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Archivio newsCrisi d’impresa: quando si sospendono i rapporti di lavoro
Il Codice della crisi di impresa prevede che l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, pur non costituendo motivo di licenziamento, sospende i rapporti di lavoro subordinato attivi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi o di recedere. La sospensione del rapporto comporta il congelamento di ogni istituto contrattuale, primo tra tutti la retribuzione corrente, ma anche le ferie, i permessi, le mensilità aggiuntive, il trattamento di fine rapporto e ogni altro istituto connesso con l’anzianità aziendale. Cosa succede in caso di ripresa dell’attività aziendale o di trasferimento di azienda?
Crisi d’impresa e dichiarazione di insolvenza: la sospensione dei rapporti di lavoro
Con il presente intervento prosegue l’esame delle novità introdotte con l’adozione del Decreto legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019, pubblicato in data 14 febbraio 2019, relativamente agli istituti lavoristici del Codice dell’Insolvenza. Nel presente contributo si illustrerà sinteticamente la questione delle sorti dei rapporti di lavoro al momento della dichiarazione di insolvenza. Per comodità espositiva si è provveduto a dividere il complesso argomento, contenuto nell’art. 189 del nuovo Codice della Crisi di impresa e dell’Insolvenza in due parti: con il presente contributo ci si soffermerà maggiormente sul raffronto con la previgente normativa (art. 72, legge fallimentare), sulla sospensione del rapporto di lavoro e sugli effetti sui rapporti lavorativi in caso di ripresa dell’attività o di trasferimento del plesso aziendale o di un ramo.
Nell’attuale disciplina fallimentare - il Codice della Crisi entrerà di fatto in vigore decorsi 18 mesi dalla data del 14 febbraio 2019 - assai dibattuta è stata la questione riguardante la sorte dei rapporti di lavoro al momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa datrice di lavoro.
Prima della novella legislativa introdotta con il D.Lgs. n. 5/2006 e con il successivo D.Lgs. n. 169/2007, l’art. 72, legge fallimentare prevedeva espressamente la sospensione del rapporto contrattuale solo con riferimento alla ipotesi della vendita laddove fosse fallito il compratore e il venditore non avesse compiuto la propria prestazione: in tal caso, infatti, veniva attribuita al curatore, la possibilità di subentrare nel contratto ovvero di sciogliersi dallo stesso, da esercitarsi con l’autorizzazione del giudice delegato.
Pur se espressamente riferito alla vendita la giurisprudenza riteneva che l’art. 72, L.F. fosse espressione di un principio generale applicabile ad ogni contratto a prestazioni corrispettive ineseguite al momento del fallimento, ed in particolare, per quanto qui di interesse, al rapporto di lavoro.
Le novelle legislative della prima metà degli anni 2000[1] modificarono l’art. 72, L.F., recependo tale orientamento, affrancando l’istituto dal solo contratto di vendita e introducendo già dal titolo - rapporti prendenti - una generale estensione a ogni tipo di contratto a prestazioni corrispettive “ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti”.
Il dibattito - soprattutto dottrinario[2] - circa l’applicabilità al rapporto di lavoro non si sopì, incentrato sulla specialità della normativa del rapporto di lavoro e in particolare della inderogabilità della retribuzione ai sensi degli artt. 36 Cost. e 2119, comma 2, c.c., maturanda, quindi, successivamente alla dichiarazione di fallimento e fino alla decisione del curatore di subentrare o recedere dal rapporto.
Oltre ciò si sosteneva che la sospensione ex art. 72, L.F. era potenzialmente sine die, con una risoluzione di fatto del rapporto; che la previsione della c.d. actio interrogatoria - di cui al comma 2, art. 72, L.F., vale a dire la richiesta da parte del lavoratore al giudice delegato di far assegnare un termine non superiore a 60 giorni affinché il curatore decidesse il subentro o il recesso decorso inutilmente il quale il rapporto si intendeva risolto di diritto - integrasse una causa di scioglimento del rapporto di lavoro del tutto estranea e avulsa dalle normative vincolistiche del licenziamento previste dall’ordinamento del lavoro; che la recettizietà del licenziamento comporta la produzione degli effetti dalla data di ricevimento da parte del lavoratore, in contrasto con quanto previsto dall’art. 72, L.F. a mente del quale l’efficacia retroattiva del recesso alla data dell’inizio della sospensione contrasta con la realità del preavviso, la quale comporta la prosecuzione di fatto del rapporto fino alla scadenza del periodo di preavviso, quantunque la prestazione sia dispensata.
A tali rilievi si rispondeva osservando che l’art. 2119, comma 2, c.c. nulla dice circa le conseguenze del rapporto sotto il profilo della funzionalità, limitandosi a stabilire che il fallimento non può essere causa del recesso; che l’art. 72, L.F. si limita a stabilire in via generale la facoltà di risolvere i contratti ancora ineseguiti, senza nulla dire circa le modalità cui ciò debba avvenire; che in base ai principi generali la impossibilità sopravvenuta assoluta temporanea all’attività di impresa integra la sospensione della relativa prestazione retributiva, e in tal senso depone la cessazione temporanea dell’attività di impresa a seguito del fallimento; che l’obbligo retributivo per quanto fondamentale non riassume in sé ogni utilità che discende dal rapporto di lavoro pur quiescente ex art. 72, L.F., posto che il lavoratore ha, anche in tal caso, interesse precipuo alla conservazione del posto di lavoro ai fini della possibile ripresa; che la mancanza di un termine finale di sospensione ex art. 72, L.F. non lascia privi di tutela i lavoratori, che possono ricorrere all’actio interrogatoria; che la risoluzione del rapporto ex art. 72, L.F. va assimilata alla fattispecie ex art. 1454 c.c.; che la irretroattività del licenziamento non è un dogma, tanto che lo stesso legislatore all’art. 1, comma 41, legge n. 92/2012 ha introdotto per i licenziamenti disciplinari ex art. 7, legge n. 300/1970 e per giustificato motivo oggettivo da parte di imprese con oltre 15 dipendenti ex art. 7, legge n. 604/1966 la previsione che gli effetti del licenziamento decorrono dalla data di avvio dei rispettivi procedimenti, separando così il momento perfezionativo dell’atto del licenziamento - che continua ad essere incentrato sulla ricezione dell’atto da parte del lavoratore - con quello della relativa efficacia.
La stessa relazione illustrativa alla legge di riforma fallimentare del 2006, in punto art. 72, aveva precisato che “la vigente legge fallimentare (ovverosia quella del 1942: n.d.r.) nel disciplinare la sorte dei rapporti giuridici pendenti alla data del fallimento si è astenuta dal dettare regole di carattere generale ed ha stabilito invece discipline specifiche per singoli contratti. Non essendo state previste regole per ciascuno dei contratti disciplinati dal Codice civile, si sono venuti così a determinare due inconvenienti, da un lato, è stata lasciata priva di regolamentazione una parte dei contratti [...]. È così spettato all’interprete e alla giurisprudenza trarre dalla disciplina dei singoli contratti, e fondamentalmente da quella del contratto di vendita, alcune indicazioni di carattere generale diretti a riempire gli spazi vuoti riempiti dalla legge”.
Pertanto la riforma della legge fallimentare del 2006 sul punto ha inteso così prevedere, per dirla ancora con le parole della relazione illustrativa, “una regola generale presente in molti ordinamenti, secondo la quale la decisione in ordine alla sorte dei rapporti giuridici in corso di esecuzione alla data di apertura del fallimento, e quindi, la scelta tra subingresso della procedura nel rapporto e scioglimento, sono rimesse alla decisione del curatore, previa autorizzazione da parte del comitato dei creditori”.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto che tra i rapporti pendenti rientrasse anche quello di lavoro subordinato.
In particolare la Corte di cassazione nella sentenza 14 maggio 2012, n. 7473 aveva stabilito che “per effetto della dichiarazione di fallimento, in presenza di cessazione di attività aziendale, il rapporto di lavoro, pur essendo formalmente in essere, rimane sospeso fino al licenziamento; in difetto del requisito di sinallagmaticità non è quindi configurabile una retribuzione. Non essendovi obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa, non è nemmeno configurabile un credito contributivo dell’Inps, essendo peraltro irrilevante l’avvenuta ammissione al passivo del fallimento dei crediti retributivi dei lavoratori”.
Sul solco si sono succedute innumerevoli pronunce di Tribunali Fallimentari e da ultimo sempre la Corte di cassazione nella sentenza 23 marzo 2018, n. 7308 ha sancito espressamente l’applicazione al rapporto di lavoro della disciplina dell’art. 72, L.F. statuendo che “una volta che la scelta di sciogliersi dal rapporto di lavoro pendente è stata effettuata dal curatore del fallimento con modalità giudicate errate con sentenza passata in cosa giudicata, la curatela è soggetta al principio, valido per ogni datore di lavoro, secondo cui nell’ipotesi di licenziamento illegittimo il legislatore ha inteso attribuire diritti retributivi al lavoratore malgrado la non avvenuta prestazione lavorativa, prevedendo analiticamente il risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione (secondo la formulazione della legge n. 300/1970, art. 18, vigente all’epoca dei fatti), e ciò in ragione del fatto che nel caso di licenziamento illegittimo l’equiparazione della mera utilizzabilità delle energie lavorative del prestatore alla loro effettiva utilizzazione consegue, oltre che alla ricostituzione del rapporto e al ripristino della lex contractus, all’accertamento giudiziale dell’illegittimità del comportamento datoriale, e cioè dell’imputabilità al datore di lavoro della mancata prestazione lavorativa (tra molte, cfr. Cass., S.U., n. 2334/1991 e n. 508/1999; Cass., n. 13953/2000; Cass. n. 6155/2004)”.
Certamente la sospensione del rapporto di lavoro ex art. 72, L.F. è foriera di molteplici effetti negativi per il lavoratore, tra cui la non maturazione della retribuzione e di ogni altro istituto (ferie, permessi, retribuzione differita) fintantoché il curatore non decida di subentrare nel rapporto di lavoro o di sciogliersi dallo stesso.
Tale questione ha una rilevante ricaduta pratica per tutti i lavoratori dipendenti anche delle imprese con oltre 15 dipendenti, considerata per costoro l’abrogazione della Cigs concorsuale ex art. 3, legge n. 223/1991 a decorrere dal 1° gennaio 2016 e in generale l’impossibilità di accedere alla indennità di disoccupazione NASpI non essendo cessato il rapporto lavorativo. Non sussiste, invero, alcun ammortizzatore sociale nel limbo della sospensione ex art. 72, L.F., visto che si ha diritto alla NASpI - sussistendone i requisiti - solo a seguito del licenziamento comunicato dal curatore.
Pur dando per assodata l’applicazione dell’art. 72 L.F. ai rapporti di lavoro subordinato, ricorrono molteplici altri temi, poi, quali (i) la retroazione o meno degli effetti del recesso e del subentro alla data della dichiarazione del fallimento, (ii) la necessità per il curatore di osservare in caso di scioglimento la normativa lavoristica del licenziamento, (iii) la legittimità delle dimissioni per giusta causa del lavoratore in caso di inerzia del curatore nel deliberare il subentro o lo scioglimento, (iv) la debenza o meno della indennità sostitutiva del preavviso in caso di recesso del curatore e in caso positivo, il classamento in prededuzione o in concorso del credito, (v) la spettanza della NASpI in caso di risoluzione del rapporto in caso di silenzio del curatore nel termine assegnato dal giudice delegato per decidere se subentrare o sciogliersi dal rapporto di lavoro pendente (c.d. actio interrogatoria).
L’art. 172 - la cui rubrica è denominata rapporti pendenti - stabilisce, al pari dell’art. 72, L.F., la sospensione dei rapporti contrattuali le cui prestazioni non sono state eseguite neppure parzialmente.
La novità nella materia lavoristica è costituita dall’introduzione di una previsione ad hoc racchiusa nell’art. 189, CCI.
La disposizione si apre statuendo che “L’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento”.
La dichiarazione ripropone, di fatto, la previsione dell’art. 2119, comma 2, c.c. per cui “il fallimento non costituisce giusta causa di licenziamento”, che va interpretata nell’ambito dell’evoluzione storica-normativa della legislazione del licenziamento: pertanto non nel senso che il fallimento costituisca giustificato motivo oggettivo di recesso ai sensi dell’art. 3, legge n. 604/1966, bensì che l’insolvenza giudiziale del datore di lavoro non legittima di per sé il licenziamento.
In tale prospettiva il primo capoverso del comma 1, art. 189 sopra riportato chiarisce in termini più aderenti all’attuale contesto normativo che l’apertura della liquidazione giudiziale non integra un motivo di licenziamento.
Ciò premesso il secondo capoverso del comma 1 continua stabilendo che “I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.
La esplicita previsione normativa esclude ogni dubbio circa la sospensione anche del rapporto del lavoro a seguito della dichiarazione di apertura di insolvenza.
Il legislatore del Codice della crisi e dell’insolvenza ha ritenuto, quindi, che anche il contratto di lavoro sia tra quelli per i quali al curatore deve essere riconosciuto uno spatium deliberandi al fine di considerare se sia più opportuno e conveniente per la procedura subentrare nel rapporto ovvero sciogliersi dallo stesso.
Va da sé che tale valutazione non è fine a sé stessa, al pari di altri contratti a prestazioni corrispettive ineseguiti, ma è strumentale - nella quasi totalità dei casi - all’esercizio dell’impresa in via diretta, attraverso l’esercizio provvisorio (disciplinato dal legislatore della riforma dall’art. 211, CCI), ovvero in via indiretta mediante affitto o vendita dell’azienda o di un suo ramo (art. 212, codice della crisi e dell’Insolvenza).
La sospensione del rapporto nelle more della decisione del curatore comporta il congelamento di ogni istituto contrattuale, primo tra tutti la retribuzione corrente, ma anche le ferie, i permessi, le mensilità aggiuntive, il trattamento di fine rapporto e ogni altro istituto connesso con l’anzianità aziendale.
Ciò si ricava dallo stesso art. 189, che al comma 2 (2° capoverso) stabilisce che “Il subentro del curatore nei rapporti di lavoro subordinato sospesi decorre dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori”.
Il che determina il perdurare del problema della mancanza di retribuzione e di qualsivoglia indennità a favore dei lavoratori nelle more della decisione del curatore, anche qualora venisse esercitato il recesso, che, sempre per espressa previsione normativa, retroagisce alla data della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.
Infatti non si può sottacere che, seppur in mancanza della prestazione lavorativa certamente non per volontà del lavoratore, quest’ultimo si trova senza retribuzione o altre indennità di cassa integrazione (attesa la già descritta abrogazione dell’art. 3, comma 1, legge n. 223/1991 con decorrenza dal 1° gennaio 2016): il tutto per un periodo di ben 4 mesi, termine massimo previsto dal comma 3, art. 189, decorso il quale il rapporto di lavoro si intende risolto di diritto. E ciò senza tenere in considerazione che spesso i lavoratori dell’azienda dichiarata in liquidazione giudiziale pervengono da mesi di omesse o parziali percezioni delle retribuzioni.
In questo contesto va evidenziato che il lavoratore non può uscire da questo limbo mediante le dimissioni, in quanto così facendo non andrebbe a percepire la NASpI, ottenibile solo laddove ricorra la giusta causa: in tale senso l’art. 189, comma 5, CCI prevede testualmente che solamente il decorso dei 4 mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale consente ex lege di considerare le dimissioni sorrette da giusta causa.
Né, allo stato, il lavoratore può utilmente avvalersi dell’actio interrogatoria prevista dall’art. 172, comma 2, vale a dire della richiesta da parte del lavoratore al giudice delegato di fissare un termine non superiore a 60 giorni entro il quale deliberare il recesso o il subentro, decorso il quale il contratto si intende risolto: non solo e non tanto per la dubbia applicabilità di tale norma al rapporto di lavoro, stante la specialità delle previsioni contenute nell’art. 189, quanto perché in ogni caso il successivo art. 190 prevede l’accesso alla NASpI solo nelle ipotesi di cessazione, anche ipso iure del rapporto, previste ai sensi dell’art. 189, Codice della crisi e dell’insolvenza.
Le richieste dei lavoratori e delle Oo.Ss. saranno, quindi, nella direzione di sollecitare il curatore a un rapido recesso, al fine di poter conseguire nel minor tempo la NASpI e ricercare nel mercato una rioccupazione, salvo che vi sia una pronta soluzione di continuità diretta o indiretta dell’attività aziendale.
La prospettiva della ripresa dell’attività aziendale ovvero di un trasferimento di azienda è considerato dall’art. 189, comma 4, Codice della crisi quale elemento per aumentare e integrare il termine dei 4 mesi di sospensione del rapporto di lavoro di ulteriori massimi 8 mesi.
La procedura richiede che la istanza venga presentata al giudice delegato per l’autorizzazione nel termine decadenziale di almeno 15 giorni prima della scadenza dei 4 mesi da parte del curatore, dell’Ispettorato Territoriale del lavoro o dal lavoratore, anche per mezzo di un avvocato.
Del tutto innovativamente il Codice della crisi introduce nello scenario l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, per il quale sembra venga delineata una funzione di mero monitoraggio (di dubbia efficacia e utilità considerata la natura e i poteri di tale organo) nell’ambito della possibile continuità aziendale laddove il curatore non abbia, nel termine dei 4 mesi, già provveduto di per sé al subentro nei rapporti di lavoro o alla relativa cessazione, promuovendo, come detto, la richiesta al giudice delegato. In tale prospettiva l’Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo ove si è aperta la liquidazione giudiziale è, innanzitutto, destinatario da parte del curatore della comunicazione della lista dei dipendenti in forza all’impresa nel termine di 30 giorni dalla dichiarazione, termine che su richiesta e autorizzazione del giudice delegato può essere prorogato di ulteriori massimi 30 giorni, laddove l’impresa occupi più di 50 dipendenti.
Il giudice delegato deve valutare l’opportunità di concedere la proroga del termine della sospensione dei rapporti di lavoro in relazione causale alla possibilità della continuazione dell’attività di impresa: il termine ulteriore decorre dalla data del deposito del provvedimento in cancelleria e viene comunicato immediatamente al curatore e agili eventuali altri istanti.
Pertanto, considerato il termine ordinario di 4 mesi entro il quale al curatore è concessa la facoltà di valutare il subentro o il recesso e l’ulteriore proroga prevista in caso di possibile continuazione dell’attività aziendale, la sospensione dei rapporti di lavoro può permanere fino a un massimo di 12 mesi.
Infatti qualora nel termine prorogato non si verifichi la cessione dell’azienda ovvero il subentro o il recesso da parte del curatore, il comma 4 prevede che il rapporto si risolva di diritto con effetto sempre dalla data di apertura della dichiarazione di liquidazione giudiziale.
Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, nella sola ipotesi in cui si verifica tale proroga del termine di sospensione, ha voluto considerare il profilo retributivo dei lavoratori, prevedendo il riconoscimento di un’indennità parametrata a due mensilità della retribuzione utile per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio con un minimo di due e un massimo di otto. Tale indennità, non soggetta a contribuzione previdenziale, viene, per espressa indicazione normativa, ammessa al passivo come credito successivo alla apertura della liquidazione giudiziale, e, quindi, va considerata in prededuzione rispetto agli altri crediti.
Tale previsione non pare, tuttavia, possa essere considerata un particolare incentivo in favore dei prestatori di lavoro. Infatti i lavoratori hanno sempre la possibilità di dimettersi per giusta causa ai sensi del comma 5 decorsi i 4 mesi di sospensione e con pieno e immediato diritto alla NASpI, mentre il criterio di parametrazione predefinito (due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, ma sempre nel range tra minimo due e massimo otto mensilità) collegato alla anzianità aziendale in luogo della durata della proroga della sospensione rischia di non compensare adeguatamente e secondo equità le necessità alimentari del lavoratore.
A ciò si aggiunga che l’intero apparato normativo pare fondarsi su una a dir poco ottimistica aspettativa che i lavoratori (unitamente alle Organizzazioni Sindacali cui eventualmente conferiscono mandato) nei primi 4 mesi di “limbo” in cui non percepiscono alcuna retribuzione o ammortizzatore non richiedano al curatore di procedere al recesso laddove nell’immediatezza della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale non sia ravvisabile una possibile continuità aziendale, tanto più che, in quest’ultimo caso, è lo stesso comma 3, 1° capoverso, dell’art. 189 a prevedere che il curatore procede “senza indugio” al recesso.
Pertanto quanto fino a qui illustrato pare destinato ad avere una limitatissima applicazione, pratica tanto dal punto di vista dei lavoratori, che sono più garantiti da una risoluzione del rapporto di lavoro che permette loro l’accesso agli ammortizzatori e il potenziale rientro nel mercato del lavoro; quanto nell’ottica prospettica del curatore che, stando alla lettera - molto prevedibilmente - sarà tenuto a risolvere i rapporti di lavoro (tranne un’effettiva prospettiva di ripresa o di trasferimento d’azienda) invece che sobbarcarsi un iter particolarmente complesso e con una durata oggettivamente troppo lunga e soprattutto in contrasto con gli obiettivi di celerità delle procedure concorsuali contenuti nella novella legislativa.
[1] Si fa riferimento in particolare all’art. 57, comma 1, D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e all’art. 4, comma 6, D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169.
[2] Si veda per tutti L. Menghini, I contratti in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, a cura di Lino Guglielmucci, Cedam, 2006, pagg. 536-537.
Scarica il pdf dell'articolo tratto dalla rivista Diritto & Pratica del lavoro n. 17/2019