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Archivio newsPremiato chi tutela il lavoratore. Cosa rischia l’impresa meno virtuosa?
La crisi del sistema della rappresentanza sindacale ha aperto la strada all’applicazione di contratti collettivi che prevedono salari di vera sussistenza. Alcune imprese, oltre ad applicare contratti “al ribasso”, ricevono dallo Stato gli stessi incentivi e i sussidi che vengono erogati alle altre imprese, che sono costrette a sopportare un costo del lavoro ben maggiore. Per premiare le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori, l’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 7 del 2019, ha precisato che, per godere degli sgravi contributivi e fiscali, le aziende sono obbligate a rispettare i CCNL sottoscritti dalle «organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Sarà l’inizio di una (necessaria) inversione di tendenza?
Dopo il reddito di cittadinanza (che consente a molti di rimanere disoccupati in attesa di un lavoro ben retribuito) e nell’attesa che venga eventualmente a conclusione l’iter parlamentare del progetto di legge sui minimi salariali (cfr. Salario minimo legale: una riforma epocale che “spaventa” le imprese), l’Ispettorato Nazionale del Lavoro torna a mettere ordine in una materia tutt’altro che semplice, quale quella della retribuzione collettiva.
Come si sa, non essendosi mai realizzata la previsione costituzionale che impone un sistema di relazioni sindacali governato dal principio di maggioranza a livello nazionale, con l’obbligo di tutte le imprese operanti nel territorio italiano di applicare (in buona sostanza) il contratto collettivo sottoscritto da CGIL, CISL e UIL, i datori di lavoro sono liberi di scegliere quale contratto collettivo applicare (art. 39 Cost.).
Il risultato è che, accanto ai sindacati tradizionali (degli imprenditori e dei lavoratori), sono sorte numerosissime sigle, che sottoscrivono fra di esse una enorme varietà di contratti collettivi, riconoscendosi vicendevolmente e senza preoccupazione alcuna in ordine al (ridottissimo) numero di lavoratori e imprese a loro affiliati. Il numero dei contratti collettivi nazionali registrati dalla banca dati attiva presso il CNEL è arrivato così a contare poco meno di 900 CCNL in vigore, con un enorme affollamento nei settori come il terziario, i servizi generali o l’agro-alimentare.
Si tratta, in verità, di un fenomeno non nuovo, ma che rimaneva abbastanza sotto-traccia fin tanto che le organizzazioni sindacali della “triplice” e il sistema di Confindustria erano in grado di imporre il contratto collettivo da essi sottoscritto, almeno alle imprese di maggiori dimensioni (poiché una parte non secondaria delle imprese era da tempo organizzata in associazioni datoriali che hanno sempre rivendicato la loro autonomia, come i piccoli industriali o le cooperative).
La crisi del sistema della rappresentanza (su entrambi i versanti) ha fatto emergere però questa intrinseca debolezza della legislazione italiana, aprendo la strada all’applicazione di contratti collettivi che prevedono salari bassissimi (si arriva a meno di 4 euro per ora di lavoro).
Il problema non riguarda, peraltro, solo i lavoratori ma anche lo Stato, che, ove fosse costretto ad attenersi ai salari dichiarati (ed effettivamente corrisposti), vedrebbe ridursi enormemente le sue entrate fiscali e contributive (che, come è noto, sembrano avere come principale obiettivo il reddito lavoro dipendente).
In questo senso non si può mancare di ricordare come già dalla metà degli anni ’90, il Parlamento ebbe a precisare che, liberi restando le imprese di applicare il CCNL preferito, ai fini del calcolo della contribuzione da versare all’INPS, si doveva tenere conto esclusivamente del «contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale» (v. art. 1, comma 1, D.L. n. 338/1989, nonché art. 2, comma 25, legge n. 549/1995) e quindi dei CCNL sottoscritti da Confindustria e CGIL, CISL e UIL.
Una previsione siffatta, tuttavia, non può che riguardare i rapporti con l’INPS, poiché, fin tanto che manca una norma di attuazione delle previsioni costituzionali, le imprese restano libere sul piano dei rapporti individuali di applicare il livello retributivo stabilito in uno di questi contratti “minori” (o “pirata”, come qualcuno li chiama).
All’apparenza potrebbe sembrare che da queste pratiche derivi per l’impresa un vantaggio solo modesto, visto che anche il lavoratore potrebbe contestare il livello salariale, lamentando il fatto che esso non sia conforme al precetto costituzionale dell’equo salario, che impone già adesso che il lavoro sia retribuito in maniera proporzionata alla professionalità e alla durata della prestazione e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare al lavoratore «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.).
La verità, però, è che per ottenere il rispetto di questo suo diritto, il lavoratore non può (di fatto) sollecitare l’apparato di vigilanza amministrativa (e quindi l’Ispettorato), ma deve sempre rivolgersi al giudice, anticipando in genere i costi della tutela legale e aspettando che la Giustizia faccia il suo corso (con tutte le enormi difficoltà connesse poi all’esecuzione materiale di una pur favorevole sentenza). Una condizione, oggi, troppo gravosa che spinge quindi molte imprese a ricorrere a questi contratti “al ribasso”, nella certezza che prima che si faccia chiarezza sul punto passeranno comunque molti anni e che solo una parte dei lavoratori si farà avanti a chiedere il rispetto di norme (comunque prive di un riferimento ad un salario orario chiaro e incontrovertibile).
Resta però che in questo modo alcune imprese, senza rispettare il CCNL sottoscritto delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, ricevono da parte dello Stato gli stessi incentivi e sussidi che spettano a tutte le altre imprese, malgrado un costo del lavoro ridotto rispetto alla concorrenza.
Per limitare, quindi, questo effetto (e per controllare che gli incentivi giungano “a bersaglio”, premiando le imprese più rispettose dei diritti dei lavoratori) l’Ispettorato con la circolare n. 7 del 6 maggio 2019 ha precisato che anche ai fini del godimento dei benefici normativi e contributivi, le imprese sono obbligate al rispetto dei CCNL sottoscritti dalle «organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1175, legge n. 296/2006).
Non si tratta, ovviamente, di limitare la scelta del datore di lavoro (che resta libero di applicare il CCNL sottoscritto dall’associazione imprenditoriale cui aderisce, salva la valutazione di congruità affidata ex post al Giudice amente del già richiamato art. 36 Cost.), ma di prendere coscienza del fatto che l’accesso agli sgravi contributivi e fiscali è concesso solo a quanti si obblighino a corrispondere ai lavoratori dei trattamenti economici e normativi equivalenti o superiori a quelli previsti dai contratti, firmati dalla OO.SS. comparativamente più rappresentative (di modo che ove manchi questa condizione, gli incentivi ricevuti andranno restituiti). E tanto, precisa la circolare, al netto di quei trattamenti previsti in favore del lavoratore, che siano sottoposti, in tutto o in parte, a regimi di esenzione contributiva e/o fiscale (come ad es. per il c.d. welfare aziendale).
Un modo, insomma, assai indiretto per rammentare a tutti che sul mercato del lavoro domanda e offerta non possono confrontarsi liberamente, come se si trattasse di stabilire il costo di una merce.