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Archivio newsLicenziamento disciplinare e sospensione cautelare: quando l’azienda può farne ricorso?
La sospensione cautelare non è un provvedimento disciplinare, ma uno strumento che consente al datore di lavoro, in situazioni di particolare rilevanza o gravità, di svolgere indagini sui fatti contestati al dipendente, tenendolo fuori dall’azienda e garantendogli comunque la retribuzione. La sospensione cautelare è espressione del potere direttivo ed organizzativo aziendale in pendenza dell’accertamento di possibili responsabilità disciplinari o penali del lavoratore. Non così per il provvedimento di licenziamento disciplinare che rientra, invece, tra le sanzioni: quali sono le conseguenze in caso di violazione delle garanzie procedurali?
Il comma 4 dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) contiene una casistica delle sanzioni disciplinari di natura conservativa (dall'ammonizione verbale alla sospensione dal lavoro) che possono essere adottate dall'imprenditore. Nella norma sono indicati i limiti quantitativi massimi che, nelle previsioni contrattuali, sono stati, talora, abbassati: spesso, taluni contratti collettivi stabiliscono, minuziosamente, il tipo di sanzione da irrogare in relazione alla mancanza commessa.
I quesiti più importanti che scaturiscono dalla lettura di questa disposizione, riguardano la c.d. sospensione cautelare ed il licenziamento disciplinare che, ovviamente, non è una sanzione conservativa.
La sospensione cautelare non è un provvedimento disciplinare ma uno strumento a disposizione del datore di lavoro mediante il quale, in talune situazioni di particolare rilevanza o gravità, può esperire indagini sui fatti contestati al dipendente tenendolo fuori dalla struttura aziendale ma garantendo la corresponsione della retribuzione. Le retribuzioni competono al dipendente anche nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con una sanzione conservativa (ammonizione, multa o sospensione).
La durata è circoscritta al tempo occorrente per lo svolgimento degli accertamenti e la sua efficacia si risolve con l'esaurimento degli stessi: infatti, se il lavoratore non viene licenziato il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui fu sospeso, mentre se egli lascia il servizio, la perdita del posto ed i diritti connessi risalgono alla data della sospensione.
La sospensione cautelare esprime un potere di autotutela dell'imprenditore: essa è temporanea, ha carattere discrezionale e trova il proprio fondamento giuridico negli articoli 1206 c.c. (rifiuto della prestazione in presenza di un motivo legittimo) e 2104 c.c. (potere direttivo del datore di lavoro).
La sospensione cautelare non costituisce esercizio del potere disciplinare e, come tale, non è sottoposta alle procedure tipiche previste dall'art. 7 (Cass., 17 febbraio 1981, n. 1104): essa appare come una legittima espressione del potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro in pendenza dell’accertamento di possibili responsabilità disciplinari o penali del dipendente, per il tempo necessario all’esaurimento del procedimento stesso, destinato ad essere superato dalla conclusione della procedure e non priva il lavoratore della retribuzione a meno che ciò non sia espressamente previsto dalla legge o dal contratto.
Tale sospensione pone, inoltre, altri problemi correlati alla circostanza che la stessa possa essere stata adottata in conseguenza del fatto che il dipendente è sottoposto a procedimento penale, alla conclusione favorevole di quest'ultimo ed alla durata. La soluzione consiste nel riconoscimento del diritto alle retribuzioni arretrate qualora il procedimento si concluda in senso favorevole al lavoratore: ciò appare una logica conseguenza del principio che i rischi del provvedimento disciplinare ricadono sull'imprenditore ed è in linea con i principi fissati sia dalla Corte di Cassazione che da quella Costituzionale, nella sentenza n. 168 del 28 novembre 1973.
II problema della durata massima della sospensione cautelare del dipendente oggetto di accertamento penale, in assenza di termini finali previsti dalla contrattazione collettiva, è stato risolto dalla giurisprudenza di merito, raccordandolo al momento in cui l'accertamento stesso si sia concluso ed il datore di lavoro ne è sia venuto a conoscenza.
Il provvedimento di licenziamento disciplinare rientra tra le sanzioni ma, fermo restando il ricorso all'autorità giudiziaria, può essere sottoposto all'esame del collegio di conciliazione ed arbitrato, unicamente nel caso di una specifica previsione del contratto collettivo (come affermato, ad esempio, già in passato per l’Enel, FFSS, Ente Poste, ecc.).
La disposizione contenuta al comma 4 dell'art. 7, secondo la quale, ferma restando la previsione della legge n. 604/1966, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi nel rapporto di lavoro, ha prodotto, negli anni passati, un grosso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza sull'applicabilità o meno ai licenziamenti disciplinari della procedura prevista dal suddetto art. 7.
Un chiarimento definitivo sulla materia è intervenuto con la sentenza n. 204 della Corte Costituzionale del 30 novembre 1982, con la quale sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi i primi tre commi dell'art. 7 nella parte in cui non prevedono per il lavoratore oggetto di licenziamento le medesime garanzie procedurali previste per i lavoratori colpiti da sanzioni di minore portata.
La Consulta, in sostanza, ha ritenuto di dover affermare che "chi è perseguito per una infrazione, deve essere posto in grado di conoscere l'infrazione stessa e la sanzione": tale principio vale per tutti i lavoratori, ivi compresi i dirigenti.
La Corte Costituzionale non ha evitato, però, il perpetuarsi in giurisprudenza della disputa tra una concezione "formalistica " ed una "ontologica " del licenziamento. Con la prima, un licenziamento disciplinare può essere considerato tale soltanto in presenza di una specifica indicazione contrattuale o legislativa. Con la seconda, un licenziamento è disciplinare ogni volta che un determinato comportamento è addebitabile a colpa del lavoratore. Le Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 1° giugno 1987, n. 4823) hanno sciolto il contrasto in favore della tesi "ontologica" sostenendo che il licenziamento determinato da inadempienze o mancanze del lavoratore ha sempre natura disciplinare, a prescindere dalla circostanza che esso sia inserito o meno nel codice disciplinare: la conseguenza è che lo stesso è assoggettato alla procedura prevista dai primi tre commi dell'art. 7.
In ordine alla questione relativa alla affissione del codice occorre sottolineare come la Corte di Cassazione, anche in altre decisioni, anche recenti, abbia tenuto un atteggiamento interpretativo della sentenza della Corte Costituzionale, affermando che ai fini dell'irrogazione di un licenziamento "ontologicamente disciplinare", non è necessaria la previa affissione, se la mancanza fatta valere dipende dalla violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di una specifica previsione. Tale concetto è stato, nel corso del 2017, ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14862 che ha richiamato analoghi orientamenti espressi nel 2000, nel 2001, e nel 2004 con le sentenze n. 14615, 6134 e 23120.
La Corte Costituzionale non ha, invece, ritenuto affetta da incostituzionalità la previsione del comma 5, la quale stabilisce il termine di 5 giorni per la presentazione delle giustificazioni, così come avviene per le "sanzioni conservative". Tale assunto si basa sul principio che "i diritti inviolabili del lavoratore non sono vulnerati dalla mancata procrastinazione dell'inizio del licenziamento disciplinare" e che non è violato l'art. 24 Cost. in quanto non è precluso il diritto di adire l'autorità giudiziaria.
C'è, tuttavia, da osservare come, partendo dalla rilevazione del carattere "non vincolistico" della pronuncia di rigetto della Corte, alcune interpretazioni di licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo siano state ricondotte alla osservanza del termine previsto per il "diritto a difesa".
Il problema del c.d. licenziamento "ad nutum" è stato affrontato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 427 del 25 luglio 1989: con essa la Consulta ha dichiarato illegittimi i commi 2 e 3 dell'art. 7 della legge n. 300/1970 nella parte in cui escludono l'applicabilità ai licenziamenti disciplinari delle tutele riguardanti la contestazione di addebito e l'audizione a difesa del lavoratore intimato da un datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze meno di 16 dipendenti (la pronuncia è antecedente alla legge n. 108/1990). Gli argomenti portati a sostegno di tale tesi fanno, giustamente, riferimento a "principi di civiltà giuridica" ed alla "parità di trattamento" sancita dall'art. 3 della Costituzione.
Ma quali sono le conseguenze del licenziamento disciplinare irrogato senza l'osservanza delle procedure invocate dalla Corte Costituzionale o anche in presenza di fatto insussistente o non punibile con una sanzione espulsiva?
Ipotesi 1 – Tutela reale
Se la questione riguarda un dipendente da impresa con un organico dimensionato sopra i 15 dipendenti assunto prima del 7 marzo 2015 con la piena applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 la conseguenza è una sola: la reintegrazione nel posto di lavoro, anche nelle ipotesi in cui,l'illegittimità del licenziamento riguardi ipotesi non specificatamente previste dal medesimo art. 18 ("forza espansiva" della norma) con la corresponsione di una indennità risarcitoria non superiore alle dodici mensilità (dedotto quanto percepito con altra attività e l’eventuale “aliunde perceptum”, oltre al pagamento dei contributi per tutto il periodo di “scopertura”. |
Ipotesi 2 – Tutele crescenti
Diverso appare il discorso relativo ai dipendenti rientranti sotto le “tutele crescenti” previste dal D. Lgs. n. 23/2015: la reintegra, con il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per il periodo compreso tra il licenziamento e l’effettiva reintegra di esercitare, dedotto l’eventuale “aliunde perceptum” ed il possibile “aliunde percipiendum” entro il tetto massimo di dodici mensilità ed il pagamento dei contributi previdenziali per il periodo “scoperto”, è chiaramente prevista nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa vengano meno per insussistenza del fatto materiale contestato (anche la violazione della procedura lo fa ritenere, a mio avviso, insussistente). Il lavoratore ha anche la possibilità di esercitare il c.d. opting out (ossia la rinuncia al posto di lavoro) previo il pagamento di 15 mensilità, calcolate con le modalità sopra descritte. |
La sussistenza del fatto (magari, tenue rispetto alla sanzione espulsiva), essendo preclusa al giudice ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, può portare soltanto alla erogazione di una indennità risarcitoria che, però, oggi deve tener conto di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 194 depositata l’8 novembre 2018: il criterio dell’anzianità aziendale (due mensilità all’anno partendo da una base di tre fino ad un massimo di trentasei mensilità) fissato dall’art. 3, comma 1 (dopo le modifiche intervenute con il D.L. n. 87/2018), seppur importante, può essere integrato dal giudice con gli altri criteri previsti dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (dimensioni dell’azienda, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.).
Nelle imprese che presentano un organico inferiore alle 16 unità, i criteri aggiuntivi appena citati trovano la loro applicazione in un ambito economico comunque compreso tra una mensilità e mezzo e sei.
Un ultimo problema riguarda la eventuale rinnovabilità del licenziamento disciplinare adottato in violazione delle garanzie procedurali. Il problema non ha trovato in giurisprudenza un trattamento univoco in quanto, talora, è stata sostenuta la rinnovazione mentre altre volte si è aderito alla tesi della non ripetizione del provvedimento.
A mio avviso, la tesi sostenuta nel secondo indirizzo è da preferire in quanto il procedimento disciplinare consta di una serie di atti correlati tra loro, posti in modo tale che la nullità di un atto riverbera i propri effetti sui successivi.