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Archivio newsLa formazione continua finanziata e il cortocircuito europeo. Come uscirne?
Promuovere le attività di formazione rivolte ai lavoratori dipendenti. È la missione dei Fondi partitetici interprofessionali. Le aziende possono scegliere se destinarvi una parte della contribuzione (lo 0,30%) dovuta all'INPS per avere la garanzia che quanto versato possa ritornare sotto forma di azioni formative volte a qualificare i propri lavoratori. Si tratta di un sistema intelligente, ma con un percorso non facile. I capitali della formazione finanziata sono pubblici e, una volta che vengono indirizzati alle singole imprese, rientrano nei limiti previsti per gli aiuti di Stato. Come ovviare a questo cortocircuito normativo?
Uno dei problemi principali che si sono presentati nell’ambito legislativo dell’Unione europea è, senz’altro, la tendenza alla iper-regolazione. E, oltre a tale tendenza, è evidente una visione che si può definire astratta della libera concorrenza sui mercati. Parliamo della regolamentazione degli aiuti di Stato, considerati, indiscriminatamente e in qualsiasi contesto, come distorsivi della concorrenza. Tra i campi su cui si esercita una rigorosa quanto discutibile forma di veto in merito agli aiuti di Stato c’è quello della formazione dei lavoratori.
Vediamo il quadro nel quale si inscrive tale veto. Esso si manifesta nell’area della formazione finanziata - cioè basata sull’erogazione di fondi pubblici - laddove, nel nostro Paese, essa è somministrata dai Fondi interprofessionali.
I Fondi Partitetici Interprofessionali - istituiti in base alla Legge 388/2000 - sono enti bilaterali promossi dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, la cui missione è la promozione delle attività di formazione rivolte ai lavoratori dipendenti. Queste organizzazioni hanno la facoltà di raccogliere lo 0,30% della retribuzione dei lavoratori altrimenti versato all’Inps come contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria. La legge dà facoltà alle aziende di scegliere se destinare lo 0,30%, all'Inps oppure proprio ai Fondi Interprofessionali. In tale modo, l’azienda avrà la garanzia che quanto versato possa ritornare sotto forma di azioni formative volte a qualificare i lavoratori da essa dipendenti. L’adesione a un Fondo non comporta alcun costo ulteriore per le imprese e - in qualsiasi momento - è possibile cambiare Fondo o rinunciare all'adesione.
Si tratta indubitabilmente di un sistema intelligente. Le aziende e le rappresentanze sindacali programmano percorsi di formazione utili alla crescita delle competenze dei lavoratori. In tal modo, per il lavoratore si attua il corrente paradigma del lifelong learning che ha superato il modello di formazione del XX Secolo; si realizza, in definitiva, un approccio alla formazione mirato all'accrescimento del bagaglio del dipendente nel lavoro che cambia.
Di per sé, il percorso non è facile. I capitali della formazione finanziata sono pubblici e devono essere assegnati sottostando alle normative per gli appalti. Ma a limitare ulteriormente la capacità di erogazione della formazione attraverso i Fondi interprofessionali interviene proprio la normativa europea. Perché queste attività formative, basate su risorse pubbliche, una volta che vengono indirizzate a singole imprese, rientrano nei limiti previsti per gli aiuti di Stato. Ossia, rappresenterebbero per le aziende un vantaggio competitivo. Vantaggio provocato, per l’appunto, dalla crescita delle competenze professionali dei lavoratori.
Un bisticcio anche ideologico, a ben vedere, perché entrano qui in contraddizione due paradigmi delle policy dell’Unione. Da una parte la promozione sociale del lavoratore attraverso la formazione continua, dall’altra la tutela della libera competitività del mercato. Un vero e proprio cortocircuito.
Qui è intervenuta un’iniziativa politica lanciata da uno dei Fondi interprofessonali del nostro Paese: Fondimpresa, il Fondo interprofessionale costituito da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. In occasione del suo quindicesimo anniversario, Fondimpresa ha sollecitato, con il sostegno delle organizzazioni fondatrici, l’Unione Europea a escludere i piani di formazione continua dal divieto degli aiuti di Stato. Intorno a tale proposta si è coagulato il consenso di un ampio schieramento plurale di natura politica, sindacale e, naturalmente di altre realtà degli enti interprofessionali come, ad esempio, Sistema Impresa, la Confederazione Autonoma Italiana delle Imprese e dei Professionisti.
Il punto fondamentale in cui si palesa l’astrattezza della visione che inscrive la formazione continua tra i vantaggi competitivi delle singole imprese è che il miglioramento delle competenze dei lavoratori è, in concreto, uno strumento che dà agli stessi la facoltà di spendersi meglio nel mercato del lavoro. Le capacità acquisite non vincolano in sé i lavoratori alle imprese. Ne accrescono, in realtà, la capacità di offrirsi ad altre realtà produttive ed eventualmente migliorare la propria condizione.
La formazione continua, in definitiva, promuove il lavoro, incentiva l’occupabilità delle persone, supporta le carriere individuali. È un concetto che si è sviluppato proprio nella continua e frenetica evoluzione del mercato del lavoro. Quello odierno è un mondo del lavoro che ha abbandonato la concezione tayloristica dello stesso lavoro nello stesso posto per tutta la vita. I modelli organizzativi subiscono una rapidissima evoluzione in virtù dei progressi tecnologici e di mercato.
Ma c’è dell’altro. Da un lato abbiamo una forza lavoro che invecchia ed è afflitta dall’obsolescenza delle proprie conoscenze e, perciò, della propria capacità. Dall’altra si manifesta il fenomeno dei Neets, i giovani che non studiano, non si formano e non lavorano.
Veniamo al quadro politico che rende logica l’uscita da questa contraddizione. Le Istituzioni europee destinano una parte del Fondo Sociale Europeo alla formazione permanente con l’obiettivo di stimolare l’occupazione nell’ambito dell’Unione. Non a caso, nel solco delle strategie di Lisbona ed Europa 2020, il FSE ha riconosciuto l’apprendimento permanente tra le risorse strategiche di finanziamento della piena occupazione. La formazione continua si iscrive, a sua volta, nell’obiettivo della “crescita inclusiva” previsto dalla Strategia Europa 2020 e dalla “Agenda per le nuove competenze e per l’occupazione” della Commissione Europea. Infine, questi indirizzi corrispondono al “Pilastro europeo dei diritti sociali” del 2017 che stabilisce il diritto di ogni persona all’apprendimento permanente. Ci sono dunque tutte le ragioni logiche, politiche e di policy europee per uscire da questo paradosso. Logica che è sostenuta da un impegno trasversale della politica italiana nei confronti delle Istituzioni dell’Unione in questo senso. È ora che la formazione sia riconosciuta nel suo esclusivo valore sociale e sia liberata dall’improprio stigma di elemento distorsivo della concorrenza.