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Archivio newsSalario minimo: verso una definizione in linea con la Costituzione
Sul tavolo, oggi, vi sono in Parlamento diverse proposte di legge sul tema del salario minimo, accompagnate da accesi dibattiti non privi di elementi di confusione. Ma la proposta presentata, la scorsa settimana, dai membri PD della Commissione Lavoro del Senato segna un ragionevole salto di qualità: conferisce valore di legge ai trattamenti minimi tabellari definiti dai contratti nazionali di ciascuna categoria, con riferimento ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Un salario di legge, parallelo, viene proposto, in via residuale, solo per chi non ha ancora un contratto di lavoro. Con questa scelta si riafferma il fatto che è la contrattazione lo strumento attraverso il quale vengono definiti i vari aspetti dei rapporti di lavoro. Una svolta in linea con la nostra Costituzione.
Sul tema del salario minimo è in corso un acceso dibattito non privo di elementi di confusione. Quando si parla di salario - minimo e non - si deve tener conto delle consuetudini che vigono nei diversi Paesi europei. In poche parole, il salario minimo di legge può avere una funzione specifica laddove non esiste una contrattazione collettiva codificata a livello nazionale. Non è il caso dell’Italia. Nel nostro Paese la definizione dei minimi salariali ha una base di riferimento in alcuni articoli della Costituzione repubblicana.
L’articolo 36 della Carta afferma, infatti, che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Ma è l’articolo 39, nel suo ultimo capoverso, a stabilire che è la contrattazione collettiva il luogo della definizione dei rapporti di lavoro: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Una norma che non ha mai trovato applicazione.
E qui entra anche in scena l’articolo 2099 del codice civile, le cui indicazioni sono precise. Tale articolo, infatti, stabilisce una serie di punti fermi. Primo: la retribuzione è composta di più elementi, ossia, la paga base, l’indennità di contingenza e le retribuzioni accessorie che si sommano a quella di base. Secondo: la retribuzione proporzionata è sancita e prescritta dall’articolo 36 della Costituzione, e “in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”. Accordo tra le parti che ci rimanda, appunto, all’articolo 39 della Carta, come abbiamo ricordato pocanzi.
Per noi, dunque, la contrattazione tra le parti - che siano dotate di effettiva rappresentatività - è lo strumento attraverso il quale vengono definiti i vari aspetti che caratterizzano il rapporto di lavoro. E tra questi, i cosiddetti minimi tabellari che stabiliscono - contratto per contratto, livello di qualifica per livello di qualifica - le retribuzioni minime. Ovvero, retribuzioni al di sotto delle quali non si può comunque andare, ma che possono essere incrementate dalla contrattazione individuale o da quella collettiva esercitata a livello nazionale, territoriale, aziendale o di gruppo. Perciò, definire per legge un livello salariale minimo uguale per tutti, anche per chi ha un contratto di lavoro - di fronte alla complessità del mondo della produzione - appare come un obiettivo velleitario e astratto dalla realtà.
E allora, perché si dovrebbe realizzare un intervento legislativo sul salario minimo? Se un obiettivo è quello di sconfiggere il dumping salariale, esso si realizza anche attraverso il lavoro di censimento e di comparazione che il Cnel sta conducendo tra i vari contratti stipulati per i singoli settori merceologici, che può consentire di fissare, intanto, gli standard salariali inderogabili, prendendo a riferimento i cosiddetti contratti “leader” stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Chi non rispetta questi standard non dovrebbe avere la certificazione di qualità, indispensabile per poter accedere alle regole che definiscono la rappresentatività delle parti sociali.
Per analogia, allargando la riflessione all'intero mondo del lavoro, per i liberi professionisti si pone l'esigenza di procedere sulla strada della fissazione di un equo compenso, la cui utilità è dimostrata dai tanti eccessi che si sono manifestati, in questi anni, nella corsa al ribasso dei loro onorari.
Sul tavolo, oggi, vi sono in Parlamento diverse proposte di legge. Al Senato una proposta del Pd - di fatto superata da un’altra presentata la scorsa settimana, che vedremo tra poco - che colloca il salario minimo a 9 euro netti orari (che equivale a circa 12 euro lordi) e una proposta del MoVimento 5 Stelle che si attesta a 9 euro lordi. In entrambe le proposte il salario di legge si applica comunque a tutti i lavoratori, anche a quelli che hanno un contratto di lavoro (art. 2, comma 1, del Disegno di legge n. 658, Catalfo: “Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente … il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale ... e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Alla Camera, sempre il Pd, aveva presentato tempo fa un’altra proposta che andava nella direzione opposta a quella presentata al Senato, che escludeva dal salario minimo i lavoratori che già dispongono di un contratto nazionale di lavoro.
Ma è la nuova proposta presentata dai membri Pd della Commissione Lavoro del Senato, la scorsa settimana, a segnare un ragionevole salto di qualità nella discussione. Andiamo a vedere il contenuto della proposta che è importante per varie ragioni.
Nella logica esposta sopra, questa proposta, a prima firma Nannicini, conferisce valore di legge ai trattamenti minimi tabellari definiti dai contratti nazionali di ciascuna categoria, con riferimento ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Mentre un salario di legge, parallelo, viene proposto, in via residuale, solo per chi non ha ancora un contratto di lavoro, istituendo una apposita Commissione paritetica presso il Cnel, che avrà il compito di stabilirne l’importo. La Commissione, costituita con le parti sociali, è previsto che abbia anche il compito di definire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con questa scelta si riafferma il fatto che è la contrattazione lo strumento attraverso il quale vengono definiti i vari aspetti dei rapporti di lavoro. E, tra questi, proprio i minimi tabellari cui ci siamo già riferiti e che, nella proposta del Pd, avranno il valore della legge. Dunque, la contrattazione collettiva, a partire dal livello nazionale, ha permesso alle parti di stabilire, oltre a tanti altri aspetti del rapporto di lavoro, i livelli salariali minimi aderenti alla realtà delle singole categorie.
Perciò, lo ribadiamo: non ha senso definire per legge un trattamento economico minimo uguale per tutti. Non deve sfuggire il fatto che oltre la paga base, le retribuzioni contrattuali contengono scatti di anzianità, progressione professionale, maggiorazioni per straordinari e turni, ferie, festività, permessi retribuiti, trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, oltre alle tutele in caso di malattia, maternità e infortunio: diritti e tutele che vanno ben al di là di un minimo tabellare o di un salario minimo fissato per legge.