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Archivio newsRinunzie e transazioni nei rapporti di lavoro: come orientarsi tra vizi e invalidità
Le rinunzie e le transazioni nell’ambito dei rapporti di lavoro sono invalide se riguardano i diritti inderogabili del lavoratore di derivazione legale o contrattuale. E’ quanto prevede l’art. 2113 del codice civile. Poiché la categoria dell'invalidità comprende sia la nullità che l'annullabilità, caratterizzate da una differente disciplina, l'interprete deve individuare con esattezza il regime applicabile alla singola fattispecie. A cosa si deve prestare attenzione? Se ne parlerà durante il prossimo Festival del Lavoro, organizzato dalla Fondazione Studi del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, che si svolgerà a Milano dal 20 al 22 giugno 2019.
L’art. 2113 cod. civ sanziona con “l'invalidità” le rinunzie e le transazioni, intervenute nell'ambito dei rapporti di cui all'art. 409 cod. proc. civ., aventi ad oggetto i diritti inderogabili del prestatore di lavoro di derivazione legale ovvero contrattuale. Poiché la categoria dell'invalidità comprende sia la nullità che l'annullabilità, l'interprete è tenuto, in ragione della differente disciplina, ad individuare con esattezza la sanzione applicabile alla fattispecie disciplinata dall'art. 2113, 1° comma, cod. civ. La pacifica giurisprudenza (Cass. Civ. Sez. Lav. nn. 12561/2006 e 2734/2004) ha argomentato in favore del più tenue regime dell'annullabilità in ragione della previsione legale del termine decadenziale semestrale.
La rinunzia è un atto unilaterale depauperativo del patrimonio giuridico del lavoratore (ovvero del datore di lavoro) mentre la transazione è un contratto disciplinato dagli artt. 1965 e ss. cod. civ. ed è tale se contiene reciproche concessioni. A tal uopo la Cass. Civ. Sez. Lav. n. 20780/2007 ha sancito come, perché l'accordo tra il lavoratore ed il datore di lavoro possa qualificarsi atto di transazione, è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l'elemento dell'"aliquid datum, aliquid retentum", essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile. Nella specie, la S.C. ha cassato per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva ritenuto la natura transattiva dell'atto recante dichiarazione di voler transigere ogni diritto derivante dall'intercorso rapporto di lavoro senza considerare nella motivazione che la somma corrisposta al lavoratore nel preteso atto di transazione corrispondeva esattamente a quanto a lui spettante per trattamento di fine rapporto. E' pacifico (Cass. Civ. Sez. Lav., n. 18321/2016 e n. 10218/2008) che la scrittura del lavoratore, contenente una dichiarazione di rinuncia, possa assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che la dichiarazione sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili, non futuri ma già entrati nel patrimonio del lavoratore, e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Infatti, in applicazione dell'art. 1418 cod. civ., la necessità dell'esatta determinazione o, quanto meno, della determinabilità dell'oggetto della rinuncia costituisce condizione di validità di qualsiasi manifestazione negoziale di volontà abdicativa (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 10056/1991). Ne consegue che la transazione, anche in sede protetta, non precluda al lavoratore l'azione giudiziaria a tutela di quei diritti che non siano stati specificamente individuati (o non siano individuabili) come oggetto della rinuncia effettuata a fini transattivi.
L'atto di impugnazione dovrà intervenire entro il termine decadenziale di 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ovvero dalla data della rinunzia o della transazione se successiva. Trattandosi di atto unilaterale, l'oggetto della impugnazione dovrà essere determinato o determinabile sotto pena di nullità. In tal senso la Cass. Civ. Sez. Lav. n. 25484/2007 ha sancito che la generica impugnazione scritta di ogni rinuncia o transazione, espressa dal lavoratore in via stragiudiziale ai sensi dell'art. 2113 cod. civ., comma 3, costituisce negozio giuridico unilaterale nullo, ai sensi degli artt. 1324, 1418 c.c., comma 2, e art. 1346 cod. civ., per indeterminazione dell'oggetto. Il lavoratore potrà delegare un avvocato con riguardo all'atto di impugnazione ma non un'organizzazione sindacale.
Preliminarmente occorre evidenziare come le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro non rientrino nell'ambito di applicazione dell'art. 2113 c.c., in quanto relative a diritti disponibili. In tal senso la Cass. Civ. Sez. Lav., n. 6265/2014, ha statuito l'irrilevanza degli eventuali vizi formali del relativo procedimento attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto.
Pertanto, irrogato il licenziamento, il lavoratore potrà transigere il diritto di impugnare l'exit senza l'osservanza dell'art. 2113 cod. civ. Manifestata dal datore di lavoro la volontà di recedere, quindi, il prestatore può ben transigere in ordine al diritto ad impugnare il licenziamento, e al relativo atto non si applica la disciplina di cui all'art. 2113 c.c. (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 11471/1997).
Le conciliazioni in sede giudiziale, amministrativa o sindacale rappresentano, invece, le deroghe ammesse dall'art. 2113, 4° comma, cod. civ. Quelle in sede sindacale, in particolare, dovranno essere caratterizzate dalla presenza attiva del sindacalista del lavoratore (Cass. Civ. Sez. Lav., n. 4730/2002 e n. 11248/1997), declinata nell'effettività dell'assistenza del lavoratore. Infine, solo nel caso in cui la disciplina collettiva abbia previsto come indispensabile l'appartenenza del rappresentante sindacale non solo alla organizzazione cui aderisce il lavoratore, ma anche l'inserimento del primo nella organizzazione locale dello stesso sindacato, sarà annullabile l'accordo raggiunto con l'assistenza di un sindacalista appartenente ad una diversa organizzazione.