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Archivio newsQuota 100. Lasciamola fino al 2021 (per rispetto del patto con i cittadini)
Quando parliamo di quota 100 parliamo non di una “quota”, ma di una “finestra” pensionistica; le quote funzionano in modo diverso. In quota 100 c’è un requisito fisso che sono i 38 anni di contributi che si sommano ai 62 d’età. Quota 100 è un intervento congiunturale che dura 3 anni, fino al 2021. A dicembre di quell’anno la sua vigenza terminerà e, data la natura non strutturale, sono d’accordo che cessi. Ma fino ad allora lasciamola vivere. Per un minimo di ragionevolezza, e perché lo Stato ha stipulato con i cittadini un patto che deve essere rispettato.
Quando parliamo di quota 100, si deve, in primo luogo, delimitare il perimetro dell’argomento: parliamo, cioè, di “flessibilità pensionistica”. Flessibilità, dunque, rispetto a quale “rigidità”? Per la precisione, a quella introdotta con il D.L. 16 dicembre 2011, n. 201, detto decreto “Salva Italia” e passato alla storia come riforma Fornero, dal nome della ministra del Lavoro del Governo Monti: l’economista Elsa Fornero. Non abbiamo qui lo spazio per addentrarci in un’analisi complessiva di quelle modifiche del sistema previdenziale, attuate nei mesi che seguirono la caduta del quarto Governo Berlusconi. Ci soffermeremo, quindi, solamente sugli aspetti riguardanti età pensionabile e flessibilità.
Quel decreto stabilì un innalzamento dei livelli minimi dell’età pensionabile e, senza alcuna gradualità, l’abolizione del sistema delle quote introdotto dalla riforma che avevo definito, nel 2007, come ministro del Lavoro del secondo Governo Prodi, con la legge n. 247. Un sistema che consentiva di sommare anni di età anagrafica e anni di contribuzione versati; e ciò allo scopo di raggiungere una quota che rendeva possibile il pensionamento. Nel 2007 il traguardo era quota 95 (60 anni di età e 35 di contributi; 59 e 36).
Con il decreto n. 201/2011, invece, per poter accedere alla pensione di anzianità, gli uomini dovevano avere un’anzianità contributiva minima di 42 anni e 1 mese; le donne di 41 anni e 1 mese. E va tenuto presente che queste nuove soglie, essendo legate alla crescita della speranza di vita, tenderanno a loro volta a salire. Tanto che, nel 2016, siamo già a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a 41 anni e 10 mesi per le donne.
La Monti-Fornero prevede, inoltre, un’unica forma di flessibilità: la possibilità di andare in quiescenza a 63 anni solo se, con il calcolo interamente contributivo (stiamo parlando dei prossimi anni 30) per chi è entrato al lavoro dal 1° gennaio 1996, il futuro trattamento previdenziale del pensionando sarà in grado di superare di 2,8 volte l’assegno sociale. Ovvero, solo se questa futura pensione raggiungerà la soglia di circa 1.400 euro lordi mensili. Il che, con un calcolo interamente contributivo, è cosa possibile solo per pochi; sicuramente non per i giovani della generazione del lavoro discontinuo e sottopagato. Per di più, qualora il lavoratore, al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia, non raggiungesse come importo minimo del suo trattamento previdenziale una soglia pari almeno a 1,5 volte l’assegno sociale, dovrà lavorare - sempre che abbia un’occupazione - fino a 70 anni di età e, via via, oltre.
Per ovviare, dunque, a queste estreme rigidità del sistema, nel 2013 ho messo a punto insieme a Pierpaolo Baretta e Marialuisa Gnecchi - capogruppo Pd nella Commissione Lavoro della Camera che, allora, presiedevo - e con la collaborazione di esperti come Gianni Geroldi e Alberto Brambilla, il disegno di legge 857. L’impostazione originale prevedeva la possibilità di anticipare l’età pensionabile fino a un massimo di quattro anni. Collocando il nuovo punto minimo per l’uscita dal lavoro a 62 anni, sempre a condizione che fosse maturato il requisito dei 35 anni di contributi versati. L’arco di questa forma di flessibilità andava dai 62 ai 70 anni. Nei primi quattro anni, dai 62 ai 66, ci sarebbe stata una forma di penalizzazione: il 2% per ciascun anno, con un massimo dell’8%. Mentre, per i successivi quattro anni, dai 67 ai 70, un incentivo a rimanere al lavoro, sempre del 2% all’anno. Quindi, il baricentro veniva collocato tra 66 e 67 anni, con penalizzazioni ed incentivi progressivi. Quella prima parte della proposta di legge 857 si accompagnava - nella logica illustrata sopra - ad una seconda, relativa ai cosiddetti lavoratori “precoci”. Per i quali prevedevamo i 41 anni di contributi, raggiunti i quali doveva essere possibile andare in pensione. Tale proposta, che aveva raccolto il supporto di molti, incluse le forze sindacali, non andò in porto.
Poi, nel 2016, il Governo Renzi firmò con i sindacati il verbale che diede vita, a partire dal 2017, alla sperimentazione dell’Ape volontaria e di quella sociale. L’Ape sociale permette, ad alcune categorie di lavoratori in difficoltà (cassaintegrati, disoccupati, familiari di disabili) e per chi svolge lavori gravosi, di andare in pensione in anticipo senza oneri aggiuntivi, attraverso un’indennità mensile a carico dello Stato. Voglio sottolineare la necessità che l’Ape sociale diventi strutturale e sia fruibile da chi fa un lavoro usurante come quello dell’edilizia.
Veniamo, quindi, a quota 100 introdotta dal Governo gialloverde. Va subito detto che non si tratta, di una “quota”, ma di una “finestra” pensionistica; le quote, come abbiamo visto in precedenza, funzionano in modo diverso. In quota 100 c’è un requisito fisso che sono i 38 anni di contributi che si sommano ai 62 d’età. Quota 100 è un intervento congiunturale che dura 3 anni, fino al 2021. A dicembre di quell’anno la sua vigenza terminerà e, data la natura non strutturale di tale misura, sono d’accordo che cessi.
Cosa succede a quel punto?
Torna integralmente in vigore la legge Fornero. Il requisito pensionistico non sarà rappresentato dai 62 anni accompagnati da 38 di contribuzione. Si tornerà, invece, ai 67 anni previsti da quella legislazione che non è stata né riformata, né superata dai promotori di quota 100.
Altra osservazione: chi può accedere a quota 100? Solo la parte più avvantaggiata del mondo del lavoro, coloro che hanno cominciato relativamente giovani o non sono mai stati licenziati o sono passati, senza soluzione di continuità, da un lavoro ad un altro. La platea ristretta che ricomprende età di nascita nella seconda metà degli anni 50 del XX Secolo.
Detto ciò, quota 100 ha sì i difetti che ho sottolineato, ma ritengo che, per un minimo di ragionevolezza, debba essere mantenuta fino alla fine del suo triennio di vigenza. Sono contrario all’idea che, quando cambia il Governo, quello nuovo cancelli ciò che è stato fatto da chi l’ha preceduto. Troppo spesso ci si dimentica che le persone non sono numeri, che hanno nome e cognome e una vita. Un lavoratore si mette d’accordo con il suo imprenditore, prevede, sulla base della legge, di poter andare in pensione, magari dopo 3 mesi o dopo un anno, si licenzia, negozia una buona uscita, arriva una nuova legge che cancella quella possibilità, e quella persona si trova, di punto in bianco disoccupato e “nuovo povero”.
La storia degli esodati non la si deve rivedere.
Dunque, pur con tutte le criticità del caso, lo Stato ha stipulato con quei cittadini un patto che deve essere rispettato.