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Licenziamento disciplinare: una “presa di posizione” forte sul Jobs Act

Reintegra e licenziamento disciplinare. La Cassazione, con sentenza n. 12174 del 2019, fa rientrare nell’"insussistenza del fatto materiale" non solo il fatto materialmente inesistente, ma anche la condotta commessa dal dipendente che non assume, giuridicamente, rilevanza disciplinare. Una presa di posizione forte, perché si nega di fatto l’originario intento del legislatore delle tutele crescenti di limitare i casi di reintegra a favore dell’indennizzo monetario. Questa sentenza resterà una “mosca bianca” o avrà un effetto domino? Se ne parlerà durante il prossimo Festival del Lavoro, organizzato dalla Fondazione Studi del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, che si svolgerà a Milano dal 20 al 22 giugno 2019.

Con la sentenza n. 12174 dell’8 maggio 2019 la Corte di Cassazione ha ulteriormente confermato come la giurisprudenza abbia preso una strada sempre più autonoma rispetto a quella tracciata dalla normativa del Jobs Act, comportamento che divide gli animi e che ha creato due filoni interpretativi diversi.

Procedendo con ordine analizziamo brevemente le previsioni normative.

L’art. 18 legge 300/1970 ha subito una profonda modifica con l’entrata in vigore della legge Fornero, la 92/2012: le tutele sono ora ripartite in 4 tipologie di diversa intensità ed i casi di reintegra sono limitati al licenziamento nullo e ad altre particolari ipotesi tipizzate.

Con il D.Lgs. 23/2015, contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, si è creata una spaccatura ancora più marcata tra le tutele previste in caso di assunzioni, o trasformazioni a tempo indeterminato, verificatesi ante o post 7 marzo 2015.

Resta pacifico quanto statuito all’art. 2, comma 1: il licenziamento è dichiarato nullo nel caso in cui sia stato intimato per ragioni discriminatorie, in concomitanza col matrimonio, in violazione del TU delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, perché intimato a causa di un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 c.c. o, infine, per gli altri casi di nullità previsti dalla legge.

La ratio era stata quella di limitare progressivamente le ipotesi di reintegra a favore dell’indennizzo monetario, indennizzo originariamente determinato sulla base di un criterio oggettivo: l’anzianità di servizio del lavoratore. Questo criterio consentiva al datore di lavoro di misurare il rischio e conoscere il “punto di caduta massimo”, ma purtroppo la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018 lo ha dichiarato illegittimo. Secondo il giudice delle leggi infatti, l’entità dell’anzianità di servizio non può essere l’unico criterio sul quale basarsi, ma devono poter essere valutate anche altre caratteristiche per determinare l’ammontare dell’eventuale indennità, stabilita in una forbice tra le 6 e le 36 mensilità; ricordando che il massimo delle 36 mensilità è una “novità” apportata del decreto Dignità.

Quanto disposto all’art. 3, è il fulcro del dibattito attuale laddove, al comma 2, è prevista un’entità dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore qualora venga accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa, stabilendo espressamente che il giudice può annullare il licenziamento solo quando venga dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. È altresì precisato che resta estranea al giudizio ogni valutazione in merito alla proporzionalità della gravità del fatto che ha portato al licenziamento.

Dalla valutazione del giudice circa la possibile applicazione della tutela reale non viene più fatto riferimento alle fattispecie disciplinari tipizzate dalla contrattazione collettiva.

Alla luce di quanto sopra, la previsione normativa quindi sembra chiara nella sua interpretazione letterale: la reintegra opera solamente quando venga dimostrato che l’evento che ha dato origine al licenziamento di fatto non è mai avvenuto.

Nel caso di specie il tutto è nato dall’impugnazione di un licenziamento disciplinare, comminato ad una lavoratrice a seguito dell’abbandono del posto di lavoro, durante l’orario di servizio, fatto oltretutto confermato dalla lavoratrice stessa.

Il tribunale di Genova in primo grado, in applicazione di quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015, aveva convalidato il licenziamento e condannato l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 4 mensilità; ed anche la Corte d’Appello, benché basandosi su motivazioni diverse, aveva confermato il dispositivo della sentenza appellata.

La Corte di Cassazione invece, ha ribaltato le precedenti pronunce, adducendo un’interpretazione completamente diversa, disponendo il rinvio alla Corte d’Appello e l’applicazione della sanzione della reintegrazione.

L’interpretazione della Corte si basa non sull’effettiva manifestazione del fatto ma se questo abbia avuto una connotazione illecita e disciplinare, discriminando fra i concetti di “fatto materiale” e “fatto giuridicamente rilevante”.

Per la prima volta infatti, anche nell'ambito di un contratto di lavoro a tutele crescenti, il lavoratore licenziato per motivi soggettivi e sulla base di una condotta pacificamente sussistente, può ottenere la reintegrazione in funzione dell’irrilevanza disciplinare del fatto.

La Cassazione seguendo il filone interpretativo maggioritario sviluppatasi rispetto all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ha stabilito che l’art. 3 del D. Lgs. 23/2015 debba essere interpretato nel senso che nella nozione di "insussistenza del fatto materiale" rientra non solo il fatto materialmente inesistente ma anche la condotta effettivamente commessa dal dipendente ma che non assume, giuridicamente, alcuna rilevanza disciplinare.

Quindi, nonostante la disposizione normativa sottolinei la non influenza della valutazione in merito alla gravità o meno della condotta, di fatto la valutazione di merito c’è stata, disponendo la Corte l’illegittimità del licenziamento e la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro.

Una simile presa di posizione è forte perché, nonostante sia disposto dal Job Act che non vi possa essere un intervento discrezionale da parte del giudice, così è stato, negando di fatto l’originario intento del legislatore di limitare i casi di reintegra a favore dell’indennizzo monetario.

In aggiunta al carico, già pesante, di quanto sopra, risulta ancora più curiosa la valutazione di merito effettuata: la lavoratrice si è allontanata durante l’orario di lavoro e la Corte ha ritenuto questo comportamento “disciplinarmente non rilevante”.

Questa sentenza resterà una “mosca bianca” o avrà un effetto domino? Non ci resta che attendere le reazioni.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/06/06/licenziamento-disciplinare-presa-posizione-forte-jobs-act

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