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Rischi sul lavoro nella fase 2: più chiarezza per evitare conflitti e favorire la governance

Per effetto dell'emergenza da Covid-19 le aspettative di tutela riguardo ai nuovi profili di rischio che si porranno a carico del datore di lavoro prospettano una nuova stagione di conflittualità. Eppure le indicazioni per una miglior governance a livello aziendale non mancano e potrebbero essere agevolate promuovendo il contributo informativo degli stessi lavoratori. Per questo è auspicabile che la Fase 2 si accompagni alla chiarezza di indicazioni circa quanto ci si aspetta dal datore di lavoro sul piano delle misure di contrasto ad un ambiente di lavoro non sicuro, sviluppando al contempo strumenti di collaborazione e di reciproca informazione già esistenti (come il whistleblowing) che specialmente in questi frangenti potrebbero risultare utili strumenti di governance endoaziendale.

E’ imminente la c.d. fase 2 e, quindi, la fase di un accelerato e progressivo ritorno al lavoro di quanti – per effetto dell’emergenza da Covid-19 – si sono trovati, nella migliore delle ipotesi, adibiti a forme di lavoro a distanza (c.d. smart working) o, più spesso, ad uno stato non lavorativo (cassa integrazione, permessi non retribuiti, ferie anticipate etc).

È certo che vi è una crescente aspettativa che sia il datore di lavoro ad assicurare ai dipendenti un ambiente lavorativo in grado di proteggere dal rischio rappresentato dal coronavirus nel momento in cui sarà possibile la ripresa dell’attività lavorativa.

È cronaca di questi giorni la protesta dei familiari dei malati di coronavirus deceduti in strutture sanitarie (soprattutto per anziani) per aver scoperto che il ricovero ospedaliero non era stato (secondo quanto presumono) preceduto o accompagnato da una corretta informazione sulla capacità delle strutture di assicurare la protezione del contagio e/o la cura del contagiato.

Si è in presenza di una casistica più volte portata all’attenzione della magistratura e del legislatore, coinvolgendo la tutela della salute, la responsabilità della struttura e del personale sanitario, profili risarcitori e anche riflessi di natura penale.

Il fatto nuovo, che emerge nitidamente da febbraio, è la protesta dei lavoratori (si pensi ai dipendenti – medici e infermieri – di istituti sanitari a Milano come in molte altre realtà territoriali) contro i rispettivi datori di lavoro per non aver assicurato condizioni di lavoro protettive – con distanze, areazione, dispositivi individuali (mascherine, guanti, gel, etc.) –rispetto a quello che era diventato con certezza, negli ultimi tempi, un rischio in più per il prestatore di lavoro e un obbligo cogente per la parte datoriale.

Puntuale conferma di questo, si ricava del resto, oltre che dal D.L. 17 marzo 2020 n. 18, dalla stessa INAIL che – espressasi sul punto – ha confermato che per i medici e il personale sanitario sussiste un rischio specifico o aggravato nell’operare in detti ambienti con conseguente riconoscimento della patologia da Covid-19 come infortunio, indennizzabile da parte dell’Istituto.

Rispetto a vicende tragicamente note (si pensi all’utilizzo dell’amianto quanto ancora non ne era nota la pericolosità o quando ancora si dibatteva circa il nesso causale con gravi forme tumorali) o a vicende recentissime ancora controverse (si pensi al problema dell’incidenza sanitaria dell’utilizzo dei cellulari aziendali per periodi prolungati e senza protezione, vicenda che ha portato ad una prima condanna dell’INAIL a pagare il lavoratore infortunato), la esistenza del Covid-19 e la sua pericolosità per i lavoratori (come per i privati cittadini) non è un dato scientificamente incerto o controverso ed è, quindi, un profilo di rischio di cui il datore di lavoro deve farsi carico sia in sede di valutazione dei rischi (con redazione o adeguamento del relativo Documento) sia in sede di organizzazione aziendale e, in specie, di organizzazione del lavoro, assumendo tutte le iniziative di sicurezza richieste dal caso.

Non serve essere profeti per presagire una forte conflittualità prossima ventura, pur al netto delle stringenti prescrizioni e cautele definite nel protocollo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali e datoriali del 14 marzo 2020 (integrato, dopo una serrata trattativa, il 24 aprile 2020).

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Sul piano pratico, occorre chiedersi ad esempio se sia il datore di lavoro – e con quali strumenti – a dover controllare se il dipendente che si appresti ad entrare nello stabilimento sia malato, pur in forma lieve, di Covid-19 o sia un portatore asintomatico (ancor più pericoloso per i colleghi di lavoro), o se questo controllo, ove possibile, vada ripetuto ogni giorno.

Del resto, poiché il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere delle condizioni di vita esterna del suo dipendente e del rispetto – nella vita privata di quest’ultimo – delle condizioni igieniche da mesi ricordate come vincolanti a tutta la popolazione, è il dipendente che, all’ingresso nel luogo di lavoro, deve attestare di essere in condizioni fisiche tali da non costituire un pericolo per sé e per i colleghi di lavoro?

O, ancora, il dipendente che – in linea teorica – dovrebbe arrivare in azienda con mascherina e guanti (e cioè i presidi di cui dovrebbe essere stato dotato nella vita familiare e in periodo extralavorativo), continua ad usare i presidi personali, deve ricevere i DPI solo nel caso non li abbia o deve riceverli comunque dal datore di lavoro (sostituendoli ai propri)?

Da ultimo, nell’eventualità che un dipendente si ammali di coronavirus, come sarà possibile provare che erano inidonei i dispositivi di protezione in azienda o, invece, che il morbo è stato contratto in ambiente esterno per fortunoso o imprudente contatto con soggetti o ambienti infetti?

Le problematiche sul campo sono numerose, attengono non tanto un problema di costo di questi dispositivi, quanto della loro efficacia perché parimenti dubbio è se sarà il legislatore o altra entità pubblica ad indicare quali siano idonei o sarà compito – indelegabile – del datore di lavoro scegliere quelli che assicurano un ambiente di lavoro salubre (cfr., al riguardo, il “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Sars-cov-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione-aprile 2020”).

Una prima prevedibile forte conflittualità si è già manifestata: i giornali del 22 aprile riferiscono del licenziamento di un operaio dell’Ilva di Taranto per aver scritto in un post su Facebook che nella sua fabbrica mancavano presidi antinfortunistici come igienizzanti e altri dispositivi di protezione come mascherine.

Un’acciaieria non è un laboratorio di analisi di un ospedale e verosimilmente le contromisure da adottare devono essere funzionali alla tipologia del lavoro.

In attesa di una esatta ricostruzione dei fatti in sede disciplinare e/o in giudiziale, alcuni punti fermi vanno messi.

Innanzitutto, il contenuto di una chat recante considerazioni anche molto critiche nei confronti dell’ente datore di lavoro può rilevare come reato (diffamazione) o ingiuria.

Ma di regola vi è di più: il prestatore di lavoro (pubblico o privato) ha il diritto di segnalare illeciti ed irregolarità in azienda (artt. 1 e 2 legge n. 179/2017) e questo diritto diventa un obbligo giuridico se le carenze segnalate incidono sulla sicurezza del lavoro [art. 20 comma 2 lettera e) d.lgs. n. 81/2008].

Diritto o dovere che sia, il legislatore considera ritorsivo (e/o discriminatorio) e sempre nullo il licenziamento motivato con la segnalazione di irregolarità endoaziendali (e tale sarebbe certamente la mancanza, insufficienza o inidoneità dei presidi a disposizione) e obbliga il datore di lavoro alla rintegrazione ove non riesca a provare che la misura espulsiva è stata adottata non come illegittima reazione ad una segnalazione fondata ma per ragioni indipendenti dalla segnalazione e comunque imposte della realtà aziendale.

Al contrario, la segnalazione potrebbe invece assolvere una funzione di tipo “organizzativo”, fornendo all’ente un possibile elemento informativo circa il proprio adeguamento a standards di gestione e comportamento normativamente precisati o, comunque, orientati alla tutela e alla prevenzione.

In definitiva, è sommamente auspicabile che la c.d. fase 2 si accompagni alla chiarezza di indicazioni circa quanto ci si aspetta dal datore di lavoro sul piano delle misure di contrasto ad un ambiente di lavoro non sicuro, in questo parallelamente sviluppando strumenti di collaborazione e di reciproca informazione già esistenti (come il c.d. whistleblowing) che specialmente in questi frangenti potrebbero risultare utili strumenti di governance endoaziendale.

Perpetrare o dare spazio a situazioni di contrapposizione tra salute e lavoro non giova a nessuno e ben che meno nell’attuale contesto storico-economico.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2020/05/07/rischi-lavoro-fase-2-chiarezza-evitare-conflitti-favorire-governance

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