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Archivio newsReddito di cittadinanza e incentivi alle imprese. Volano per l’occupazione?
Sembra un destino che, in Italia, i disoccupati non vengano trattati tutti allo stesso modo, pur essendo il loro stato di bisogno il medesimo. È avvenuto con la riforma Fornero del 2012, quando si è voluto superare il regime della mobilità per rafforzare la tutela ordinaria contro la disoccupazione. Avviene ora con il reddito di cittadinanza, che riconosce agevolazioni contributive solo alle imprese che assumono i beneficiari del reddito privi d'impiego. Per cui, al di là delle incertezze applicative, l'interrogativo maggiore sembra essere quello se la concentrazione degli sforzi a favore di questa platea servirà davvero a produrre nuova occupazione o porterà, piuttosto, a dedicare meno impegno agli altri disoccupati.
Con la pubblicazione della legge 28 marzo 2019, n. 26, che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, la complessa impalcatura normativa prevista per il reddito di cittadinanza (Rdc) è divenuta definitiva, per cui l’istituto è ora atteso alla prova dell’implementazione.
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Ci si soffermerà qui sul regime, delineato dall’art. 8 del provvedimento, delle agevolazioni contributive previste per le imprese che assumono lavoratori beneficiari del Rdc, con particolare riguardo alle novità, pur non eclatanti, introdotte dalla legge di conversione.
Merita ricordare che la previsione di questo regime di incentivi è il segno più vistoso della multifunzionalità che il Governo ha cercato di dare al Rdc, che da un lato è misura assistenziale finalizzata a sollevare i cittadini bisognosi da condizioni di povertà, ma dall’altro è rivolto a dare vita a un circuito privilegiato di reinserimento (o inserimento tout court) dei soggetti beneficiari nel mercato del lavoro. E se dispositivi di condizionalità erano presenti, ad esempio, anche nell’immediato antecedente di questo istituto, il Reddito di inclusione sociale, è la prima volta, se non ci si inganna, che nel contesto di una misura almeno in partenza assistenziale si cerca di promuovere la ricollocazione lavorativa dei relativi beneficiari anche intervenendo sulle convenienze dei datori di lavoro (beninteso del solo settore privato, come precisato in sede di conversione).
Ovviamente, però, questo tipo di scelta presenta la controindicazione di sfavorire, comparativamente - e anche al netto del concreto pericolo di comportamenti opportunistici da parte dei lavoratori così come delle imprese - i soggetti disoccupati non beneficiari del Rdc.
La dimostrazione più plastica di questa retrocessione è data dalla sospensione (si fa per dire…) fino al 31 ottobre 2021, nei confronti dei disoccupati “ordinari” beneficiari di NASpI da almeno 4 mesi (non ne sono toccati, invece, i lavoratori in CIGS coinvolti in accordi di ricollocazione: v. ANPAL News 5 febbraio 2019), della corresponsione dell’assegno di ricollocazione, destinato prioritariamente, d’ora in poi, ai beneficiari del RdC (v. art. 9, comma 7, confermato dalla legge di conversione).
Ora, se si pensa che l’assegno aveva rappresentato la novità più interessante introdotta dalla riforma dei servizi per il lavoro di cui al D. Lgs. n. 150/2015, per poi passare attraverso una faticosa fase di implementazione che forse era sul punto di risolversi, si può misurare quanto grave sia l’aver congelato all’improvviso, con un tratto di penna, questa esperienza, considerato a maggior ragione il fatto che una quota dei beneficiari di Rdc non sarà comunque, per condizioni personali e/o per la situazione dell’area di riferimento, effettivamente ricollocabile. Peraltro, la modestia delle proteste che si sono udite nei confronti di questa scelta (ad es., per parlare dell’ambiente che meglio conosco, da parte della dottrina giuslavoristica) dimostra quanto poco tuttora si creda nelle possibilità di successo delle politiche attive del lavoro, pur a parole tanto invocate.
Più in generale, sembra un destino che, in Italia, i disoccupati non vengano trattati tutti allo stesso modo, pur essendo il loro stato di bisogno, anche al cospetto dell’art. 38 Cost., il medesimo (senza con ciò voler negare che vi siano condizioni, come quella della disoccupazione di lunga durata, che richiedono interventi speciali). E’ ancora vivo il ricordo di quanto sia stato faticoso, da parte della Riforma Fornero del 2012, superare il regime della mobilità per rafforzare la tutela ordinaria contro la disoccupazione, tramite l’ASPI poi ribattezzata NASpI. Adesso, invece, la deroga viene a prodursi nella fascia bassa del mercato: e se ciò, va riconosciuto, potrebbe ritenersi giustificato dalla deteriore condizione economica di queste persone (sempre che sia autentica, naturalmente: in un paese come l’Italia la cautela è d’obbligo), a venire incontro a essa dovrebbe bastare la provvidenza economica, senza doversi spingere al punto di abolire l’assegno di ricollocazione per disoccupati che a questo punto divengono di serie B. E rispondere che ciò è avvenuto per “far quadrare i conti” non sarebbe, evidentemente, sufficiente.
Venendo agli incentivi, e in particolare alle messe a punto fatte dalla legge di conversione, il contenuto base della misura è previsto dal comma 1 dell’art. 8. Al datore di lavoro privato che comunica alla piattaforma digitale ANPAL dedicata al Rdc la disponibilità di posti vacanti, e che su tali posti (importante puntualizzazione, che era già nel decreto-legge) assuma a tempo pieno e indeterminato soggetti beneficiari di Rdc, anche attraverso l’attività di agenzie private per il lavoro accreditate ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 150/2015, è riconosciuto “l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, nel limite dell’importo mensile del Rdc percepito dal lavoratore all’atto dell’assunzione, per un periodo pari alla differenza tra 18 mensilità e le mensilità già godute dal beneficiario stesso, e comunque per un importo non superiore a 780 euro mensili e per un periodo non inferiore a 5 mensilità”. In caso di rinnovo del Rdc ai sensi dell’art. 3, comma 6, l’esonero contributivo è concesso nella misura fissa di 5 mensilità.
L’importo massimo di beneficio mensile non può comunque eccedere l’ammontare totale dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore assunto per le mensilità incentivate, anche qui con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL.
Con riguardo alle assunzioni utili ai fini dell’incentivo, la legge di conversione ha precisato (anche se a rigore non ve ne sarebbe stato bisogno) che tra le assunzioni a tempo indeterminato sono incluse anche quelle in apprendistato (in tutte e tre le tipologie, è da supporre). Dovrebbe essere escluso, invece, il contratto di lavoro intermittente, che è sì un contratto di lavoro subordinato ma certamente non a tempo pieno. Con questo tipo di destinazione soggettiva prosegue, quindi, il tentativo di incentivare il contratto di lavoro standard, già praticato da precedenti Governi.
Un punto non chiaro mi pare quello del destino dei contributi dovuti dal lavoratore. Posto che essi non debbono essere versati se c’è l’esonero, che restino appannaggio del lavoratore consentirebbe a questi di godere di una retribuzione superiore a quella spettante ai lavoratori di pari livello, il che mi sembrerebbe privo di qualunque giustificazione, anche costituzionale.
Contestualmente all’assunzione del beneficiario di Rdc, il datore di lavoro è tenuto a stipulare, presso il Centro per l’impiego competente, ma soltanto “ove necessario” (cioè, sembra, ove il lavoratore ne abbia bisogno: è lasciata, dunque, una certa discrezionalità nel valutare se questo bisogno vi sia, ma deve, questa valutazione, essere portata comunque al vaglio del Centro?), un patto di formazione col quale garantisce al beneficiario un percorso formativo o di riqualificazione professionale.
Tra le condizioni soggettive che il datore di lavoro deve soddisfare per poter godere dell’incentivo la legge di conversione ha aggiunto quella di essere in regola con gli obblighi di assunzione di lavoratori disabili o comunque beneficiari della tutela di cui alla legge n. 68/1999.
Infine, è coerente con il regime di questi incentivi (che si applicano a condizione che il datore di lavoro realizzi un incremento occupazionale netto del numero di dipendenti a tempo indeterminato: comma 3, non toccato dalla legge di conversione), altresì, che il datore di lavoro li perda, e sia tenuto a restituirli (maggiorati delle sanzioni civili) nel caso di licenziamento del beneficiario di Rdc effettuato nei 36 mesi successivi all’assunzione (puntualizzazione temporale introdotta in sede di conversione).
Tra le eccezioni in presenza delle quali si ha diritto a mantenere l’incentivo pur avendo licenziato il soggetto è stato apparentemente incluso non soltanto il licenziamento disciplinare, come è sacrosanto, ma anche quello economico. Si fa riferimento, infatti, a licenziamenti intimati “per giusta causa o per giustificato motivo”: ma quest’ultima ipotesi include, a mente dell’art. 3 legge n. 604/1966, non soltanto il giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali) ma anche quello oggettivo (licenziamento motivato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa).
In questo modo, l’unico licenziamento legittimo che fa scattare la conseguenza della restituzione dell’incentivo è il licenziamento collettivo. Resta il dubbio che fosse questa l’intenzione, ed è dubbio, in ogni caso, che si tratti di una soluzione coerente, avendo viceversa senso (anche alla luce del principio di cui all’art. 31, comma 1, lett. f), del D. Lgs. n. 150/2015) che chi licenzia per giustificato motivo oggettivo nell’ambito del triennio non possa trattenere l’incentivo. Allo stato, tuttavia, non è così.
Una spinta verso il lavoro il provvedimento cerca di darla, infine, anche mediante la previsione per cui (comma 2) gli enti bilaterali di formazione e i fondi interprofessionali per la formazione continua possono stipulare, presso i Centri per l’impiego o i soggetti privati accreditati, laddove tale possibilità sia prevista da provvedimenti (non più, dopo la conversione, soltanto leggi) regionali, un patto di formazione con il quale garantiscono al beneficiario del Rdc un percorso formativo o di riqualificazione professionale.
Se, in seguito a questo percorso formativo, il beneficiario del Rdc ottiene un lavoro a tempo pieno e indeterminato, coerente con il profilo formativo, fermo l’incentivo a favore del datore di lavoro, l’ente consegue (sotto forma di sgravi contributivi) un importo pari alla metà della dell’importo mensile di Rdc percepito dal lavoratore all’atto dell’assunzione, per un massimo di 390 euro mensili e non inferiore a 6 mensilità.
Non resta, a questo punto, che attendere questa disciplina al test dell’operatività. Al di là delle segnalate incertezze applicative, la criticità maggiore mi sembra essere quella che gli incentivi sono stati concepiti prevalentemente come misura di supporto all’intervento assistenziale che era, come è noto, al centro degli impegni elettorali.
L’auspicio è che la parte di politica attiva del provvedimento, inclusi gli incentivi all’assunzione, si riveli efficace (del che fa parte la condizione che non ne venga fatto abuso). Se così non fosse, si sarebbe perso ulteriore tempo nella costruzione, che tarda da sempre a venire anche a causa di persistenti ritardi culturali, di un sistema di servizi adeguato a gestire la realtà, che va ben oltre il novero dei beneficiari del Rdc, di un mercato del lavoro sempre più caratterizzato, nel suo andamento fisiologico, da transizioni da un posto di lavoro all’altro. Ciò senza con questo sottovalutare - tengo a ribadire - il grave fenomeno delle persone che versano in condizioni di assoluta povertà.