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Archivio newsIl diritto del lavoro, oggi. Ascoltiamo la lezione dello Statuto dei lavoratori
Con lo Statuto dei lavoratori viene riconosciuta ai sindacati la libertà dell’attività sindacale in azienda, nascono garanzie di natura individuale per il lavoratore, si afferma il principio della rappresentatività dei sindacati qualificati. Una svolta epocale nei rapporti tra lavoro e impresa che dà “sostegno di legge” alla libera attività sindacale e un pavimento di diritti inderogabili ai lavoratori. Poi, molto è cambiato. Si è affermato il neo-liberismo e la globalizzazione, che ha spinto verso un’economia in cui prevalgono gli aspetti finanziari e in cui il valore del lavoro e i diritti individuali e collettivi perdono peso. Per garantire la libertà di organizzazione dell’impresa e la dignità del lavoro, la concezione del diritto del lavoro, oggi, deve rispolverare la lezione dello Statuto del 1970?
Quasi cinquanta anni fa, il 20 maggio 1970 vide la luce la legge 300 che conosciamo con la definizione di Statuto dei lavoratori. Fu un giro di boa nella civiltà giuridica del nostro Paese in materia di diritto del lavoro. L’apice di un processo radicalmente riformista. Processo la cui consistenza è - voglio ricordarlo in apertura - testimoniata dalla statura dei suoi stessi protagonisti: Giacomo Brodoloni, ministro del Lavoro che nel 1969 aveva licenziato la riforma delle pensioni e che chiamò alla guida della commissione cui fu affidata la redazione della bozza dello Statuto Gino Giugni. E, poi, Carlo Donat Cattin che fu successore di Brodoloni - scomparso prematuramente poco dopo aver dato avvio ai lavori della Commissione - al Lavoro.
Nella complessità dello Statuto, quale fu il punto, il filo conduttore che definisce la dimensione di quella legislazione? Ebbene la dimensione di quella riforma sta nel passaggio dall’astensionismo legislativo a quella che è stata definita legislazione di sostegno. Vedremo tra poco di cosa si tratta.
Ma è giusto ricordare, prima, il contesto in cui si arrivò, per decisione di un Governo di centro-sinistra ad architettare quella legge. Erano gli anni in cui il “boom” economico post-bellico aveva sviluppato tutto il proprio potenziale, portando l’Italia dalla condizione di Paese strutturalmente agricolo e povero a quella di potenza industriale in continua espansione. Percorso favorito dalla ricerca di una forte stabilità politica e sociale che tenesse in equilibrio le spinte contrapposte della collocazione atlantica e della crescita di un possente movimento operaio e dei suoi partiti politici di riferimento.
Furono anni di grandi movimenti sociali e politici che sfociarono nel ’68 degli studenti e nel ’68 -’69 del mondo del lavoro. Nel quadro di quella possente crescita produttiva ed economica, come ricordato sopra, era nato l’articolato sistema pensionistico firmato da Brodolini. Se non sul piano partitico, si può affermare che, di fatto, in Italia aveva preso piede una originale e consistente forma di social-democrazia, nella quale il più grande partito comunista dell’Occidente svolgeva, dall’opposizione, una robusta funzione di stimolo. Insomma, un sistema che aveva una propria stabilità che fu aggredita, non per caso, dal manifestarsi dalle forme di terrorismo che insanguinarono il Paese nel ventennio successivo.
C’era il problema dell’astensionismo legislativo che, in nome della libertà e dell’autonomia dell’organizzazione d’impresa, portava lo Stato a non intervenire con forti misure regolatorie nel merito dei rapporti di lavoro, sul piano individuale come su quello collettivo. Era questa una questione che veniva da lontano. Era il 1952 quando Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil e più autorevole esponente del movimento sindacale italiano, espresse la necessità di una legge quadro che ponesse un freno allo sfruttamento e alla discriminazione contro l’attività sindacale dei lavoratori. Si dovette arrivare, dunque, al livello di sviluppo della fine degli anni ‘60 e a quei grandi movimenti sociali perché la tendenza all’astensionismo legislativo potesse venir superata.
Dunque, una legislazione “di sostegno”. Con la legge 300 viene riconosciuta ai sindacati dei lavoratori la libertà dell’attività sindacale nell’azienda. Ancora, viene varata una disciplina relativa agli atti ed ai trattamenti discriminatori collettivi. Così come nascono garanzie di natura individuale relative alla libertà di opinione del lavoratore le cui idee non possono essere indagate, neanche in fase di valutazione per l’assunzione, così vengono vietate forme di controllo sull’attività lavorativa tramite guardie o impianti audiovisivi. Allo stesso tempo, viene introdotto il divieto di dar vita a sindacati di comodo o, come li si definiva allora, “sindacati gialli”. Si afferma il principio della rappresentatività dei sindacati qualificati che, in base all’articolo 19 dello Statuto possono costituire le proprie rappresentanze aziendali.
Lo Statuto ha una vasta articolazione che non possiamo esaminare più a fondo in questo contesto. Una svolta epocale nei rapporti tra lavoro e impresa che dà, come detto, sostegno di legge alla libera attività sindacale e un pavimento di diritti inderogabili ai lavoratori.
Poi, molto è cambiato. Sulla scena economica si è affermato, dopo i decenni di prevalenza dell’approccio keynesiano, il neo-liberismo che, immemore del principio enunciato nel 1776 da colui che è ritenuto il padre stesso dell’economia politica liberale, Adam Smith, nelle prime righe del suo “La ricchezza delle nazioni”, afferma: “il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui originariamente provengono tutti i mezzi di sussistenza e di comodo che essa annualmente consuma, e che sempre consistono del prodotto diretto del lavoro o di ciò che con esso viene acquistato da altre nazioni”. Il lavoro è, insomma, la fonte stessa della ricchezza di un Paese. Il neo-liberismo e la globalizzazione hanno spinto il mondo in direzione di una economia in cui prevalgono gli aspetti finanziari, i monopoli a danno dei mercati, le rendite gigantesche a danno dell’ascensore sociale e in cui il valore del lavoro e, insieme ad esso, i diritti individuali e collettivi perdono peso, mentre la crescita si è fermata per la maggior parte di coloro che vivono della propria attività. E attenzione: questo vale per tutti, dagli operai ai professionisti. Si pensi, in Italia, alla liberalizzazione delle tariffe delle attività professionali. Oggi, i professionisti devono battersi per la regolazione di un equo, sostenibile, dignitoso compenso per il proprio lavoro.
Ma non si può non parlare, per quel che riguarda il lavoro dipendente, di cosa abbia significato il Jobs Act. Come detto tra il 1970 e il 2014 il mondo è molto cambiato e non si poteva pensare di mantenere completamente immutata la legislazione dello Statuto dei lavoratori. Tuttavia, quel tentativo di modifica, che tendeva a spostare le tutele dal posto di lavoro al mercato del lavoro con l’abolizione del celebre articolo 18, è stato mal concepito, tanto che la Consulta ne ha cassato la regolazione dei licenziamenti illegittimi, ritenuta incostituzionale. Spostandoci su un altro scenario corrente, la “terra di mezzo” dei “lavoretti” della Gig Economy, in cui modalità, tempi e luogo della prestazione sono stabiliti dall’azienda, la Cassazione, in merito a un ricorso presentato da un gruppo di raider contro un’azienda del settore, ha stabilito che ai ciclo-fattorini vanno applicate le norme per i lavoratori subordinati.
In conclusione: il mondo del lavoro di oggi è molto diverso da quello del 1970. La concezione del diritto del lavoro, delle garanzie individuali e collettive, deve indirizzarsi, mantenendosi nel solco della Costituzione, verso una realistica considerazione dell’articolazione del presente, tenendo ben a mente la lezione dello Statuto del 1970: la libertà di organizzazione dell’impresa deve coniugarsi con la dignità del lavoro che è essa stessa libertà del cittadino.