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Archivio newsLavoro notturno: quali limiti per le donne?
Il legislatore vieta, in modo assoluto, l’attività lavorativa delle donne in stato di gravidanza e fino ad un anno dalla nascita del bambino, durante un arco temporale compreso tra le ore 24 e le 6 del mattino. Il datore di lavoro che viola tale divieto è punito con l’arresto da 2 a 4 mesi o con l’ammenda da 516 a 2.582 euro. Per l’applicazione della sanzione occorre però che il datore di lavoro sia a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice. Ma cosa succede se non è possibile, anche modificando le mansioni, adibirla ad altri compiti? Ed inoltre, in quali altri casi la lavoratrice madre può essere esonerata dal turno di lavoro notturno?
Tutti i lavoratori sono tenuti, nei limiti individuati sia dal Legislatore che dai contratti collettivi, a prestare lavoro notturno. E’ la stessa legge a fornire le definizioni di “periodo notturno” e di “lavoratore notturno”.
La prima definizione si riferisce ad un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino, mentre la seconda è, nella sostanza, duplice:
a) viene definito lavoratore notturno chi, durante il periodo identificato come tale, svolga almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
b) viene definito lavoratore notturno colui che svolga durante il periodo sopraindicato almeno una parte del proprio orario di lavoro secondo le disposizioni definite dalla contrattazione collettiva. In mancanza di pattuizione collettiva viene considerato lavoratore notturno qualsiasi dipendente che svolga per almeno 3 ore lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno. Tale limite minimo va riproporzionato in presenza di lavoratori con rapporto a tempo parziale.
La norma (art. 14 e 15 del D.L.vo n. 66/2003) impone al datore di lavoro, a proprie spese, per il tramite delle strutture sanitarie pubbliche o attraverso il medico competente, una serie di controlli preventivi e periodici (almeno ogni 2 anni) finalizzati a verificare l’assenza di controindicazioni alle prestazioni, mentre l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media sulle 24, fatta salva una diversa determinazione contrattuale che riferisca tale media a periodi più lunghi. La violazione di tali disposizioni viene punita con l’arresto da 3 a 6 mesi o con l’ammenda compresa tra 1.549 e 4.131 euro.
L’introduzione del lavoro notturno deve essere preceduta dalla consultazione con le RSU o le RSA, se costituite: in mancanza la consultazione che deve concludersi entro 7 giorni non necessariamente con un accordo, va effettuata con le organizzazioni territoriali di categoria.
Fin qui, per sommi capi, le norme sul lavoro notturno di carattere generale.
Andiamo, ora, ad esaminare, le tutele per le donne che si trovano in particolari condizioni.
Due specifiche disposizioni (l’art. 11, comma 2 del D.L.vo n. 66/2003 e l’art. 53 del D.L.vo n. 151/2001) vietano, in modo assoluto, l’attività lavorativa delle donne in stato di gravidanza e fino ad un anno dalla nascita del bambino, durante un arco temporale compreso tra le ore 24 e le 6 del mattino.
Il precetto è accompagnato da una sanzione di natura penale (arresto da due a quattro mesi o ammenda da 516 a 2.582 euro) e trova applicazione anche in altre ipotesi che saranno esaminate tra poco: essa viene irrogata dagli ispettori del lavoro e l’invio della segnalazione di reato alla Procura della Repubblica.
Il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 8/2005, chiarì che per l’applicazione della sanzione susseguente alla violazione del divieto, occorre la consapevolezza del datore circa il comportamento posto in essere: nel caso di specie è necessario, quindi, che la lavoratrice abbia portato a conoscenza dello stesso il proprio stato di gravidanza o che, costui ne abbia avuto la cognizione in altro modo.
Ma cosa succede se la lavoratrice è impiegata su quello specifico turno notturno e non è possibile, anche modificando le mansioni, adibirla ad altri compiti?
Il datore deve chiedere l’astensione anticipata all’Ispettorato territoriale del Lavoro che emette il provvedimento ex art. 17 del D.L.vo n. 151/2001, sulla base delle proprie valutazioni, non escludendo anche, se necessario, un intervento degli organi di vigilanza finalizzato a verificare la veridicità di quanto dichiarato.
Sul tema è intervenuta, con sentenza del 19 settembre 2018 (C-41/17), la Corte di Giustizia Europea, osservando che la mancata od inadeguata valutazione dei rischi specifici da parte del datore di lavoro deve essere considerata come una discriminazione fondata sul sesso e, quindi, contraria alle tutele specifiche previste dalla Direttiva 92/85 CE.
La normativa (art. 11, comma 2, del D.L.vo n. 66/2003) prevede altre situazioni nelle quali non si è obbligati a prestare attività in lavoro notturno.
Le persone interessate, almeno 24 ore prima dell’inizio della prestazione, debbono far presente per iscritto al proprio datore di lavoro, che intendono avvalersi della previsione normativa (art. 11, comma 2, lettere a, b, b-bis, c) che consente loro di essere esonerate dal lavoro: il datore di lavoro che, nonostante l’espressa richiesta, adibisce le persone interessate, è sanzionato penalmente con l’arresto o con l’ammenda nei limiti sopra indicati.
Le ipotesi che consentono l’esonero dal lavoro notturno riguardano:
- la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore ai 3 anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa. Va subito chiarito che per quel che concerne il diritto del padre, esso è, per così dire, un “diritto derivato”, nel senso che può astenersi dal prestare la propria attività in lavoro notturno, soltanto se la madre prestando attività in quella fascia temporale non abbia usufruito dell’opportunità di astensione;
- la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario (pur se vedovo secondo l’interpello n. 18/2014) di un figlio convivente di età inferiore ai 12 anni. Su questo punto particolarmente interessante è l’interpello n. 29/2008 del Dicastero del Lavoro il quale, sulla scorta delle previsioni contenute nella legge n. 54/2006, ha puntualizzato alcune questioni concernenti sia la “bigenitorialità” che l’affido condiviso. Partendo dalla necessità di tutelare lo sviluppo del bambino che, in caso di separazione dei genitori, ha diritto a ricevere da entrambi una educazione buona e a sviluppare rapporti normali e significativi nell’ambito familiare, ha affermato che la disposizione sulla non obbligatorietà del lavoro notturno trova applicazione in tutte quelle ipotesi nelle quali il giudice abbia disposto l’affidamento a periodi alterni e, durante gli stessi, si concretizzi l’attività notturna. Tale “status” va dimostrato al datore di lavoro attraverso l’esibizione di copia della sentenza;
- la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, nei primi 3 anni dall’ingresso del minore in famiglia, e comunque non oltre il dodicesimo anno di età o, in alternativa ed alle stesse condizioni, il padre adottivo o affidatario convivente con la stessa. Tale previsione è stata introdotta con l’art. 22 del D.L.vo n. 80/2015);
- la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ex lege n. 104/1992 o posseggano i requisiti per goderne (tale ultima precisazione si trova nell’interpello n. 4/2009).
Ai casi appena descritti se ne aggiunge un altro che è di carattere generale in quanto riguarda tutti i lavoratori e non soltanto le donne.
Mi riferisco all’art. 15 del D.L.vo n. 66/2003 il quale stabilisce che allorquando sopraggiungano condizioni di salute che comportino la inidoneità al lavoro notturno accertata dalla struttura sanitaria pubblica o dal medico competente, il datore di lavoro deve disporre l’adibizione del dipendente a lavoro diurno anche in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili, con un rinvio alla contrattazione collettiva finalizzato alla individuazione di soluzioni alternative qualora l’assegnazione prevista non risulti applicabile. Qui, a mio avviso, tra le varie ipotesi non sono da escludersi soluzioni come quelle individuate dall’art. 2103 c.c. (ad esempio, adibizione, a seguito di riorganizzazione, ad un livello inferiore nella stessa categoria legale di inquadramento con conservazione della retribuzione di provenienza e con la sola perdita delle indennità accessorie).