News
Archivio newsSanzioni disciplinari: quando e perché scegliere l’arbitrato
Nei 20 giorni successivi all'applicazione della sanzione disciplinare, il lavoratore può chiedere, tramite dell’Ispettorato territoriale del Lavoro e anche per mezzo di una associazione sindacale, la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato. L’apertura della procedura dinanzi all’organo collegiale sospende la sanzione fino al lodo arbitrale. Il datore di lavoro può rifiutare il collegio di conciliazione ed arbitrato non procedendo alla nomina del proprio rappresentante: ma il risultato è analogo, nel senso che il provvedimento disciplinare non può essere materialmente applicato fino alla decisione. Come si svolge la procedura arbitrale? Quali sono le questioni aperte?
Il comma 6 dell'art. 7 della legge n. 300/1970 che disciplina l'iter per la costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato per il tramite della Direzione provinciale del Lavoro (“rectius” dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, secondo la denominazione assunta dal 1° gennaio 2017), fa riferimento ad "analoghe procedure previste dai contratti collettivi ". Il significato appare evidente: secondo il Legislatore, qualora nei contratti si preveda un iter post-disciplinare atto ad assicurare almeno il contraddittorio, la pariteticità del collegio giudicante, la sospensione della sanzione fino alla pronuncia della decisione, si dovrebbe preferire la procedura contrattuale.
In sostanza, tre sono le possibili strade che un lavoratore può percorrere qualora intenda ricorrere contro una sanzione: quella che si può chiamare conciliativa – arbitrale, quella contrattuale e quella del ricorso al giudice ordinario.
Indubbiamente, l’attivazione della prima, seppur facoltativa, è quella preferita dal Legislatore, in quanto viene detto espressamente che la sanzione rimane sospesa fino alla pronuncia del lodo. E che questa sia la via preferita lo si dimostra anche sotto un altro aspetto: se è il datore di lavoro a rifiutare il collegio di conciliazione ed arbitrato non procedendo alla nomina del proprio rappresentante in seno al collegio, il risultato è analogo nel senso che il provvedimento disciplinare non può essere materialmente applicato fino alla sentenza del giudice. C’è, poi, da sottolineare come, non nominando il proprio arbitro entro 10 giorni dall’invito rivoltogli dall’Ispettorato territoriale del Lavoro, la sanzione disciplinare non abbia alcun effetto. Sicchè si può affermare che se deve andare in giudizio, il datore deve scegliere subito essendo sottoposto alla “spada di Damocle” della “evaporazione” del proprio potere disciplinare. Si può, convenendo con la dottrina, affermare che nel caso di specie, il Legislatore esercita “una forma di coazione neppure tanto larvata”.
Detto questo, ritengo opportuno focalizzare l’attenzione sul collegio di conciliazione ed arbitrato.
Nei 20 giorni successivi all'applicazione della sanzione, il lavoratore può richiedere, per il tramite dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, anche per mezzo di una associazione sindacale, la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato, con la conseguente sospensione della sanzione fino alla pronuncia del collegio, ove costituito: questo sunto del comma 6, mi porta ad esaminare alcune questioni.
La prima concerne la natura irrituale dell'arbitrato ai fini di definire il valore del lodo finale. Esso ha natura negoziale, in quanto trae origine dalla volontà delle parti che rimettono una loro controversia in materia disciplinare a degli arbitri (“rectius” rappresentanti di parte ed un terzo membro) cui, per l'aspetto interno del rapporto, sono applicabili le norme sul codice civile previste in ordine al mandato dall'art. 1703 e s.s. del codice civile. La manifestazione di volontà espressa dalle parti con la remissione della loro controversia disciplinare al giudizio degli arbitri è, in sostanza, un “conferimento a decidere”, anche in via transattiva con la possibilità di confermare la sanzione o di diminuirla (ma non di aumentarla).
La pronuncia del collegio irrituale ha "efficacia cogente" per le parti proprio in virtù del mandato; tuttavia, per l'esecutorietà della stessa, qualora una parte sia inottemperante, non essendo esplicitamente previsto il deposito presso la cancelleria del Tribunale, si dovrà adire il giudice ordinario direttamente o con la richiesta di un decreto ingiuntivo, seguendo l'iter delineato all'art. 633, n. 1, c.p.c., allegando al ricorso la prova documentale della nomina degli arbitri e la loro decisione. Il lodo è impugnabile sia dal lavoratore che dal datore di lavoro nel termine e nelle forme previste dai commi 2 e 3 dell’art. 2113 c.c. (entro sei mesi dalla rinunzia o dalla transazione e con qualsiasi atto, anche stragiudiziale, finalizzato a rendere nota la volontà).
Il termine di 20 giorni per la richiesta del collegio e la nomina del proprio arbitro è perentorio ma, a mio avviso, appare preferibile l’ipotesi secondo la quale l’Ispettorato territoriale del Lavoro, al quale è stata inoltrata l'istanza, non rilevi d'ufficio la carenza temporale attesochè, per quanto possibile, è opportuno favorire una soluzione extragiudiziale della controversia. Nulla toglie che, una volta costituito, sia lo stesso collegio, in sede di esame delle questioni procedurali, a rilevare l'impugnazione "fuori termine" del provvedimento.
Il lavoratore può chiedere la costituzione del collegio anche tramite la propria organizzazione sindacale per cui occorre che, preventivamente, tra lo stesso e quest'ultima, vi sia un rapporto di mandato o di adesione.
La richiesta di costituzione del collegio può pervenire da ogni lavoratore subordinato, ivi compresi i soci lavoratori che, dopo il rapporto associativo, hanno stipulato un ulteriore rapporto di lavoro subordinato con la medesima cooperativa (art. 1, comma 2, della legge n. 142/2001), attesa la piena assimilazione normativa con i lavoratori dipendenti.
Una volta ricevuta la richiesta, compito dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, è quello di attivare la procedura, invitando l'azienda a nominare entro 10 giorni, pena la decadenza del provvedimento, e fatta salva la possibilità di adire l'autorità giudiziaria, il proprio rappresentante in seno al collegio; contemporaneamente, le parti sono invitate a nominare di comune accordo un terzo membro e, qualora ciò non si verifichi, provvede direttamente il Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro. La sanzione disciplinare, recita ancora il comma 6, resta sospesa fino alla pronuncia del collegio.
Ma, una volta scelta la via del collegio di conciliazione ed arbitrato, le parti possono recedere per adire il giudice del lavoro?
La questione del rapporto tra procedura arbitrale ed azione giudiziaria porta ad esaminare il problema del se e del momento finale entro il quale ciascuna parte può abbandonare la procedura. La giurisprudenza di merito si è espressa, in passato, in maniera prevalente, affermando la improponibilità del ricorso giudiziale una volta scelta la strada conciliativa- arbitrale, almeno fino al momento in cui, attraverso la designazione degli arbitri, si è perfezionato il compromesso. La giurisprudenza della Suprema Corte si pone sulla stessa “lunghezza d’onda” osservando che la revoca della manifestazione di volontà da parte di ciascun contraente (con la conseguente possibilità di adire il giudice del lavoro) è possibile fino al momento in cui gli arbitri non abbiano ancora accettato il mandato (Cass., n. 6411/1993).
Tornando agli aspetti specifici della nomina degli arbitri si può presentare che, talora, capita nelle micro imprese: l’arbitro di parte convenuta nominato dal datore di lavoro è lo stesso soggetto che ha proceduto ad applicare il provvedimento. Si tratta di un'anomalia, rilevabile d'ufficio dal Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro o dal Collegio arbitrale, allorchè esamina le questioni procedurali: in tal caso, non è rilevabile alcuna nullità procedurale, ma sarà necessario invitare l'imprenditore (attraverso lo stesso Ispettorato territoriale del Lavoro) a nominare, entro dieci giorni, un altro arbitro.
Si pongono, a questo punto, alcune questioni che possono così sintetizzarsi:
1) decorrenza dell'effetto sospensivo della sanzione, susseguente alla impugnazione dei provvedimento;
2) nomina del terzo membro da parte del Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro;
3) poteri del collegio di conciliazione ed arbitrato e rinuncia alla procedura arbitrale;
4) fase conciliativa e procedura da seguire nella discussione;
5) potere di derubricazione;
6) ricorso giudiziario in costanza di collegio arbitrale;
7) decisione del collegio;
8) spese di funzionamento del collegio.
Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalente hanno più volte ribadito che, una volta concluso l'iter disciplinare, il datore di lavoro può legittimamente irrogare la sanzione, senza dover attendere il decorso dei 20 giorni, entro cui il dipendente può ricorrere al collegio arbitrale.
L'effetto sospensivo della sanzione decorre dal momento in cui l'imprenditore abbia avuto legale notizia (ad esempio, tramite lettera A.R. o PEC, inviata per conoscenza) dell'istanza presentata all’Ispettorato territoriale del Lavoro e non dal momento successivo in cui l'Ufficio comunica all'azienda l'avvenuta promozione del collegio; ciò perchè non può essere posto a carico del lavoratore il ritardo di comunicazione eventualmente imputabile all'organo pubblico. La Cassazione, in passato, nel propugnare questo indirizzo ha, altresì, sancito che i giorni di sospensione scontati dal dipendente prima della comunicazione del promovimento del collegio, sono da ritenersi un effetto della sanzione stessa con la conseguenza che, essendo essa sospesa ai sensi del comma 6, la ritenuta sulla busta paga non può essere effettuata.
Talora può accadere che il lavoratore presenti, nei termini, la richiesta di costituzione del collegio ad un Ispettorato del Lavoro incompetente per territorio: a mio avviso, essa è da ritenersi utile per attivare la procedura arbitrale, sulla base dei principi della volontà manifestata dal lavoratore e della economicità della procedura.
In ordine alla questione relativa alla nomina del terzo membro, occorre ricordare come la legge non specifichi le modalità che il Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro deve seguire per la propria scelta, fermo restando il principio che, qualora egli venga messo a conoscenza delle parti che è stato raggiunto l'accordo sulla nomina del terzo arbitro, dovrà sollecitamente rimettere gli atti in possesso dell'Ufficio, invitandolo a concordare la data di insediamento dei collegio che potrà anche riunirsi presso la sede dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.
Ma, entro quanto tempo va nominato il terzo membro?
In applicazione della legge n. 241/1990, il D.M. n. 227 del 22 gennaio 1995, confermato, sul punto, dal DPCM 22 dicembre 2010 n. 275, entrato in vigore il 22 marzo 2011, ha fissato in 40 giorni il limite massimo entro cui il Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro deve costituire il collegio, una volta pervenuti i nominativi degli arbitri di parte. In caso di disaccordo ed in mancanza di una normativa precisa ci si è regolati per la nomina del presidente in maniera diversa, talora ricorrendo a soggetti esterni (professionisti, magistrati in pensione, ecc.) ed altre volte a funzionari degli Ispettorati del Lavoro.
Gli arbitri, la cui designazione avviene per opera delle parti o del Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, possono, in qualsiasi momento, rassegnare le proprie dimissioni, rappresentando le stesse alle parti (o al Capo dell’ITL) che li hanno designati. Il collegio può funzionare soltanto se è completo: da ciò consegue che il soggetto tenuto a nominare il proprio rappresentante nel collegio deve farlo, nei termini rispettivamente previsti in sede di prima costituzione (venti giorni per il dipendente, dieci per il datore di lavoro). Un analogo discorso va fatto per il Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro nel caso in cui le dimissioni provengano dal presidente: qui ci sono termini prefissati da rispettare (i quaranta giorni indicati nel DPCM n. 275 del 22 dicembre 2010), in quanto l'interesse pubblico richiede una nuova sollecita nomina.
In ordine alla terza questione sollevata si ritiene che, nel silenzio della legge, e ferme restando una serie di libertà di forme in ordine alla acquisizione di prove testimoniali e documentali, di ispezioni e di termini temporali, debbano essere seguite, per quanto applicabili, le norme del codice di procedura civile previste nel titolo VIII dagli art. 806 e ss.
Detto questo, però, occorre aggiungere che la forma relativa alla acquisizione delle prove è libera, che gli eventuali testimoni convocati non sono sottoposti al vincolo del giuramento, nè decisorio, nè suppletorio, nè hanno l'obbligo di intervenire.
Nulla disponendo in materia la normativa, spesso si pone nei collegi arbitrali un problema di carattere procedurale scaturente dalla ripetuta assenza di un arbitro di parte alle riunioni convocate. A mio avviso, il Presidente, qualora rilevi tale comportamento e lo ritenga non giustificato, può diffidare l'arbitro assente ad intervenire, comunicando tale diffida anche alla parte e sostenendo che il mancato intervento alla ulteriore riunione indetta, salvo giustificato motivo di impedimento, o la mancata sostituzione con altro membro tempestivamente designato, sarà interpretato quale rinuncia implicita alla procedura in atto. La rinuncia delle parti alla via giurisdizionale che è la diretta conseguenza della devoluzione al collegio di conciliazione ed arbitrato della controversia relativa alla sanzione disciplinare è, afferma la Cassazione (Cass., 7 aprile 1992, n. 4245) condizionata alla emanazione di un lodo valido, sicchè, allorquando la clausola compromissoria abbia esaurito la sua efficacia, per qualsiasi ragione, risorge per le parti la facoltà di sottoporre al giudice la cognizione della controversia.
L'art. 823 c.p.c. contiene i requisiti del lodo ed è interessante notare come sia stata prevista la possibilità che l'arbitro dissenziente non voglia firmare la decisione. In tal caso, il lodo sottoscritto a maggioranza è valido, purchè si dia atto che è stato adottato in conferenza personale di tutti gli arbitri e che il dissenziente si è rifiutato di firmare.
Talora può succedere che durante l'esame dei fatti all'origine del provvedimento disciplinare, il collegio venga a trovarsi di fronte ad un fatto per il quale è in corso un accertamento di natura penale e la cui conoscenza è rilevante ai fini della decisione. La soluzione al quesito viene dall'art. 3 c.p.p. laddove, con riferimento al giudizio civile, si afferma che " esso..... è sospeso fino a che si sia pronunciata nell'istruzione la sentenza di proscioglimento non più soggetta ad impugnazione o nel giudizio la sentenza irrevocabile, ovvero sia divenuto esecutivo il decreto di condanna ". In tali casi, quindi, in conformità al dettato legislativo, il collegio arbitrale dovrà sospendere la procedura.
Il discorso relativo alla sospensione (sia pure temporanea) si presenta più frequentemente all'esame del collegio, allorquando in costanza di procedura arbitrale per una sanzione non espulsiva (ammonizione, multa o sospensione) il lavoratore venga licenziato o si dimetta. Nel silenzio della legge si sono registrati nelle decisioni arbitrali due indirizzi: l'uno, secondo il quale l'interruzione del rapporto non influisce sull'esame del provvedimento impugnato in quanto è interesse del lavoratore (e prescindendo dall'eventuale discorso sulla recidiva di cui si parlerà successivamente) a che lo stesso venga discusso e deciso, l'altro, secondo cui essendosi interrotto il rapporto (almeno momentaneamente) non ha più senso discutere di una sanzione afflittiva che, se confermata o ridotta, non potrebbe essere scontata. A mio avviso, la seconda soluzione si fa preferire, in quanto è opportuno che l'esame del provvedimento avvenga con un rapporto di lavoro in pieno vigore, tanto più che le sanzioni impugnate dinanzi al collegio arbitrale ed ancora sotto esame non possono costituire in alcun modo elemento per la recidiva.
La quarta questione evidenziata fa riferimento ad una fase conciliativa: la norma non distingue la fase conciliativa da quella arbitrale: personalmente ritengo che, proprio per l'irritualità della procedura, la conciliazione tra le parti, anche mediante l'ausilio degli arbitri, sia sempre possibile (quindi, anche allorchè la fase dibattimentale sia andata avanti con l'escussione delle prove documentali e testimoniali ), concretandosi nella sottoscrizione da parte dei soggetti interessati (datore di lavoro e lavoratore) di una soluzione transattiva.
Una ulteriore questione riguarda il c.d. "potere di derubricazione" riconosciuto al collegio di conciliazione ed arbitrato. C'è da rimarcare, innanzitutto, come di fronte ad una sanzione sproporzionata il potere del giudice di merito sia diverso da quello dell'organo collegiale testé citato. La Suprema Corte (Cass., 25 maggio 1995, n. 5753; Cass., 13 aprile 2007, n. 8910), dopo aver richiamato il principio secondo il quale spetta soltanto all’imprenditore il potere di proporzionare la sanzione in relazione alla gravità del fatto contestato, afferma che il giudice non può ridurre la sanzione, fatto salvo il solo caso che la stessa sia stata adottata oltre il limite edittale previsto dal CCNL o dal regolamento disciplinare, riconducendo la stessa entro tale limite: tutto questo in un’ottica di proporzionalità in sede di applicazione del potere disciplinare (Cass., 5 giugno 2006, n. 13152).
Il collegio arbitrale, invece, può, qualora ravvisi sproporzionata la sanzione inflitta e riconoscendo una responsabilità comunque addebitabile al dipendente, derubricare il provvedimento; tale potere discende direttamente dalla natura negoziale da cui scaturisce l'arbitrato e dalla volontà delle parti che hanno loro conferito il "munus ". In sostanza, gli arbitri che decidono anche seguendo criteri equitativi, possono, motivando la decisione, ridurre la sanzione inflitta.
C'è, talora, un limite in tale potere derubricativo: esso è riscontrabile nella circostanza che per talune specifiche mancanze contrattuali sono previste declaratorie che individuano la "pena " soltanto nell'ambito di una o più qualificazioni. Ebbene, in tali casi, il collegio che abbia accertato la specifica mancanza, può ridurre il provvedimento soltanto nei confini della individuazione contrattuale prevista.
Spesso le decisioni arbitrali contengono un "invito" al datore di lavoro a non tener conto del provvedimento rispetto al quale è stata adottata la decisione ai fini di una eventuale recidiva nel biennio. E' opportuno, sgombrare il campo da equivoci: il datore di lavoro è libero di accettarlo o meno (in quanto il collegio non può "invadere" la sfera discrezionale del datore dopo la decisione e condizionarne il comportamento), anche se, per ossequio all'organo da cui promana, esso è, il più delle volte, accettato.
In ordine al potere decisorio del collegio, fermo restando quanto già affermato in ordine alla facoltà di derubricazione, occorre ricordare come lo stesso sia vincolato alla richiesta: ciò significa che esulano dall'esame tutte quelle questioni antecedenti, susseguenti o collaterali (in una parola, riferite all'ambiente o al contesto aziendale) che non sono collegabili direttamente alla sanzione impugnata. Parimenti, il collegio arbitrale non può conoscere (e, conseguentemente, decidere) in ordine, ad esempio, a richieste di risarcimento del danno avanzate dal datore di lavoro come conseguenza del comportamento negligente del dipendente, o alla ritenuta operata dall'INPS a seguito della mancata presenza nel domicilio all'atto della visita di controllo. Su quest' ultimo punto le decisioni adottate nei collegi arbitrali sono sostanzialmente uniformi, anche se molte volte, per riportare un clima di serenità nel rapporto (soprattutto quando si trattava di indennizzi per danni causati dovuti ad imperizia e superficialità), il collegio ha patrocinato soluzioni che, se pur non riportate esplicitamente nella decisione, sono state sottoscritte dalle parti ed hanno così risolto una controversia ove il provvedimento disciplinare era sì l’occasione per discutere, ma il problema più importante da risolvere era l’altro.
La decisione, che va sempre (sia pure succintamente) motivata e che deve contenere i requisiti essenziali previsti dall'art. 823 c.p.c. (indicazione delle parti, dispositivo, luogo e data, ecc. ), è presa all'unanimità o a maggioranza (con possibilità per l'arbitro dissenziente di manifestare il proprio voto contrario e di non sottoscrivere la decisione ai sensi del suddetto articolo ). Qualora la posizione dei tre arbitri sia differenziata e non si possa, in alcun modo, arrivare ad un lodo, il collegio deve rimettere il mandato alle parti ed al Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro (qualora il Presidente sia stato designato dallo stesso) non essendo previsto alcun potere decisionale al solo terzo membro, nè alcuna previsione di preminenza dello stesso sugli altri membri del collegio. Ovviamente, la remissione della documentazione determina il venir meno della clausola compromissoria cosa che comporta, per entrambe le parti, la possibilità di adire l’autorità giudiziaria.
Una ulteriore questione riguarda le spese di funzionamento del collegio.
Gli arbitri hanno diritto ad un compenso: lo afferma l'art. 814 c.p.c. laddove è sancito che gli arbitri " hanno diritto al rimborso spese ed all'onorario, salvo espressa rinuncia, e le parti sono tenute solidalmente al pagamento, salvo rivalsa tra loro. Quando gli arbitri provvedono direttamente alla liquidazione delle spese e dell'onorario, tale liquidazione non è vincolante per le parti se esse non accettano ". In tal caso, gli arbitri possono chiedere al Presidente del Tribunale, competente per luogo, la determinazione dei compensi che è fissata dallo stesso con ordinanza non impugnabile. Questa norma del codice di procedura civile può essere integrata da quella concernente la presunzione dell'onerosità nel contratto dì mandato prevista dall'art. 1709 c.c., laddove si afferma che se "la misura del compenso non è stabilita dalle parti", essa "è determinata in base alle tariffe professionali o agli usi; in mancanza è determinata dal giudice".
Tale compenso spetta anche ad un impiegato pubblico che sia stato incaricato dal Capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro di fungere da terzo membro del collegio, per il fatto specifico che la partecipazione allo stesso, concretandosi in attività autonoma ed occasionale, strettamente legata al "munus" scaturente dalla designazione del dirigente dell'Ufficio, non rientra nei compiti specifici d'istituto, non rappresentando il funzionario, in alcun modo, la struttura pubblica.
Il diritto alla corresponsione dei compensi per l'attività arbitrale anche in favore dei pubblici impiegati è stata riconosciuta, da tempo, dalla magistratura di merito. Ovviamente, il compenso va comunicato alla propria Amministrazione secondo le modalità in uso.