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Licenziamento di portatori di handicap: fin dove può spingersi il “repechage”

La tutela dei portatori di handicap sul posto di lavoro, in relazione alla conservazione del posto, è, sotto l’aspetto normativo, “rafforzata” rispetto a quella che il legislatore assegna ad un dipendente “normodotato”. Sull’argomento, nel corso degli anni è intervenuta la Magistratura, anche con sentenze di legittimità, che hanno focalizzato le tutele ed hanno affermato, anche di recente, la legittimità del licenziamento in presenza di specifiche condizioni. E allora diventa importante per il datore di lavoro capire, anche con un occhio alle possibili contestazioni in ordine alla risoluzione del rapporto, fin dove si può spingere il “repechage”. La conservazione del posto anche con mansioni inferiori va valutata, caso per caso.

La tutela del portatore di handicap sul posto di lavoro, in relazione alla conservazione del posto, è, sotto l’aspetto normativo, “rafforzata” rispetto a quella che il Legislatore assegna ad un dipendente “normodotato”.

Di ciò è palese testimonianza non soltanto l’art. 10 della legge n. 68/1999 ma anche le disposizioni in materia di licenziamento illegittimo che si rinvengono sia nell’art. 18 della legge n. 300/1970 che nell’art. 2, ultimo comma, del D.Lgs. n. 23/2015.

Sull’argomento, nel corso degli anni è intervenuta la Magistratura, anche con sentenze di legittimità, che hanno focalizzato le tutele ed hanno indicato, anche di recente, fino a dove può spingersi, in caso di licenziamento, il dovuto “repechageaziendale (ossia la conservazione del posto anche con mansioni inferiori).

L’analisi che segue, ovviamente, non tratta le questioni attinenti al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo: le regole da seguire sono le stesse che riguardano gli altri lavoratori e, in caso di recesso per tali motivazioni, non c’è nulla di diverso rispetto alla totalità dei dipendenti.

Il discorso che, invece, intendo affrontare riguarda, innanzitutto, l’inidoneità allo svolgimento delle mansioni, rispetto alle quali l’art. 10, comma 3, della legge n. 68/1999 prevede uno specifico iter.

Sia il lavoratore che il datore di lavoro possono chiedere un accertamento delle condizioni di salute in ragione delle minorazioni, sia in caso di aggravamento, che di significative variazioni nella organizzazione del lavoro aziendale. L’accertamento va fatto dalla struttura pubblica (commissione sanitaria ex lege n. 104/1992) e, qualora quest’ultima ritenga che l’aggravamento o l’incompatibilità derivante dalla nuova organizzazione del lavoro pregiudichino la prosecuzione del rapporto, il Legislatore afferma che il disabile può fruire di una sospensione non retribuita dal rapporto per tutto il periodo in cui tale incompatibilità persista. Sia la richiesta di accertamento, che il periodo necessario per lo stesso non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Il rapporto si risolve allorquando, pur attuando una serie di possibili adattamenti nella organizzazione del lavoro, viene accertata la definitiva impossibilità del reinserimento del disabile all’interno dell’azienda.

Fin qui il comma 3 che va correlato con altre disposizioni, secondo le quali l’imprenditore non può chiedere al disabile prestazioni non compatibili con la minorazione e che, in caso di demansionamento, il disabile conserva la retribuzione relativa al livello di appartenenza.

L’iter per la risoluzione del rapporto, anche se lungo e, per certi aspetti defatigante, è soltanto quello delineato dal comma 3: infatti, la Cassazione, con sentenza n. 10576 del 28 aprile 2017, ha ritenuto illegittimo un licenziamento attuato dal datore di lavoro che, sulla scorta di una inidoneità alla mansione accertata dal medico competente, ex art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, avvalendosi della previsione del successivo art. 42, aveva risolto il rapporto, non ravvisando la possibilità di adibire il dipendente a mansioni equivalenti od inferiori. La Suprema Corte ha sostenuto che, nel caso di specie, vale la specialità della norma (art. 10, comma 3), atteso che la visita sanitaria, assegnata in via esclusiva alla commissione sanitaria prevista dalla legge n. 104/1992, non può essere derogata da interventi di altri organismi sanitari.

Detto questo, però, anche con un occhio alle possibili contestazioni in ordine alla risoluzione del rapporto, va individuato fin dove si può spingere il “repechage”.

Una recentissima decisione della Corte di cassazione, la n. 18556 del 10 luglio 2019 ha effettuato un’accurata disamina della questione, affermando la legittimità del licenziamento in presenza di alcune condizioni:

a) che non vi siano altre posizioni nella organizzazione aziendale ove utilizzare il dipendente;

b) che, pur a fronte di una nuova organizzazione possibile con una modifica della organizzazione aziendale, quest’ultima risulti gravosa sotto l’aspetto finanziario;

c) che la nuova organizzazione sia di pregiudizio alle posizioni di altri lavoratori.

Come si vede, si tratta di principi abbastanza nuovi (mi riferisco, ovviamente, ai punti b e c) che il giudice di merito deve esaminare nel concreto. Di conseguenza, il “repechage” va valutato, e si tratta di questioni molto delicate, anche in relazione alla gravosità dell’impegno finanziario del datore di lavoro e delle conseguenze sulle posizioni di altri lavoratori che, ad esempio, dovrebbero mutare stabilmente le proprie condizioni di lavoro come un diverso orario delle prestazioni con sensibile cambiamento.

Ma quale è il quadro normativo al quale il giudice deve riferirsi allorquando un lavoratore disabile impugna un licenziamento chiedendone la nullità?

La risposta ce l’abbiamo, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015 (ma la tutela, sostanzialmente, è la stessa anche per coloro che sono stati assunti prima e che dovessero invocare l’art. 18 della legge n. 300/1970) con l’art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 23/2015.

Nel caso in cui venga accertato il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore anche sulla base di verifiche effettuate dal consulente tecnico di ufficio (CTU) che ha individuato postazioni lavorative compatibili con la disabilità “aggravata”, il giudice ordina la reintegra, condannando il datore al pagamento delle retribuzioni (in ogni caso, non meno di cinque mensilità), della contribuzione e dei premi assicurativi, fino alla data della riammissione in servizio: può essere detratto, qualora sussistente, il c.d. “aliunde perceptum”. E’ data facoltà al dipendente di rinunciare al posto di lavoro a fronte del pagamento di una somma pari a quindici mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.

La tutela del lavoratore disabile sussiste anche nel caso in cui il recesso avvenga al termine di una procedura di licenziamento per riduzione di personale sulla base dei criteri individuati dall’accordo sindacale o, in mancanza, dalla legge (art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991). Ovviamente, come qualsiasi altro dipendente colpito dal provvedimento, il potatore di handicap può impugnare il recesso e, in caso di accoglimento del ricorso, gli effetti sono diversi a seconda che il proprio rapporto sia iniziato a partire dal 7 marzo 2015 o prima di tale data.

Nel primo caso (“tutele crescenti”) se il licenziamento intimato al termine della procedura è stato effettuato senza l’osservanza della forma scritta, il regime sanzionatorio applicabile è quello dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (reintegra, indennità risarcitoria calcolata sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale ”aliunde perceptum” ed, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità, pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo, possibilità per il solo lavoratore di optare, entro trenta giorni dalla sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se precedente, per una indennità risarcitoria pari a quindici mensilità).

Se, invece, il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione quanto previsto all’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 che, però, va visto alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 (estinzione del rapporto alla data del licenziamento, indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a tre mesi per ogni anno di servizio, con una base di partenza di sei e, comunque, con un tetto massimo fissato a trentasei mensilità. Tale indennità non può, secondo l’insegnamento della Consulta essere limitata al criterio, seppur importante, dell’anzianità ma, con motivazioni, può essere integrata dal giudice con ulteriori somme avendo quali parametri di riferimento i criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604/1966- numero dei dipendenti dell’impresa, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti-, ecc.).

Per gli assunti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 nulla cambia circa le sanzioni correlate alle violazioni dei criteri che possono così essere riassunte:

a) mancanza della forma scritta: reintegrazione oltre ad una indennità risarcitoria, non inferiore a cinque mensilità. commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra, dedotto quanto eventualmente percepito con altra attività lavorativa, ed il pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Il lavoratore, in luogo della reintegra, può optare, entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza o, se antecedente, dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, per una ulteriore indennità sostitutiva, non soggetta ad alcuna contribuzione, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

b) inosservanza di comunicazione preventiva dell’intenzione di ridurre il personale, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati: risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, con la corresponsione di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il giudice, con motivazione, tiene conto dell’anzianità di servizio (criterio preponderante) e del numero degli occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, delle iniziative assunte dal lavoratore finalizzate alla ricerca di una nuova occupazione e del comportamento complessivo delle parti nell’ambito della procedura;

c) violazione dei criteri di scelta (art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991): reintegra nel posto di lavoro oltre ad una indennità risarcitoria commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra (ma, in ogni caso, non superiore a dodici mensilità), dedotto quanto percepito in altra attività svolta durante il periodo di estromissione ma, dedotto anche quanto avrebbe potuto percepire cercando con diligenza un nuovo lavoro. In alternativa alla reintegra, anche in questo caso il lavoratore può optare, negli stessi termini sopra evidenziati, per una indennità sostitutiva pari a quindici mensilità. Per i dirigenti (anche tra costoro si possono annoverare portatori di handicap) la violazione dei criteri di scelta è punita, secondo la previsione contenuta nell’art. 16 della legge n. 161/2014, con una indennità risarcitoria (ritoccabile “in alto” o “in basso” dalla contrattazione collettiva) compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Da ultimo, sempre correlato alla particolare situazione dei portatori di handicap, va ricordata la specifica previsione del comma 4 dell’art. 10 della legge n. 68/1999: il recesso al termine di una procedura collettiva o, in ogni caso, attuato per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, nei confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente, è annullabile, qualora, al momento della cessazione, il numero dei rimanenti dipendenti portatori di handicap sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3. Si tratta, come ben si vede, di una norma di tutela che cerca di limitare comportamenti “capziosi” finalizzati a colpire, attraverso l’utilizzazione di norme specifiche, lavoratori disabili. In ogni caso la disposizione (comma 5) impone al datore di lavoro, in caso di licenziamento, di comunicare ai servizi per l’impiego il recesso, onde consentire la sostituzione con altro soggetto avente diritto all’avviamento obbligatorio.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/08/26/licenziamento-portatori-handicap-spingersi-repechage

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