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Archivio newsLe scelte di Powell e le parole di Lagarde. Si vota nel Regno Unito
Il numero uno della Fed americana, Jerome Powell e la sua omologa europea Christine Lagarde si pronunciano tra mercoledì e giovedì. I leader europei venerdì rinviano il Mes.
Donald Trump non si accontenta e continua a premere: vorrebbe un altro taglio dei tassi. Jerome Powell pensa di aver fatto abbastanza, con i tre ritocchi del 2019, e gli ultimi dati sullo stato di salute dell’economia Usa lo confortano: per quest’anno, probabilmente, si fermerà lì. Dalla conferenza stampa che, stasera, seguirà la chiusura della due giorni di riunione Fed non dovrebbe quindi consegnare alcun regalo natalizio per la Casa Bianca. E ha già spiegato perché: “Con l'espansione che continua ed è ormai al suo undicesimo anno” ritiene la politica economica “adeguata”. Dopodiché, visto che i rallentamenti ci sono anche negli States, resta pronto a rivedere la linea e ad agire di conseguenza “nel caso di un cambio materiale delle prospettive”.
Non sono previste novità. Ma è il primo board di politica monetaria, per Christine Lagarde, ed è ovvia l’attesa per la conferenza stampa finale. Come lei stessa ha ribadito più volte – l’ultima nel discorso d’esordio davanti al Parlamento europeo, lunedì 2 dicembre – da presidente Bce la sua linea sarà il naturale proseguimento del “metodo Mario Draghi”. Ovvero: “La Banca centrale rimane risoluta nel perseguire il proprio mandato”, così come “rimane al suo posto” quella politica monetaria accomodante che ha sostenuto la domanda interna durante la ripresa. Quel recupero oggi è un ricordo, offuscato dalle ombre lunghe della stagnazione? Vero: “L'economia potrebbe essere migliore”. È vero però anche che “abbiamo i mezzi per rispondere, e siamo determinati a usarli”. Purché i singoli governi nazionali facciano la loro parte. Altrimenti non funziona.
Pochi dubbi, stando ai sondaggi, che le elezioni di oggi non consegnino la vittoria ai Tories versione Boris Johnson. Dicono che il partito del premier abbia un vantaggio di almeno dieci punti sui laburisti di Jeremy Corbyn, il che metterebbe “BoJo” al riparo dai classici scostamenti tra i rilevamenti e il voto reale. Se così fosse, il 31 gennaio sarà Brexit. Ancora incalcolabili fino in fondo i danni sull’economia, britannica ma anche europea.
E venne il giorno del Mes, o Meccanismo europeo di stabilità, o fondo salva-Stati. Comunque lo si chiami, è il punto che finirà per oscurare tutti gli altri argomenti in agenda nella due giorni (ieri e oggi) di vertice tra i capi di Stato e di governo della Ue. All’Eurosummit che dovrebbe approvare la riforma del Trattato, Giuseppe Conte arriva indebolito dai litigi interni ed esterni alla maggioranza. Ma chi, nel Palazzo, è pronto a intestarsi una vittoria per ora solo di facciata – traduzione: la firma slitta, sì, però soltanto di un paio di mesi – sa o dovrebbe sapere che le pressioni italiane, tutte di politica interna, non hanno fatto chissà quale differenza. Ed è un pezzo che a Bruxelles hanno deciso come mascherare l’imbarazzo di un rinvio: andare a inizio anno con la scusa della “traduzione del Trattato nelle diverse lingue” non costa (e non cambia) granché.