News
Archivio newsConciliazione in sede sindacale: l’inoppugnabilità non è più un “mantra”?
A determinate condizioni, la conciliazione in sede sindacale può essere impugnata entro 180 giorni come qualsiasi altra transazione o rinuncia stragiudiziale. Lo afferma il Tribunale di Roma con una decisione (la n. 4354 dell’8 maggio 2019) che però resta, al momento, sostanzialmente “solitaria”. La sentenza richiama l’attenzione su alcune questioni che, se riprese in altre decisioni, potrebbero “cambiare” alcune modalità conciliative “in sede sindacale”, non inquadrabili nel dettato normativo. Una tra tutte: la conciliazione e l’arbitrato possono essere svolti presso le sedi e con le modalità previste dai CCNL. Cosa succede se manca la disciplina contrattuale?
Molto si discute sulle “conciliazioni tombali”, espressione che sta a significare che, almeno per quel che concerne le rivendicazioni economiche, attraverso un accordo raggiunto in “sede protetta” le parti danno una stabilità giuridica in ordine ad una serie di questioni che riguardano il rapporto di lavoro (il più delle volte, intercorso) relativamente a mansioni, differenze paga, lavoro straordinario, licenziamento e tanto altro. Di qui una corsa, soprattutto, in situazioni che meriterebbero una maggiore attenzione, ad accordi da formalizzare nelle sedi appena indicate.
Su un tema di tal genere è calata la sentenza del Tribunale di Roma n. 4354 dell’8 maggio 2019 che ha affermato, al termine di un ragionamento molto approfondito, che la conciliazione in sede sindacale la quale, secondo la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., “gode” della inoppugnabilità, a determinate condizioni può, invece, essere impugnata, entro i 180 giorni successivi, come qualsiasi altra transazione o rinuncia avvenuta al di fuori delle procedure indicate dagli articoli 410, 411, 412-ter e 412-quater cpc , dell’art. 185 c.p.c. (sede giudiziale), alle quali, va, con alcune particolarità, la conciliazione ex art. 11 del D.Lgs. n. 124/2004 (“conciliazione monocratica”). Quest’ultima, chiude anche il procedimento ispettivo se con il pagamento di quanto concordato in sede conciliativa, vengono corrisposti i relativi contributi entro il giorno 16 del mese successivo.
Nelle disposizioni appena citate rientrano, a pieno titolo, anche le conciliazioni, di natura economica, avvenute avanti ad un organo di certificazione previsto dall’art. 75 del D.Lgs. n. 276/2003.
La decisione del Tribunale di Roma non fa, ovviamente, riferimento, ai classici vizi di volontà che, se provati, portano alla nullità dell’atto transattivo: mi riferisco all’errore, alla violenza ed al dolo, ricordando che con quest’ultimo termine la Cassazione (Cass. n. 8260/2017) comprende anche quello “malizioso” che si configura allorquando il datore di lavoro rappresenta al dipendente, inducendolo alla firma, una situazione diversa da quella effettiva (ad esempio, soppressione di un posto di lavoro che non c’è) o anche (Tribunale di Napoli, n. 379 del 25 maggio 2019) quando la firma della transazione e della conseguente rinuncia avviene sotto minaccia di un danno (se non firmi non ti ricolloco presso un altro datore di lavoro). Altro caso che, in linea con le cose appena dette, potrebbe portare alla impugnazione del verbale pur sottoscritto in sede protetta riguarda il caso del c.d., “patto leonino” ove, a fronte di una rinuncia ad ogni rivendicazione connessa al rapporto di lavoro, viene corrisposta una somma indubbiamente “misera” rispetto alla rinuncia stessa.
Tornando alle motivazioni della sentenza del Tribunale di Roma viene affermato che, in mancanza di una disciplina specifica nel contratto collettivo, finalizzata alla conciliazione ed in carenza di una effettiva assistenza fornita al lavoratore, il contenuto del verbale può essere, tranquillamente, oggetto di impugnazione.
Le motivazioni partono dal contenuto dell’art. 412-ter laddove si afferma che “la conciliazione e l’arbitrato nelle materie di cui all’art. 409, possono essere svolti presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”: questa norma è da mettere in diretta correlazione con quanto appena detto circa l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. che rende inoppugnabili le transazioni e le rinunce avvenute.
Ma, se il CCNL di riferimento non regolamenta la procedura di conciliazione (e sono molti i settori ed i comparti ove tale procedura non è esplicitata), cosa può succedere?
La risposta, secondo il Tribunale è una soltanto: non è stata ipotizzata alcuna procedura dalla pattuizione collettiva e, di conseguenza, il verbale, seppur sottoscritto dal lavoratore, può essere impugnato dallo stesso entro i 6 mesi successivi alla stipula, in quanto, su questa materia non è consentita alcuna interpretazione “per analogia” o “ultra legem” perché la inoppugnabilità relativa alle conciliazioni ed alle rinunce ha carattere eccezionale ed è, espressamente, riservata, agli atti redatti con le modalità richiamate dal comma 4 dell’art. 2113 c.c. .
Il giudice ha sottolineato, inoltre, un altro principio: quello della “effettiva assistenza” che il rappresentante sindacale deve fornire al lavoratore. Si tratta di un principio che la Corte di Cassazione ha, più volte, richiamato, facendo riferimento alla “piena consapevolezza”.
Il sindacalista non può limitarsi a leggere il verbale, ma deve essere a conoscenza della intera vicenda, deve “soppesare” con il lavoratore i costi ed i vantaggi che sono correlati alla sottoscrizione, fornendo tutti gli elementi utili a far sì che l’interessato sia pienamente consapevole e cosciente delle conseguenze legate alla conciliazione.
Il giudice di Roma non vede di “buon occhio” la figura del sindacalista che non si reca in azienda (come nel caso di specie), che non ha mai visto la lavoratrice interessata, che si limita a dire “frasi di rito”, senza entrare nel merito della controversia, sottoscrivendo un verbale già preparato, in ogni sua parte, dal datore di lavoro o dal professionista che l’assiste.
La decisione del Tribunale di Roma fa testo sul caso concreto ed è suscettibile di impugnativa e, al momento, appare, sostanzialmente, “solitaria”.
Essa, però, richiama l’attenzione su alcune questioni che, se riprese in altre decisioni, potrebbero “cambiare” alcune modalità conciliative “in sede sindacale” che non paiono inquadrarsi, in maniera ortodossa, nel dettato normativo.
Non sempre la contrattazione collettiva stabilisce le modalità procedurali e, sovente, le conciliazioni, già scritte in tutti i contenuti (anche con elementi del tutto estranei alla effettiva controversia) vengono sottoposte ai lavoratori interessati, avanti al conciliatore sindacale che limita la propria parte ad una funzione prettamente “notarile” chiedendo all’interessato se è d’accordo.
Ciò, a prescindere dalla decisione del Tribunale di Roma, non va bene come, ed è giusto ricordarlo, non vanno bene neanche le sottoscrizioni avanti alla commissione (“rectius” sottocommissione di conciliazione) presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro ove l’organo collegiale (vi sono anche i rappresentanti delle parti sociali), attraverso chi lo presiede (in genere, un funzionario dell’Ufficio), si limita, soltanto, a leggere il verbale ed a chiedere se si è d’accordo.
Molte volte, tenuto anche conto dei soggetti intervenuti, magari, è anche sufficiente tale comportamento, ma altre volte, ove l’interessato, effettivamente, si trova in una condizione di soggezione (materiale o psicologica, non importa), un comportamento attivo e di assistenza, pur nel rispetto della terzietà, appare importante e decisivo.
L’aspetto della “effettiva assistenza” svolta dal rappresentante sindacale è, a mio avviso, basilare: anche per evitare possibili controversie, oltre che effettivamente resa, la si potrebbe richiamare nel verbale, dando atto che la stessa si è, effettivamente, svolta, richiamando gli specifici passaggi.
Due parole, infine, a commento della sentenza del Tribunale di Roma.
Se il principio della procedura di conciliazione non disciplinata nel contratto collettivo, come fatto dirimente, dovesse “prendere piede”, probabilmente, assisteremo ad un maggior ricorso alla conciliazione avanti alla commissione provinciale istituita ex art. 410 cpc, a scapito di quella sindacale.
Se il principio della “effettiva assistenza” dovesse essere oggetto di una verifica precisa e puntuale da parte dei giudici di merito, il risultato sarebbe soltanto uno: le conciliazioni in sede sindacale, correrebbero il rischio di essere impugnate entro i “canonici” 180 giorni e tutto questo potrebbe portare ad una sostanziale instabilità dell’istituto conciliativo.