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Archivio newsCCNL: luci e ombre sul futuro
Il CCNL ha tuttora un’importantissima valenza nella regolazione e definizione dei rapporti economici e normativi tra imprese e lavoratori. Nonostante ciò, assistiamo da tempo ad un forte indebolimento del suo ruolo, se non ad un vero e proprio attacco concentrico. Il depotenziamento della contrattazione nazionale a vantaggio di quella aziendale è, peraltro, fenomeno in essere già da diversi anni, sulla scia di convergenti indicazioni in tal senso formulate dalle istituzioni europee, dal legislatore nazionale, dalla contrattazione interconfederale e non ultimo dalla giurisprudenza: tutti protesi, per finalità e in contesti differenti, a salvaguardare l’efficacia derogatoria e flessibilizzante del contratto decentrato. Se ne parlerà nel corso del VII Forum TuttoLavoro, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrinalavoro.it, RCS Academy e Corriere della Sera, in programma a Roma il 27 novembre 2019.
Il contratto collettivo di lavoro ha assunto nel tempo funzioni e scopi sempre più ampi. Il grande Carnelutti, del resto, diceva che “ha il corpo del contratto e l’anima della legge”.
La sua peculiare caratteristica consiste nel definire i rapporti economici e normativi fra le parti stipulanti, fissando tra l’altro i minimi tabellari che regolano i livelli salariali dei lavoratori. Assume per questo una valenza sociale importantissima, in quanto regolatore del mercato in funzione anticoncorrenziale, oltre a fungere da protezione del potere d’acquisto delle famiglie.
Grande importanza ha poi la funzione “gestionale” dei contratti collettivi, quella attraverso la quale è possibile governare i vari processi che vanno dalla regolamentazione dei rapporti di lavoro alle crisi aziendali:
- interventi sul contratto individuale - part-time, contratti a termine, variazione delle mansioni, flessibilità, ecc.;
- interventi contrattuali collettivi – contratti di prossimità, di rete, ecc.;
- ammortizzatori sociali- CIGO, CIGS, contratti solidarietà, FIS, ecc.;
- licenziamenti collettivi e individuali;
- esternalizzazioni, distacco, appalto, trasferimento d’azienda.
Il contratto collettivo ha poi una vitale funzione pubblicistica, tutte le volte in cui è la legge che gli conferisce tale forza, utilizzandolo come parametro per realizzare determinati obiettivi generali.
Due esempi su tutti:
- ai fini dell'individuazione della base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali, Cassazione n. 24616/2019 ha affermato “…ex art. 1 del D.L. n. 338 del 1989, conv. nella I. n. 389/1989, occorre fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale, che è maggiormente di garanzia per una parità di trattamento tra lavoratori di un medesimo settore; ne consegue che, ove per uno specifico settore non risulti stipulato un contratto collettivo, legittimamente l'Istituto previdenziale può ragguagliare la contribuzione dovuta alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di un settore affine, restando a carico del datore di lavoro l'onere di dedurre l'esistenza di altro contratto affine che preveda retribuzioni tabellari inferiori rispetto a quello applicato dall'Istituto (v. in tal senso Sez. Lav. - Ord. n. 11650 del 14 maggio 2018, conforme a Sez. lav., sent. n. 9967 del 26 aprile 2007)”;
- art. 1, c. 1175, l. n. 296/2006: “A decorrere dal 1° luglio 2007, i benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.”
Indebolimento del ruolo del contratto collettivo nazionale
Nonostante, però, questa crescente importanza assunta dal contratto collettivo nazionale, assistiamo da tempo ad un forte indebolimento del ruolo, se non ad un vero e proprio attacco concentrico. Il proliferare dei contratti collettivi, oltre 800 secondo il CNEL (secondo il CNEL dei contratti vigenti solo il 33% è firmato dalla CGIL, CISL e/o UIL. Confindustria da parte sua firma solo il 14% dei contratti vigenti. Nel settore del commercio, per esempio, ci sono 192 contratti vigenti, dei quali solo 22 firmati da CGIL, CISL e/o UIL) con, all’interno di questi, la cancrena dei “contratti pirata” (In allegato si propongono due tabelle che mettono a confronto il livello 4° del CCNL Confcommercio con il corrispondente livello del CCNL ANPIT, usato di solito come alternativa al primo. Il confronto sul tema dei costi risulta impietoso anche quando (seconda tabella) si è immaginata l’applicazione, a norma dell’art. 1, comma 1175, l. n. 206/96, dell’agevolazione contributiva del bonus sud, sconto sui contributi INPS per un anno) e, infine, il dibattito sull’introduzione del salario minimo legale, sembrano le cause dell’indebolimento del contratto collettivo nazionale, ma in effetti ne sono solo la conseguenza.
La perdita di terreno da parte della contrattazione nazionale parte da lontano. I vincoli europei applicati al mercato del lavoro si sono tradotti in svariate raccomandazioni soprattutto nel periodo 2010/2014, a seguito dell'adozione degli obiettivi Europa 2020.
La sintesi mirabile di cosa l'Europa chieda agli Stati membri rimane la famosa lettera della BCE del 5 agosto 11 al Governo Berlusconi.
Il 13 agosto 11, con tempismo eccezionale, il Governo emana il D.L. n. 138 dove all'art. 8 prende forza la contrattazione aziendale che può, a determinate condizioni, derogare financo alla legge. Ma il vero obiettivo è quello di piegare la politica salariale e le condizioni di lavoro alle reali esigenze di ogni singola azienda.
Il disegno riformatore continua poi con la legge Fornero che mette la stretta al sistema pensionistico e si completa con il Jobs act:
- flessibilità in uscita (D.Lgs. n. 23/15);
- flessibilità nel rapporto di lavoro (D.Lgs. n. 81/15);
- potenziamento della contrattazione aziendale (D.L. n. 138/11 e D.Lgs. n. 81/15);
- riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico (D.Lgs. n. 148/15);
- sviluppo politiche attive (D.Lgs. n. 150/15);
L’avvento del Jobs act modifica gli orizzonti sul versante delle relazioni contrattuali collettive, che entrano in una nuova stagione fortemente derogatoria e decentrata, in cui il modello di prossimità diventa la regola e viene definitivamente superata ogni residua remora alla devoluzione verso il basso anche con riguardo all’aspetto economico, con la possibilità concreta di poter incidere sugli assi portanti del diritto del lavoro (quali termine, somministrazione, ius variandi, controllo a distanza, orario di lavoro).
Il depotenziamento della contrattazione nazionale a vantaggio di quella aziendale è peraltro fenomeno in essere già da diversi anni, sulla scia di convergenti indicazioni in tal senso formulate dalle istituzioni europee, dal legislatore nazionale, dalla contrattazione interconfederale e non ultimo dalla giurisprudenza, tutti protesi, per finalità e in contesti differenti, a salvaguardare l’efficacia erga omnes derogatoria e flessibilizzante del contratto decentrato.
L’idea è che la flessibilità del lavoro dipende dalle forme di produzione dell’impresa e che la dinamicità della professionalità poggia sulle capacità di adattamento continuo del lavoro alle mutevoli esigenze aziendali; e da ciò prendono corpo, e ancor più prenderanno corpo nell’immediato futuro con esponenziale diffusione, prassi contrattuali aziendali che possono incidere su diritti e prerogative.
La ricetta è quella giusta?
A giudicare dai dati sulla qualità dell’occupazione in Europa non sembra che questa rappresenti la medicina adeguata.
La politica economica sulle ristrettezze di bilancio ha creato il circolo vizioso dell’abbattimento della domanda interna.
Il lavoro è divenuto il principale capro espiatorio di una ricetta economica rilevatasi non vincente e ha subito una svalutazione denigrante per far digerire ai giovani e non, qualsiasi “lavoretto”, pena il ricatto della perenne disoccupazione.
S’invoca spesso la “crescita” come panacea, ma a quali condizioni?
Che si tratti di una crescita duratura ed equamente distribuita, che produca posti di lavoro stabili e di elevata qualificazione, che rafforzi il livello di internazionalizzazione delle nostre imprese consentendo loro di espandere il proprio business e le proprie capacità di export sulla base di efficienze organizzative e di prodotto, mantenendo contemporaneamente i diritti fondamentali.
Se ne è accorta anche l’Europa che nel “Pilastro Europeo dei diritti sociali”, all’indomani della Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017, declina nei suoi tre Capi questi diritti fondamentali da riconoscere ai cittadini:
- pari opportunità e accesso al mercato del lavoro;
- condizioni di lavoro eque;
- protezione sociale e inclusione.
In Italia il dibattito in corso sul minimo legale e la ricerca della “rappresentatività corretta”, devono aiutare a trovare il giusto equilibrio tra rispetto dei diritti fondamentali e esigenze delle imprese sempre più strette dalla concorrenza globale e alla perenne ricerca di una flessibilità “sana”.