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Archivio newsCoronavirus. Cassa integrazione, ferie e smart working. E se la crisi si prolungasse?
Blocco dei licenziamenti collettivi e individuali. Cassa integrazione e assegno ordinario. Ferie e smart working. Sono le risposte “eccezionali” che il legislatore ha fornito per tutelare lavoratori e imprese dalle possibili difficoltà economiche legate alla riduzione o sospensione dell’attività produttiva. Ove però si voglia iniziare a riflettere, nel caso di crisi particolarmente prolungata, su nuove misure da adottare qualora le attuali si dimostrassero insoddisfacenti a fronteggiare la situazione, quali sarebbero le strade da percorrere? Senz’altro diverse, oppure …
Attraverso il decreto-legge “Cura Italia” del 17 marzo 2020, n. 18 (in GU del 17 marzo 2020) e gli altri provvedimenti governativi ad esso collegati, si è proceduto a tutelare i lavoratori e le imprese, per tenere tutti indenni dalla sostanziale inattività lavorativa, conseguente al lockdown, così da facilitare la permanenza di ognuno presso la propria abitazione.
In primo luogo, all’art. 46 del decreto-legge (ora in attesa di essere convertito in legge dal Parlamento entro il prossimo 16 maggio) si sono vietati, per tutte le imprese, indifferentemente dalle dimensioni e sino al termine previsto per la conversione del provvedimento, i licenziamenti, collettivi ed individuali, in quanto fondati su ragioni economiche o organizzative.
In altri termini, salva la perdurante possibilità di licenziamento per “mancanze individuali” (cioè per giusta causa), si è impedito temporaneamente alle imprese di far valere nei confronti dei propri dipendenti gli effetti conseguenti alla crisi, imponendo la prosecuzione del rapporto di lavoro, come misura di solidarietà, diretta a garantire che (almeno) nei due mesi successivi all’inizio della quarantena nessuno perderà il proprio lavoro.
L’onere economico necessario ad assicurare questa misura, tuttavia, non graverà tutto sulle imprese, perché al contempo (all’art. 19 e segg.) si dispone, a carico del bilancio statale, l’estensione generalizzata sino ad un massimo di nove settimane ed entro il mese di agosto 2020, degli ammortizzatori sociali, nella forma del trattamento ordinario di integrazione salariale (CIGO) e dell’assegno ordinario del FIS (Fondo integrativo speciale) a tutte le imprese con almeno 5 dipendenti.
Strumenti similari sono poi previsti per gli altri settori produttivi, esclusi dalla cassa e dal FIS, cosicché le imprese artigiane e assimilate si vedranno finanziare attraverso un versamento di 80 milioni di euro ai “fondi bilaterali” (art. 19, comma 6, DL n. 18), mentre quelle di piccolissime dimensioni potranno avere accesso alla cassa “in deroga” di cui all’art. 22.
Come è ben noto, anche i lavoratori iscritti alla “quarta gestione” INPS o i liberi professionisti, iscritti alle rispettive casse professionali, hanno diritto ad una “indennità” per il mese di marzo, cosicché solo i datori di lavoro domestico sembrano rimanere esclusi dalle provvidenze economiche deliberate dal Governo (anche se è da dire che le prestazioni di “cura” domiciliare sono sempre rimaste escluse dal divieto di circolazione conseguente all’epidemia).
Ovviamente la speranza di ognuno è che il numero dei contagi si riduca in fretta e che il prima possibile si possa tornare alla vita normale, pur nel rispetto delle misure di prevenzione e controllo della diffusione della malattia (distanziamento “sociale”, protezione delle vie aeree superiori, perdurante quarantena per i contagiati).
Tuttavia, non di deve dimenticare che, malgrado la natura eccezionale e straordinaria delle vicende attuali, ai rapporti di lavoro oggi in essere continuano a trovare applicazione le normali regole dettate per i tempi normali, di modo che, se ci si vuole preparare alla “fase 2“, bisognerà anche iniziare a ragionare sugli effetti della pandemia. Le norme che regolano le situazioni eccezionali, come quelle che tutti stiamo vivendo, infatti, sono già regolate dal codice civile e dalle leggi collegate e aspettano solo di essere riscoperte, anche se fosse solamente per guidare il Governo nella produzione di regole nuove e più adatte alla sensibilità dei tempi moderni.
In questo senso, innanzi tutto, si deve ricordare come il datore di lavoro mantenga, in ultima analisi, il potere di organizzare tutti i fattori della produzione e, quindi, anche di scegliere i tempi dell’attività produttiva, anche sino al punto di poter individuare unilateralmente quando collocare in ferie i propri dipendenti (art. 2109 c.c.), con il solo limite che deve tener conto degli interessi dei lavoratori e che è obbligato a far godere nell’anno di maturazione almeno due settimane di ferie continuative (art. 10 del D. Lgs. n. 66/2003).
Nessuna disposizione di legge o di contratto collettivo (e tanto meno il “protocollo condiviso” del 14 marzo 2020, che contiene prevalentemente solo linee guida per un successivo confronto con il sindacato) sembra aver modificato questa regola: ed anzi il precedente DPCM 11 marzo 2020 all’art. 1, n. 7, ha previsto che le aziende ricorrano allo smart working e incentivino le ferie, i congedi retribuiti e altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva (così confermando il potere del datore).
In sostanza, quindi, sembrerebbe che una forma ulteriore (e, per così dire, “di scorta”), diretta a garantire reddito ai lavoratori confinati nelle proprie abitazioni, sia (quando possibile) lo smaltimento delle ferie arretrate (e cioè relative agli anni 2018 e 2019, posto che quelle del 2020 stanno ancora maturando ad un ritmo di poco più di due giorni ogni mese lavorato).
Questa conclusione è stata confermata più recentemente dalla circolare INPS n. 47 del 28 marzo 2020, che ha precisato che: «come già chiarito con il messaggio n. 3777/2019, l’eventuale presenza di ferie pregresse non è ostativa all’eventuale accoglimento dell’istanza di CIGO o assegno ordinario. Pertanto, si ribadisce che non occorre chiedere all’azienda i dati sulle ferie ancora da fruire dai lavoratori interessati dalla richiesta di integrazione salariale».
In questo modo, dunque, l’onere economico del divieto di circolare liberamente viene ripartito, per il momento, sia sul bilancio dello Stato (che sopporta il peso degli ammortizzatori sociali, senza che si debbano prima smaltire tutte le ferie pregresse), sia sul singolo lavoratore (che si vede attribuite, perché siano godute, ferie che certamente non gli consentono quella dovuta spensieratezza che è alla base del recupero delle energie psico-fisiche, indicato dalla Corte costituzionale come finalità ineludibile dell’istituto), sia sulle imprese, a ragione soprattutto della complessiva perdita di redditività che, almeno nella maggioranza dei casi, la crisi produrrà in conseguenza del rallentamento del ciclo economico.
Ove si voglia, dunque, iniziare a riflettere in ordine alle conseguenze che sul piano del rapporto di lavoro dovessero discendere nell’eventualità in cui queste misure si dimostrino insoddisfacenti a fronteggiare una crisi particolarmente prolungata, il rischio che sembra emergere è quello, a tutti evidente, del venir meno della retribuzione per effetto di una vera e propria impossibilità sopravvenuta, per causa non imputabile al debitore, che impedisca al rapporto lavorativo di trovare esecuzione.
In caso di prolungamento della crisi (ed in assenza di aiuti economici), il contratto di lavoro, quindi, potrebbe anche rimanere in piedi, ma senza che possa maturare retribuzione per i periodi per i quali è impossibile la prestazione per il perdurare dei divieti governativi. È già questa, a ben vedere, la situazione in atto, anche se l’intervento statale ne attenua enormemente le conseguenze.
Si tratta però, ove non sia limitata a pochi giorni, di una soluzione non semplice e financo insidiosa, perché sembra privare i lavoratori sia della retribuzione, sia (in assenza di un vero e proprio licenziamento) della possibilità di avere accesso alla NASpI (che negli ultimi anni è stata particolarmente irrobustita e prolungata sino a due anni).
La difficoltà del momento è grande, come dimostra il fatto che il legislatore sembra essersi attrezzato, mediante la previsione all’art. 44 del decreto-legge stesso di un reddito “di ultima istanza” da riservare ai lavoratori subordinati ad autonomi che hanno perso il proprio lavoro «in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID 19»: a tal fine, la norma ora citata prevede un successivo decreto emanato d’intesa fra il MEF e il Ministero del lavoro, per individuare i criteri di attribuzione delle somme che sono state attribuite al Fondo creato ad hoc 300 milioni di euro.
La Spagna, invero, sembra essersi già incamminata su questa strada prevedendo un reddito base per tutti i bisognosi. Nello stesso paese, però, si sta agevolando una transizione provvisoria verso attività produttive alternative, soprattutto nel settore agricolo (dove non ci si può più avvalere di manodopera stagionale straniera, a ragione del blocco dei flussi migratori): forse è proprio ai nostri “cugini” latini che dobbiamo guardare per sperimentare soluzioni innovative ed inclusive, adatte a questi tempi bui.