia dell’apparato sanzionatorio prende le mosse dalla finalità della normativa, giacché se è vero che il divieto di un agire discriminatorio trova la propria scaturigine idealtipica nell’esigenza (costituzionalmente rilevante in ragione dell’art. 3, comma 1, Cost.) di impedire che la lavoratrice o il lavoratore vengano ad essere penalizzati, in qualsiasi maniera, per la propria soggettiva diversità, è altrettanto sicuro che la tutela del rispetto del divieto garantisce, in buona sostanza, l’affermazione concreta ed effettiva del principio di parità di trattamento. Proprio nello specifico del lavoro, d’altronde, può rinvenirsi già nella Carta costituzionale una speciale affermazione di sapore squisitamente “operativo” e di carattere immediatamente “precettivo” laddove l’art. 37, comma 1, proclama l’obbligo per il datore di lavoro di riconoscere alla lavoratrice gli stessi diritti del lavoratore e, “a parità di lavoro” (di attività lavorativa svolta in concreto, non già di risultato effettivamente conseguito), di corrisponderle le stesse retribuzioni. Il quadro punitivo distingue attualmente le condotte penalmente rilevanti del datore di lavoro che non dà seguito agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni dai comportamenti sanzionati in via amministrativa per le discriminazioni attuate in modo diretto o indiretto dalla selezione preassuntiva alle diverse fasi di svolgimento del rapporto di lavoro. Rilevano, infine, altri due illeciti amministrativi riguardanti l’omesso ovvero il mendace o incompleto rapporto telematico obbligatorio biennale sulla situazione del personale maschile e femminile. Reato di inottemperanza agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni Le ipotesi di reato si differenziano nettamente. Previste rispettivamente dall’art. 37, comma 5, e dall’art. 38, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006, come modificati dall’art. 1, comma 1, lett. aa), n. 2, del D.Lgs. n. 5/2010, le due contravvenzioni che ora si annotano rappresentano il punto di tutela più forte che il Codice delle pari opportunità riconosca oggi ai lavoratori e alle lavoratrici vittime di discriminazioni di genere. Se nel testo originario delle norme citate, si trattava, ben è vero, della riproposizione dei precetti e delle sanzioni già contenute, rispettivamente, nell’art. 15 della legge n. 903/1977, nonché nell’art. 4 della legge n. 125/1991, dopo le modifiche introdotte dall’art. 1, comma 1, lett. aa), n. 2, del D.Lgs. n. 5/2010, i reati in oggetto ricevono una specifica e severa reazione punitiva che ha rimosso e sostituito l’originario richiamo espresso alle pene stabilite dall’art. 650 c.p., assai più lievi. Le due disposizioni puniscono la condotta del datore di lavoro che non ottempera all’ordine giudiziale di rimozione delle discriminazioni accertate, collettive o individuali, ovvero, con riguardo alle discriminazioni collettive, non provveda a definire il piano di rimozione delle stesse, concordandolo con le rappresentanze sindacali e con la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o con il consigliere o la consigliera nazionale. Più specificamente, a norma dell’art. 37, comma 3, del D.Lgs. n. 198/2006, la sentenza che accerta (su ricorso delle consigliere o dei consiglieri di parità) l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, diretti o indiretti, di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, ordina, fra l’altro, al datore di lavoro che si sia reso autore della discriminazione di “definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”, sentite le “rappresentanze sindacali aziendali” o, in mancanza, “gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, nonché “la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale”. Peraltro, la sentenza stessa contiene un riferimento predeterminato circa i criteri, “anche temporali”, che devono essere osservati nella definizione e nella conseguente attuazione del piano. Il successivo comma 4 dello stesso art. 37 del Codice delle pari opportunità stabilisce la titolarità di una autonoma azione giudiziaria in capo alla consigliera o al consigliere regionale e nazionale di parità mediante proposizione di un apposito ricorso in via d’urgenza, che viene deciso con decreto motivato, immediatamente esecutivo, nel quale, sono ordinate al datore di lavoro autore della discriminazione “la cessazione del comportamento pregiudizievole” e l’adozione di ogni altra misura idonea a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, compresa la definizione e l’attuazione di un piano di rimozione delle stesse. In caso di discriminazione individuale, a danno di singoli lavoratori o lavoratrici, l’art. 38, comma 1, stabilisce che su ricorso del lavoratore (o per sua delega delle organizzazioni sindacali, delle associazioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della consigliera o del consigliere di parità provinciale o regionale) il Tribunale in funzione di giudice del lavoro ordina, con decreto motivato immediatamente esecutivo, al datore di lavoro autore del comportamento illecito denunciato e accertato, la cessazione della condotta discriminatrice e la rimozione degli effetti. In entrambi i casi è prevista la possibilità di un giudizio in opposizione avverso la prima pronuncia giudiziale, e secondo le attuali previsioni dell’art. 37, comma 5, e dell’art. 38, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006, come modificati dall’art. 1, comma 1, lett. aa), n. 2, del D.Lgs. n. 5/2010, il datore di lavoro che non ottemperi alla sentenza, al decreto o alla sentenza resa a conclusione del giudizio di opposizione è punito con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi. Fattore comune alle due ipotesi di reato qui accomunate è, senza dubbio, anzitutto, la circostanza che l’accertamento delle condotte discriminatorie espone, de facto, il datore di lavoro alla pena prevista per la singola fattispecie discriminatoria posta in essere contravvenendo allo specifico divieto frapposto dallo stesso D.Lgs. n. 198/2006. Perché il reato si consumi effettivamente è necessario presupposto che il provvedimento giudiziale disatteso sia, formalmente e sostanzialmente, uno di quelli previsti dagli artt. 37 e 38 (decreto o sentenza) e che contenga l’ordine di rimozione delle discriminazioni ovvero anche quello di definizione e di attuazione di un apposito piano di rimozione. Sotto il profilo della partecipazione psicologica del datore di lavoro occorre rilevare che la contravvenzione de qua può realizzarsi, a seconda dei casi, con dolo o con colpa: sarà dolosa la condotta datoriale della inottemperanza cosciente, volontaria e intenzionale all’ordine impartito; sarà colposa l’inottemperanza del datore di lavoro che per negligenza o imprudenza disattende l’ordine giudiziale. La mancata ottemperanza all’ordine, dolosa o colposa che sia, rappresenta, sotto altro profilo, una contravvenzione “di pericolo”, in quanto la realizzazione concreta del fatto di reato non abbisogna, in nessun modo, di una “prova di danno” per essere accertata sussistente. Si tratta, poi, di un reato permanente, che rimane unico ed unitario nel suo protrarsi nel tempo, finché l’ordine giudiziale non venga ottemperato. Quanto al profilo più direttamente sanzionatorio la contravvenzione in argomento è punita con pena alternativa: la pena detentiva dell’arresto fino a 6 mesi ovvero quella pecuniaria dell’ammenda determinata nel massimo fino a 50.000 euro. Qualora il datore di lavoro ottemperi a seguito di prescrizione obbligatoria (art. 15, D.Lgs. n. 124/2004) la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda sarà sostituita dal pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa pari a un quarto della misura massima dell’ammenda, vale a dire 12.500 euro. Si tenga presente che in ipotesi di discriminazioni collettive, accanto alle sanzioni penali è previsto, anche nel caso in cui si proceda alla definizione in via amministrativa a seguito di prescrizione obbligatoria ovvero con procedimento di oblazione speciale, il pagamento di una somma di euro 51 per ogni giorno di ritardo nell’adempimento all’ordine impartito dal giudice, da versarsi al Fondo nazionale per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità (art. 37, comma 5, ultima parte, D.Lgs. n. 198/2006). Illeciti amministrativi per le discriminazioni A tutela delle lavoratrici e dei lavoratori rispetto a qualsiasi tipologia di discriminazione contemplata dal D.Lgs. n. 198/2006, il D.Lgs. n. 8/2016 ha posto come forma sanzionatoria di elezione la sanzione pecuniaria amministrativa, quale effetto di una ampia e generale depenalizzazione. L’art. 41, comma 2, del D.Lgs. n. 198/2006, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. cc), n. 2), del D.Lgs. n. 5/2010, infatti, originariamente sanzionava in sede penale, con la pena dell’ammenda da 250 a 1.500 euro, condotte di discriminazione diretta e indiretta, ora punite con la sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, in base all’art. 1, commi 1 e 5, lett. a), del D.Lgs. n. 8/2016. Non si applica la procedura di diffida a regolarizzare (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004), in quanto trattasi di condotta materialmente non recuperabile. Mentre trova applicazione la modalità di estinzione agevolata mediante pagamento della sanzione in misura ridotta, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 689/1981, pari a 3.333,33 euro (un terzo del massimo edittale).Discriminazione per accesso al lavoro e promozioneRisulta quindi così sanzionata la violazione dell’art. 27 dello stesso D.Lgs. n. 198/2006, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. r), del D.Lgs. n. 5/2010, i cui primi due commi sanciscono il divieto per il datore di lavoro di praticare qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e quale che sia il settore o il ramo di attività. L’attività lavorativa presa in considerazione non è soltanto quella resa in forma subordinata, ma anche quella autonoma ovvero, caratterizzandosi perciò la norma in termini di disposizione di sistema e di chiusura, il lavoro reso in qualsiasi altra forma, tipica o atipica dunque, a qualsiasi livello della gerarchia professionale o aziendale. Il divieto in argomento, dunque, opera senza alcun legame di dipendenza e senza nessun condizionamento riguardo alle diverse modalità di assunzione e ha una portata generale andando ad incidere su tutti i settori e su tutti i rami di attività, senza distinzione fra i livelli della gerarchia professionale. La discriminazione vietata dall’art. 27, comma 1, è vietata anche quando attuata mediante il riferimento ad uno status soggettivo di tipo oggettivo della persona che cerca lavoro come lo stato matrimoniale ovvero quello di famiglia o quello di gravidanza, o ancora quello di maternità o paternità, anche adottive. Mentre per quanto attiene alle modalità di violazione del divieto di discriminazione, il Legislatore si premura di punire il comportamento del datore di lavoro che attua la discriminazione in modo indiretto, facendo ricorso a meccanismi di preselezione - il precetto comprende espressamente i criteri di selezione - improntati ai criteri discriminatori vietati o anche con l’utilizzo della stampa o di qualsiasi altra forma di pubblicità che evidenzi il genere (maschile o femminile) e, quindi, l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito professionale espressamente richiesto per l’accesso al lavoro. La violazione non si presenta come illecito esclusivamente “di azione”, che necessita cioè di una condotta attiva da parte del datore di lavoro, essendo sufficiente a realizzare la condotta antidoverosa anche una mera partecipazione omissiva da parte del soggetto agente qualora non attui direttamente e personalmente la discriminazione, ma per suo conto agiscano i responsabili della gestione delle risorse umane o del personale all’interno dell’azienda ovvero egli usufruisca della discriminazione posta in essere dal soggetto che opera la selezione del personale (Agenzia per il lavoro) cui abbia dato incarico di selezionare candidati appartenenti a uno skill originariamente non discriminante, sia che si “avvantaggi” di un refuso non voluto, senza intervenire tempestivamente, qualora utilizzi la stampa per la pubblicazione dell’annuncio di ricerca del personale. In ogni caso, non commette illecito il datore di lavoro che applichi criteri obiettivamente discriminatori in ragione delle previsioni del contratto collettivo di lavoro, a norma dell’art. 27, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006, per espressa deroga legalmente ammessa soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti, specificamente e tassativamente individuate attraverso la contrattazione collettiva. Infine, sfugge da qualsivoglia rimproverabilità la condotta del datore di lavoro che opera in attività dei settori della moda, dell’arte o dello spettacolo, qualora condizioni l’assunzione alla appartenenza del lavoratore o della lavoratrice ad un determinato sesso, ma solo se e quando ciò risulti obiettivamente essenziale alla natura del lavoro o della prestazione (art. 27, comma 6, del D.Lgs. n. 198/2006).Discriminazione per orientamento, formazione e aggiornamentoLa stessa sanzione colpisce la violazione del divieto di discriminazione posto dal comma 3 dell’art. 27 del Codice delle pari opportunità, nel testo modificato dall’art. 1, comma 1, lett. r), n. 4), del D.Lgs. n. 5/2010. Si tratta del comportamento illecito del datore di lavoro che discrimina i lavoratori o le lavoratrici con riguardo alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento, sia per quanto attiene all’accesso, e quindi alla oggettiva possibilità di prendervi parte, sia per quanto concerne i contenuti, e cioè il programma di formazione o aggiornamento che si intende seguire o si è seguito. Qui la discriminazione opera anche nel caso in cui si faccia riferimento al genere o al sesso di appartenenza, con riguardo alla affiliazione o all’impegno in specifiche attività nell’ambito di un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, ma anche in qualsiasi altra organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione e, conseguentemente, alle prestazioni erogate da tali organizzazioni. Discriminazioni in materia di retribuzioneCon la medesima reazione punitiva l’art. 41, comma 2, del D.Lgs. n. 198/2006, sanziona la violazione del divieto di discriminazione posto dall’art. 28 dello stesso Codice delle pari opportunità. Viene punito il datore di lavoro che non soltanto non riconosce alle lavoratrici il diritto ad ottenere una identica retribuzione rispetto ai colleghi maschi, nel caso in cui le prestazioni lavorative siano uguali o di pari valore, ma anche che faccia ricorso a criteri differenziati, per il personale maschile e femminile, nell’individuare i sistemi di classificazione professionale adottati ai fini della determinazione delle retribuzioni da corrispondere ai lavoratori e alle lavoratrici, od anche per non averli elaborati in modo da eliminare le discriminazioni. Si rende colpevole dell’illecito il datore di lavoro che opera qualsiasi tipo di discriminazione, diretta e indiretta, relativa a un qualunque aspetto della retribuzione, a fronte di uno stesso lavoro o di un lavoro cui è attribuito un uguale valore. Discriminazioni in materia di mansioni, qualifica e carrieraSempre l’art. 41, comma 2, del D.Lgs. n. 198/2006, contiene la sanzione amministrativa per la violazione del divieto secco e preciso contenuto nell’art. 29 dello stesso D.Lgs. n. 198/2006: il datore di lavoro non può operare alcuna legittima discriminazione fra uomini e donne per quanto concerne l’assegnazione di qualifiche o di mansioni e per quanto attiene alla complessiva progressione nella carriera professionale all’interno dell’impresa. Discriminazioni in materia di prestazioni previdenzialiAncora con la reazione punitiva contenuta nell’art. 41, comma 2, del D.Lgs. n. 198/2006, viene garantita una tutela nuova con riferimento ai diritti sostanziali alle prestazioni previdenziali. Qui la sanzione amministrativa punisce il datore di lavoro che non abbia garantito ai lavoratori o alle lavoratrici i diritti sanciti dalle leggi vigenti in materia di previdenza e assistenza obbligatoria. L’art. 30 del D.Lgs. n. 198/2006, infatti, articola dettagliatamente le tutele che devono essere garantite in termini antidiscriminatori e, più ancora, di parità di trattamento. Rileva così, anzitutto, al comma 1 della disposizione citata, il riconoscimento, alla lavoratrice in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, del diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali. In secondo luogo (art. 30, comma 3), viene tutelato il diritto della donna lavoratrice a percepire gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico, con le stesse limitazioni e alle medesime condizioni dei colleghi maschi (ferma restando, nel caso della richiesta congiunta di assegni familiari da genitori separati, l’applicazione del criterio selettivo relativo al genitore che sia effettivamente convivente con il figlio). Infine (art. 30, commi 4-6) viene ad essere tutelato, in assoluta parità, il diritto dei lavoratori e delle lavoratrici, alle prestazioni spettanti ai superstiti. Omesso rapporto biennale sulla situazione del personale Al fine di prevenire e reprimere i fenomeni di discriminazione sopra evidenziati appare fondamentale l’accertamento della effettiva composizione per genere del personale dipendente dell’azienda e l’analisi del complessivo andamento dei “movimenti” di personale all’interno dell’impresa (in termini di assunzioni, progressione in carriera, licenziamenti e così via). Precisamente a questa finalità risponde la puntuale verifica della presentazione del rapporto obbligatorio già previsto dall’art. 9 della legge n. 125/1991, ora prescritto dall’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, come modificato dall’art. 3 della legge n. 162/2021. A norma del novellato art. 46, comma 1, del D.Lgs. n. 198/2006, infatti, i datori di lavoro pubblici e privati che occupano più di 50 dipendenti sono obbligati a redigere un rapporto ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile, secondo una distinzione in ragione delle singole professionalità e in relazione allo stato e all’andamento delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, nonché con riguardo agli eventuali interventi della Cassa integrazione guadagni, e al ricorso a licenziamenti, individuali o collettivi, prepensionamenti e pensionamenti, e, infine, per quanto attiene alla retribuzione effettivamente corrisposta. Le aziende pubbliche e private che occupano fino a 50 dipendenti possono, su base volontaria, redigere il rapporto (art. 46, comma 1bis), ma non saranno sanzionabili. Per quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 il rapporto contenente i dati indicati deve essere redatto esclusivamente telematica, secondo il modello predisposto dal Ministero del Lavoro con D.I. 29 marzo 2022, per la trasmissione telematica alle rappresentanze sindacali aziendali, con accesso diretto ai dati trasmessi da parte della consigliera e del consigliere regionale di parità. L’art. 5 del D.I. 29 marzo 2022 prevede che in fase di prima applicazione, limitatamente al biennio 2020-2021 il termine di trasmissione del rapporto è stato stabilito al 30 settembre 2022, mentre per i bienni successivi il termine è fissato al 30 aprile dell’anno successivo alla scadenza di ciascun biennio. Se l’inottemperanza si protrae per oltre 12 mesi, è disposta la sospensione per 1 anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda, oltre alla confermata sanzione amministrativa da euro 515 a euro 2.580 (art. 46, comma 4). Se, nel termine prescritto, i datori di lavoro obbligati alla compilazione e presentazione del rapporto non provvedano alla trasmissione dello stesso, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, su diretta e specifica segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali ovvero della consigliera o del consigliere regionale di parità, procede ad invitare le aziende stesse a provvedervi entro 60 giorni dal ricevimento dell’invito, che si caratterizza in effetti quale “ordine” e, più specificamente, come “disposizione”, mutatis mutandis rispetto a quanto stabilito dall’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004. In caso di inottemperanza alla “disposizione” impartita dall’Ispettorato interregionale, si applica l’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 520/1955, come sostituito dall’art. 11 del D.Lgs. n. 758/1994, successivamente modificato dall’art. 1, comma 1177, della legge n. 296/2006, che stabilisce per la violazione in argomento la sanzione amministrativa determinata col criterio normale del minimo (515 euro) e del massimo (2.580 euro) edittale. Passando ai profili più direttamente operativi occorre anzitutto evidenziare che trova applicazione, nell’ipotesi di illecita omessa trasmissione del rapporto a seguito di inottemperanza alla disposizione dell’INL, la diffida obbligatoria di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 124/2004, peraltro così come sancito nell’elenco allegato alla circolare 23 marzo 2006, n. 9. Il datore di lavoro che ottemperi alla diffida, trasmettendo il rapporto, potrà godere della riduzione massima della sanzione amministrativa alla misura pari al minimo edittale (515 euro). In caso contrario la notificazione dell’illecito amministrativo ammetterà il trasgressore al pagamento della sanzione in misura ridotta a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981, nell’ammontare pari al terzo del massimo edittale previsto dalla norma (860 euro). Il Ministero del Lavoro, con circolare 2 aprile 2001, n. 31, confermando il quadro procedurale descritto, ha precisato che la violazione consistente nella omessa tempestiva trasmissione del rapporto sullo stato del personale maschile e femminile di cui all’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 può legittimamente formare oggetto di indagine anche durante una normale ispezione del lavoro in azienda da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro o dell’Ispettorato di Area Metropolitana, ferma restando la competenza della Direzione interregionale del lavoro ad intimare la trasmissione entro 60 giorni in caso di inottemperanza. Da ultimo, si tenga presente che, in aggiunta alla sanzione amministrativa così delineata, nei casi più gravi di inadempimento, vale a dire se l’inottemperanza si protrae per oltre dodici mesi, potrà essere disposta, da parte degli organi erogatori e su specifica segnalazione della Direzione interregionale del lavoro, anche la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda (art. 46, comma 4, ultima parte, D.Lgs. n. 198/2006). Mendace o incompleto rapporto biennale sulla situazione del personale La legge n. 162/2021 ha inserito nell’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 un nuovo comma 4-bis, che affida all’INL il compito di verificare la veridicità dei rapporti e nel caso in cui accerti che quello trasmesso dall’azienda obbligata è un rapporto mendace o incompleto applica la sanzione amministrativa da 1.000 euro a 5.000 euro. Opera la diffida obbligatoria, al datore di lavoro che regolarizza si applica la sanzione ridottissima di 1.000 euro (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004). Trova applicazione anche l’istituto del pagamento della sanzione in misura ridotta ai fini dell’estinzione dell’illecito amministrativo, con sanzione pari a 1.666,66 euro (art. 16, legge n. 689/1981).Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/11/28/parita-genere-discriminazioni-sanzioni-datori-lavoro

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