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Archivio newsContributo integrativo al 4% anche per prestazioni professionali verso la PA
Sembra avviarsi ad una (lenta) soluzione la vicenda che riguarda gli iscritti alle Casse di Previdenza Private, nata a seguito dell’approvazione della c.d. “Legge Lo Presti”.
Premessa Le Casse di Previdenza Professionali, si articolano in due gruppi: quelle “storiche”, nate a partire degli anni ’50 come enti pubblici del parastato, privatizzate nel 1994 dal D. Lgs. 509/94 e quelle sorte ex novo in attuazione della legge n. 335/95, disciplinate dal D. Lgs. 103/96. La principale differenza tra questi due gruppi di Casse era che le prime gestivano sistema di calcolo pensionistico di tipo retributivo, mentre le seconde, nate grazie alla legge che aveva generalizzato nel sistema previdenziale pubblico italiano il sistema di calcolo contributivo, erano tenute ex lege all’applicazione di tale sistema di calcolo. Senza entrare nel dettaglio delle differenze tra i due sistemi di calcolo, basti rammentare che il sistema di calcolo retributivo è generalmente più “generoso” del sistema contributivo e che – per converso – il sistema di calcolo contributivo, pur essendo “sostenibile” per definizione (erogando prestazioni direttamente correlate al montante contributivo versato) crea problematiche di “adeguatezza” delle prestazioni, posto che se non vi è continuità di versamenti ovvero se si applicano aliquote contributive troppo basse, le prestazioni erogate sono di importo particolarmente basso. Nel corso degli anni, il Parlamento si è fatto carico del problema dell’adeguatezza delle prestazioni delle “nuove Casse” arrivando ad approvare, con la L. 133/2011 una modifica al citato D. Lgs. 103/96, secondo la quale «… Il contributo integrativo a carico di coloro che si avvalgono delle attività professionali degli iscritti è fissato mediante delibera delle casse o enti di previdenza competenti, approvata dai Ministeri vigilanti, in misura percentuale rispetto al fatturato lordo ed è riscosso direttamente dall'iscritto medesimo all'atto del pagamento, previa evidenziazione del relativo importo nella fattura. La misura del contributo integrativo di cui al primo periodo non può essere inferiore al 2 per cento e superiore al 5 per cento del fatturato lordo. Al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti alle casse o enti di cui al presente decreto legislativo e a quelli di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, che adottano il sistema di calcolo contributivo è riconosciuta la facoltà di destinare parte del contributo integrativo all'incremento dei montanti individuali, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica garantendo l'equilibrio economico, patrimoniale e finanziario delle casse e degli enti medesimi, previa delibera degli organismi competenti e secondo le procedure stabilite dalla legislazione vigente e dai rispettivi statuti e regolamenti. Le predette delibere, concernenti la modifica della misura del contributo integrativo e i criteri di destinazione dello stesso, sono sottoposte all'approvazione dei Ministeri vigilanti, che valutano la sostenibilità della gestione complessiva e le implicazioni in termini di adeguatezza delle prestazioni».. L’attuazione concreta della “Legge Lo Presti” All’esito dell’innovazione normativa ora illustrata, alcune delle Casse destinatarie della facoltà in questione (p. es. quella dei Periti Industriali) hanno, effettivamente, modificato i propri regimi previdenziali incrementando nel senso concesso dalla L. 133/11 e, cioè, incrementando l’aliquota del contributo integrativo e contestualmente inserendo una parte dell’importo così incassato - nel montante contributivo pensionabile individuale dei singoli iscritti. La “sorpresa” è giunta quando tali modifiche normative sono state sottoposte alla necessaria approvazione dei Ministeri Vigilanti: approvazione che rappresenta condizione necessaria affinchè le norme stesse entrino in vigore. Ebbene, in tale sede, il Ministero dell’Economia e delle Finanze - fornendo un’interpretazione letterale dell’inciso della legge secondo cui i provvedimenti di ritocco delle aliquote della contribuzione integrativa, debbano avvenire “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” – ha subordinato l’approvazione alla condizione che la maggiore aliquota non trovasse applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ma esclusivamente nei confronti della committenza privata. L’interpretazione politico-parlamentare della norma La citata interpretazione, al di là degli aspetti (ed effetti) economici che comporta tanto sui bilanci delle Casse che sulle prospettive pensionistiche dei professionisti, ha ingenerato perplessità: a) di ordine tecnico-giuridico da parte delle Casse interessate direttamente (e, come si vedrà, indirettamente); b) di ordine politico e di legittimità costituzionale, da parte di alcuni membri del Parlamento. L’insieme di tali perplessità è, quindi, confluito in un’interpellanza urgente presentata, il 5 settembre scorso, a prima firma dall’estensore della legge 133/11, On. Lo Presti. Gli elementi portanti della questione, sulla quale il Governo è stato chiamato a rispondere sono i seguenti: a) la legge in questione si rivolge indistintamente alla collettività, non operando distinzione tra committenza pubblica e privata e non vincolando i professionisti all’individuazione di trattamenti differenziati in dipendenza della natura pubblica o privata dei soggetti chiamati a riconoscere loro il contributo integrativo; b) la ratio della norma è quella di perseguire una maggiore adeguatezza delle prestazioni pensionistiche di tutti i professionisti iscritti a Casse che applicano il sistema di calcolo di tipo contributivo, mediante un aumento delle somme che entrano a far parte del montante contributivo; c) la differenziazione di trattamento della committenza in ragione del suo appartenere o meno al perimetro della pubblica amministrazione è contraddittorio sotto molteplici punti di vista e, in particolare: per l’evidente violazione del principio di eguaglianza formale e sostanziale, poiché a parità di prestazione professionale differenzierebbe l’onere in forza del mero dato formale della natura del soggetto contraente; per non parlare del fatto che interpretando la norma secondo quanto ipotizzato dal Ministero dell’economia, il futuro pensionistico di due professionisti dalla identica carriera lavorativa e reddituale si divaricherebbe – al momento del pensionamento - consentendo al professionista che, a parità assoluta di proventi professionali - abbia avuto una committenza esclusivamente o prevalentemente privata, di percepire un trattamento pensionistico maggiore del collega che abbia realizzato gli identici proventi attraverso rapporti con committenze pubbliche; d) per di più, si è creata persino una disparità di trattamento tra Casse e professioni. Infatti, a nessuna di quelle che hanno innalzato l’aliquota del contributo integrativo (p.es. Dottori Commercialisti) è stata imposta alcuna differenziazione in ragione della natura del committente e, anzi, (V. articolo “La riforma della previdenza degli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti”) il progetto di riforma presentato da Inarcassa per la sostenibilità a 50 anni della propria gestione, prevede espressamente – nell’ambito del passaggio al sistema contributivo, la c.d. “retrocessione” di un parte del contributo integrativo al montante contributivo individuale dell’iscritto, sulla base di un contributo integrativo già elevato a partire dal 2010. L’On. Lo Presti, nella sua interpellanza, evidenzia come quello che definisce un “errore” delle burocrazie ministeriali derivi dall’estrapolazione dal contesto normativo dell’inciso secondo il quale l’eventuale aumento dell’aliquota contributiva non dovrebbe comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Infatti, nella sua qualità di promotore e relatore della legge afferma che la tutela della finanza pubblica sottesa all’inciso, era riferita non già all’aliquota contributiva, ma al fatto che le eventuali modifiche apportate dalle singole Casse ai propri ordinamenti dovessero comunque tutelare l’equilibrio patrimoniale, economico e finanziario delle Casse stesse, al fine di evitare il loro “default” e – in tal caso sì - i conseguenti maggiori oneri per la finanza pubblica che deriverebbero dall’eventualità che la fiscalità generale si debba far carico del debito previdenziale di una o più Casse. L’interpellanza si concludeva, quindi, con la richiesta al Governo di “comunicare alle casse ed enti di previdenza dei liberi professionisti quale debba essere l’operatività della norma e… in quale misura debba essere applicata l’aliquota del contributo integrativo rispetto alle pubbliche amministrazioni, anche al fine di prevenire eventuali contenziosi …”. La recentissima posizione assunta dal Governo Il 20 settembre scorso, il Ministero del Lavoro – per il tramite del Vice Ministro Martone – ha risposto all’interpellanza fornendo degli elementi che – seppur basandosi su argomentazioni ambigui e discutibili – sembrano aprire alla possibilità che, in tempi ragionevolmente brevi, si pervenga ad una lettura ministeriale della norma più aderente alla sua ratio che, nella sostanza confermi l’inesistenza di qualsiasi differenziazione – nell’applicazione delle aliquote contributive - basata sulla natura giuridica della committenza. La posizione del Ministero del Lavoro quale espressa dal Vice Ministro Martone è sintetizzabile come segue: a) la questione attiene in via pressoché esclusiva la questione degli oneri per la finanza pubblica e si innesta, pertanto, nell’ambito del noto processo di riduzione delle spese pubbliche ai fini del rispetto dei vincoli posti a tal fine dal Patto di stabilità. Tale è il motivo per il quale il Ministero dell’economia e delle finanze ha – a suo tempo – espresso la ferma posizione che ha portata a dare prioritario rilievo ad una lettura del concetto di “invarianza di spesa” che comportasse la differenziazione delle aliquote in ragione della natura del committente. In sostanza, non si è voluto che la tutela dell’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche dei professionisti andasse (seppur pro quota) a discapito dei saldi di finanza pubblica, per il tramite dell’aumento degli oneri per le amministrazioni pubbliche; b) quanto, poi, alla circostanza per la quale i Ministeri hanno approvato l’innalzamento dell’aliquota del contributo integrativo dovuto dai Dottori Commercialisti, senza differenziare l’aliquota tra committenza pubblica e privata, il Vice Ministro Martone ha affermato come ciò fosse dipeso dalla diversa ratio della norma e, in particolare, dal fatto che in quel caso si trattava di norme tese alla stabilità finanziaria delle gestione, mentre le modifiche adottate ex lege 133/11 erano tese all’incremento delle prestazioni pensionistiche individuali. All’esito di tale “difesa” del passato, il Vice Ministro ha tuttavia dato dei chiari segnali di apertura ad un prossimo mutamento di indirizzo. In particolare, egli ha evidenziato come siano nel frattempo intervenute due “novità” che hanno già portato il Ministero del Lavoro a chiedere ai competenti Uffici del Ministero dell’Economia di “… rivalutare con attenzione la questione nel suo complesso, senza precludere un esito interpretativo diverso da quello a suo tempo rappresentato”. Le novità indicate dal Vice Ministro sono le seguenti: 1) l’avventa abolizione delle tariffe professionali e ”dei minimi tariffari”: circostanza che “… consente di ipotizzare una soluzione la quale coniughi nel modo più adeguato le prerogative delle Casse ed enti … con la salvaguardia degli equilibri di bilancio”; 2) la “… consapevolezza che l’instaurazione di un diverso trattamento contributivo tra professionisti che rendono servizi in tutto assimilabili, e per i quali il discrimen sarebbe rappresentato unicamente dal committente del servizio pone alcuni problemi di tenuta costituzionale, cui il Governo non può essere indifferente”. Conclusioni e prospettive La vicenda in commento è un ulteriore puntata, del problematico rapporto dei Governi con le Casse di previdenza professionali: un rapporto, nell’ambito del quale, all’enunciazione teorica del rispetto dell’autonomia riconosciuta dalle norme, fanno da contraltare – nella pratica - reiterati esempi di violazioni di tale autonomia, oltre che l’adozione di provvedimenti contraddittori che – da un lato – pretendono azioni concrete volte alla sostenibilità di lungo periodo delle gestioni e, dall’altro – riducono le risorse economiche disponibili ai fini del perseguimento della sostenibilità stessa, come da ultimo avvenuto con il “prelievo forzoso” previsto a carico delle Casse dall’art. 8 del D. L. 95/2012 sulla c.d. “spending review”. Vediamo la vicenda concreta: dopo circa un decennio di esperienza previdenziale delle Casse nate dal D. Lgs. 103/96, era emerso chiaramente il problema dell’adeguatezza delle prestazioni che il sistema di calcolo contributivo consentiva loro di assicurare ai propri iscritti. E’ per questo che, il 23 luglio 2008 era stato avviato l’iter del progetto poi divenuto – tre anni esatti dopo - la legge 133/2011. Senza bisogno di particolari approfondimenti negli atti parlamentari, lo scopo della legge era evidente: incrementare l’ammontare delle prestazioni pensionistiche conseguibili dalla generalità degli iscritti, senza minare la sostenibilità dei conti delle Casse. L’obiettivo era stato perseguito mediante l’autorizzazione all’utilizzo di parte del contributo integrativo, a condizione di un suo aumento. Questi “cardini” del problema erano ben noti al Governo (ed ai Ministeri Vigilanti) che – come è ovvio – hanno avuto parte attiva nell’iter che ha portato all’approvazione della legge e, ciononostante, si è assistito a quanto “denunciato” dall’interpellanza appena illustrata. Facendo riferimento agli atti ufficiali, ovverossia alla risposta del Vice Ministro Martone, è evidente quanto segue: 1) non è utile e, anzi, è fuorviante, addentrarsi in questioni ermeneutiche o di interpretazioni concettuali in merito all’inciso sull’invarianza degli oneri di finanza pubblica, per il semplice motivo che l’intero iter di approvazione della norma è “solare” nell’escludere che vi fosse una qualsiasi volontà del legislatore di differenziare le posizioni debitorie della committenza pubblica rispetto a quella privata; 2) prima che discutibile dal punto di vista concettuale, l’affermazione relativa alla differente ratio sottesa all’approvazione dell’aumento dell’aliquota della Cassa Dottori Commercialisti rispetto agli aumenti deliberati ex lege 133/2011 è tecnicamente errata, Infatti, la legge 133/2011 consente di destinare “parte” del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali, Dal che deriva che – in caso di aumento dell’aliquota – una parte della maggior somma resta comunque “utile” al miglioramento dei saldi e, quindi, della gestione delle Casse, così come avviene per la – approvata – modifica della Cassa dei Dottori Commercialisti. E, quindi, per converso, una “condizione coatta” che costringe alla differenziazione delle aliquota incide negativamente sulla sostenibilità dei conti delle Casse, e – con dubbia coerenza - lo fa proprio quando il Governo impone alle Casse l’adozione di misure draconiane per l’incremento delle prospettive di sostenibilità di lungo periodo da un arco temporale di trenta anni ad uno di cinquanta anni. D’altro canto, le “novità” assunte dal Vice Ministro Martone a sostegno dell’ipotesi di un possibile mutamento di indirizzo, lasciano abbastanza perplessi. Affermare che l’abolizione dei minimi e del sistema tariffario apre alla possibilità di applicare l’aliquota maggiorata anche alla committenza pubblica, o ha poco senso, vista la totale “non interferenza” dei due aspetti. Oppure lascia intendere che le pubbliche amministrazioni potrebbero versare l’aliquota maggiorata, semplicemente “rivalendosi” sui professionisti attraverso una contrattazione al ribasso dell’onorario per la prestazione professionale, basata sul loro evidente potere contrattuale. Tale seconda ipotesi, al di là del suo vago sapore ricattatorio, tradirebbe comunque la ratio della legge. Infatti, se nei rapporti con la P.A. la somma algebrica dell’aumento del contributo integrativo e della riduzione dell’importo riconosciuto per onorari rimane pari a zero (o, peggio, si riduce), il montante contributivo dei professionisti non viene incrementato, con buona pace del Parlamento, che ha approvato una legge volta a migliorare le prestazioni pensionistiche. La seconda “novità” evidenziata dal Ministero del Lavoro appare poi inesistente, in quanto tale. Infatti, la “consapevolezza dei problemi di tenuta costituzionale” generati dalla posizione del Ministero dell’Economia appare evidente ictu oculi a chiunque ponga attenzione alla vicenda nei termini sopra riassunti (e che indubbiamente saranno stati a suo tempo rappresentati ai Ministeri dalle Casse interessate). In conclusione, può dirsi, parafrasando la replica dell’On. Lo Presti al Vice Ministro Martone, che la posizione rappresentata dal Ministero del Lavoro è positiva nella (sola) misura in cui possa “motivare” un mutamento di indirizzo. E’ anzi auspicabile che sia colto l’attimo e si approfitti dell’occasione data dalla necessità di valutare (ed approvare) i provvedimenti di riforma adottati dalle Casse per assicurare la sostenibilità a 50 anni, per rivedere quello che – a tutti gli effetti – appare (quantomeno) un errore del Ministero dell’economia e delle finanze. Anche perché – proprio in un’ottica di sostenibilità – più tempo passa e maggiore è il danno economico-previdenziale che l’ingiustificata presa di posizione ministeriale arreca alla sostenibilità delle Casse e, quel che più conta, alla posizione pensionistica dei loro iscritti. Copyright © - Riproduzione riservata