News
Archivio newsTaglio del cuneo fiscale: chi guadagna e chi perde…
Il Governo stabilisce come tagliare il cuneo fiscale, ossia quella parte del costo del lavoro che grava sulle imprese, ma che non finisce nella busta paga del lavoratore, perché viene versata all’Erario e alla previdenza pubblica. La ricetta che si propone è il ritorno ad una soluzione che negli anni ’90 diede un certo slancio all’economia italiana: intervenire sulla parte di salario prevista dagli accordi aziendali. In questo modo, a guadagnarci sarebbero i lavoratori (che godrebbero di considerevoli aumenti retributivi) e le imprese in termini di maggiore produttività. A perderci, l’INPS e l’Agenzia delle Entrate. Ma sarà un costo sostenibile per le casse dello Stato?
Come ogni anno, si prepara in questi giorni la legge di Bilancio, con l’obiettivo di riuscire ad incrementare i redditi individuali e ridurre le spese correnti. In questa prospettiva, il Governo ha dichiarato che sono allo studio misure dirette al taglio del c.d. cuneo fiscale. Con questa espressione si intende fare riferimento a quella parte complessiva del costo del lavoro che grava sulle imprese, ma che non finisce in busta paga, perché è intercettata dallo Stato, al fine di finanziare i costi generali dell’erario e quelli particolari della previdenza pubblica.
Tagliando quindi il cuneo fiscale si vorrebbe ridurre la differenza fra retribuzione lorda e netto in busta paga, così da alleggerire la pressione fiscale che grava, oramai per una parte consistentissima, sui redditi da lavoro dipendente.
Il “cuneo” misura, quindi, una parte di reddito reale ed effettiva, che però, per i lavoratori subordinati, o resta del tutto sconosciuta (perché rimane a carico delle imprese) o appare solamente come retribuzione “lorda”, nella forma di una trattenuta in busta paga.
Quanto al prelievo fiscale sui redditi da lavoro dipendente, c’è poco da dire: una quota di retribuzione viene trattenuta dal datore di lavoro ed è conseguentemente riversata all’Agenzia delle Entrate, come acconto mensile dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. Si tratta di importi che variano nella loro consistenza, in relazione al fatto che l’aliquota del prelievo segue il criterio della progressività ed è perciò maggiore, al crescere del reddito (secondo un sistema che conosce attualmente varie aliquote dal 23% al 43%).
A questa prima trattenuta, se ne aggiunge una seconda, secondo un importo percentuale uguale per tutti che corrisponde ai contributi che ogni lavoratore deve versare all’INPS per precostituire la propria posizione previdenziale. Allo stesso tempo, attraverso queste trattenute, si offre all’Istituto denaro “fresco”, indispensabile per poter pagare le pensioni mensili senza dover incrementare il debito pubblico.
Questa seconda voce del “cuneo” conosce alcune variazioni, in relazione alle mansioni di inquadramento del lavoratore, alle dimensioni dell’impresa e al settore di attività della stessa. Si ha innanzi tutto una quota INAIL, esclusivamente a carico del datore e commisurata alla concreta incidenza del rischio che il lavoratore corre di infortunarsi.
Si ha poi la contribuzione INPS, che, almeno per quanto riguarda l’assicurazione pensionistica, si estende anche ai collaboratori. Per es., un imprenditore che operi nel settore dell’industria deve pagare all’INPS i contributi sulla base delle retribuzioni complessivamente erogate ai suoi dipendenti, comprendenti le prestazioni di invalidità, reversibilità e vecchiaia (IVS), applicando l’aliquota del 23,81% sull’ammontare della retribuzione (cui si aggiunge poi una ulteriore percentuale pari al 9,19% che resta a carico della retribuzione lorda del dipendente). Solo la seconda quota viene però esposta in busta paga, mentre la prima parte è direttamente a carico del datore.
La seconda voce da prendere in considerazione ai fini contributivi, oltre all’assicurazione di malattia (2,22%) e di maternità (0,46%), è quella contro la disoccupazione (NASpI, pari a 1,61%). Vi sono poi i contributi (0,20%) per il fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto, ma solo per le imprese di minori dimensioni (meno di 50 dipendenti).
Una ulteriore voce retributiva interessa i versamenti dovuti alla CUAF, Cassa unica assegni familiari (0,68%), i quali sono dovuti indipendentemente dal fatto che i lavoratori alle dipendenze abbiano o meno familiari a carico (diversamente, il datore assumerebbe solo personale senza figli).
Ma non si finisce qui perché il datore di lavoro è tenuto altresì al pagamento dei contributi per la cassa integrazione guadagni e per la gestione straordinaria della medesima (oltre ad un pesante contributo al momento in cui se ne giova).
Un peso insostenibile, insomma, dato che ad un prelievo fiscale che può giungere nello scaglione più elevato al 43%, si sommano altresì contributi che, come si vede da quanto sino a qui si è detto, non faticano a superare il 51% delle somme complessivamente dovute al lavoratore e che sembrerebbe suggerire una riduzione almeno per le aliquote più basse, come già si fece in un recente passato mediante i famosi “80 euro” e la decontribuzione per le nuove assunzioni.
Ma come tagliare il cuneo fiscale-contributivo e a beneficio di chi?
Qui la ricetta che qualcuno sta proponendo vede il ritorno di una soluzione che negli anni ’90 diede un certo slancio all’economia italiana: si tratterebbe di calibrare un intervento di un certo rilievo su quella parte di salario che consegue, non al contratto collettivo nazionale, ma agli accordi aziendali. In questo modo, i lavoratori potrebbero godere di aumenti di reddito di un certo importo (perché non falcidiati dal prelievo fiscale e contributivo), mentre il sistema delle imprese potrebbe finalmente conoscere un incremento produttivo.
A perderci sarebbero solo INPS e Agenzia delle Entrate, che vedrebbero ridotti i flussi di cassa. Ci guadagnerebbe, forse, tutto il Paese che, dopo decenni, potrebbe finalmente rivedere crescere i tassi di produttività, rendendoli più competitivi rispetto alle imprese di tutti gli altri Stati europei.