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Archivio newsResponsabilità del datore di lavoro da Covid-19 alla prova del doppio nesso causale
I presidi di sicurezza imposti per gli ambienti di lavoro hanno introdotto altre responsabilità a carico del datore di lavoro, che dovranno essere gestite con attenzione al fine di evitare conseguenze anche penali. Le recenti norme qualificano infatti l’eventuale contagio Covid del dipendente durante il lavoro in termini di infortunio sul lavoro. Evidentemente però occorrerà riscontrare la sussistenza del nesso causale tra il virus contratto e lo svolgimento della prestazione lavorativa. Se poi a questo si dovesse aggiungere anche un nesso causale tra carenza dei presidi di sicurezza e contagio, si possono integrare responsabilità penali per il datore di lavoro.
L'art. 42, comma 2, del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 (cosiddetto decreto Cura Italia, convertito con modificazioni nella legge 24 aprile 2020 n. 27), ha sancito che il contagio da Coronavirus, quando verificatosi in occasione di lavoro, debba essere trattato dall'INAIL come un infortunio sul lavoro. A tale riguardo l’INAIL stesso ha precisato, fin dalla sua circolare n. 74/1995, che le malattie virali (come il Covid-19) conseguono ad una causa violenta – l’infezione appunto - e pertanto vanno qualificate come infortunio e non come malattia professionale. Peraltro, conferma in tal senso è contenuta anche nella risposta nr. 5-03904 del 6 maggio 2020 della Commissione Lavoro pubblico (IX).
Ne deriva, inevitabilmente, una potenziale responsabilità del datore di lavoro, di rilevanza anche penale, per l’ipotesi in cui i suoi dipendenti risultino effettivamente essere stati contagiati in ambito lavorativo; più precisamente ed a seconda della gravità delle conseguenze dell’infezione si può verificare una responsabilità del datore di lavoro per i reati di lesioni colpose o, nei casi estremi, per quello di omicidio colposo.
Il datore di lavoro, inoltre, potrebbe essere tenuto a rimborsare all’INAIL, ai sensi degli artt. 10 e 11 del DPR 30 giugno 1965 n. 1124, le provvidenze economiche erogate dall’Istituto ai lavoratori infortunati ed anche a risarcire direttamente a questi ultimi l’ulteriore danno differenziale (l’INAIL, infatti, eroga, sotto forma di rendita, un indennizzo e non l’intero danno civilistico) che, in ragione della gravità delle conseguenze sulla salute e sulla vita di relazione, potrebbe essere molto ingente.
Al fine di poter concretamente ravvisare una responsabilità del datore di lavoro, occorre in primo luogo appurare l’esistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa e il contagio stesso, che, nel caso del Covid 19, trattandosi di infezione epidemiologica, per definizione ad eziologia diffusa, non può, salvo casi particolari, essere presunta.
L’onere della prova della “occasione di lavoro”, ossia della concreta sussistenza del nesso causale tra infezione da Covid 19 e ambiente di lavoro è a carico, per le rispettive azioni di responsabilità verso il datore di lavoro che abbiamo sopra indicato, dell’INAIL e del lavoratore.
La prova in giudizio di questo primo nesso causale non appare facilmente raggiungibile visto anche che, come noto, il virus in questione presenta un periodo di incubazione fino a circa due settimane e può quindi esternalizzarsi anche molti giorni dopo il relativo contagio. Sul punto l’INAIL ha comunicato, attraverso la propria circolare n. 13/2020, che la copertura assicurativa è riconosciuta al lavoratore a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa e che l’onere della prova, secondo i principi generali, nei confronti dell’INAIL, è a carico dell’assicurato.
Farebbero eccezione alcune categorie professionali ad elevato rischio, come ad esempio gli operatori sanitari, gli operatori dei front-office, i cassieri e gli addetti alle vendite/banconisti, per i quali l’INAIL ha invece introdotto una presunzione semplice di contagio d’origine professionale, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico dei datori di lavoro (presunzioni che, nella diversa sede penale, andrebbero però inevitabilmente sorrette da altri elementi).
Una volta che fosse accertato il nesso causale tra contagio e ambiente di lavoro, la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio presupporrebbe il verificarsi di un secondo collegamento causale consistente nella relazione tra l’infezione, siccome contratta in ambito lavorativo, e la violazione da parte del datore di lavoro medesimo delle norme poste a tutela dell’igiene e sicurezza sul lavoro. In altre parole, occorre verificare se il predetto evento sia la conseguenza di una carente o omissiva gestione della disciplina antinfortunistica da parte del datore di lavoro e solo in tale ultima ipotesi l’evento – infortunio darebbe luogo
· ad una responsabilità restitutoria nei confronti dell’INAIL che promovesse azione di rivalsa verso il datore di lavoro,
· ad una ulteriore responsabilità risarcitoria del datore stesso verso l’infortunato, per danno civilistico differenziale,
· ed infine ad un possibile illecito penale a carico del datore di lavoro (per i reati di lesioni personali colpose ai sensi dell’art. 590 c.p., oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. se il contagio abbia determinato il decesso).
L’onere della prova della concreta sussistenza anche di questo secondo nesso causale, nell’azione di rivalsa Inail, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale (Cass. 19 settembre 2012 n. 15715) è, in applicazione dei principi generali che regolano la responsabilità civile da fatto illecito, totalmente a carico dell’Istituto di assicurazione obbligatoria.
Diverso il caso, invece, dell’azione di responsabilità, per il danno differenziale, promossa dal lavoratore infortunato contro il proprio datore di lavoro. L’imprenditore, nonché datore di lavoro, infatti, è titolare di una posizione di garanzia che discende in primo luogo dall’art. 2087 cod. civ., che gli impone di tutelare in ogni modo l'integrità fisica dei prestatori di lavoro.
Orbene, la responsabilità che l’art. 2087 cod. civ. pone a carico del datore di lavoro verso i propri dipendenti ha natura contrattuale e ciò determina una inversione (parziale) dell’onere della prova in giudizio. Una volta che il lavoratore avrà dimostrato che l’evento lesivo è da ricondursi all’occasione di lavoro (primo nesso causale), toccherà al datore di lavoro l’onere, invero gravoso perché di assai ampio contenuto, di dimostrare di avere fatto tutto quanto ragionevolmente possibile per evitare il verificarsi dell’evento e, quindi, il danno.
Se in generale vengono, allora, in considerazione le disposizioni in tema di igiene e sicurezza previste dal D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro), nel caso – in particolare - del Covid-19, la cifra dell’adempimento datoriale agli obblighi posti a suo carico dall’art. 2087 cod. civ. è certamente data dalla scrupolosa osservanza della recente normativa emergenziale, di cui all’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che impone alle imprese le cui attività non sono state sospese di rispettare “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali”.
Scrupolosa attenzione, dunque, in sintesi
· agli obblighi di informazione e formazione,
· alla attività di prevenzione, che spazia dalla misurazione della temperatura corporea agli accessi aziendali fino al mantenimento del distanziamento sociale sui luoghi di lavoro, anche attraverso interventi organizzativo gestionali sull’orario o sui turni di lavoro, alla messa a disposizione,
· ed alla sorveglianza circa la loro effettiva adozione da parte dei lavoratori, dei dispositivi di protezione individuale, quali mascherine, guanti, gel igienizzanti, ecc.
Per altro verso, la verifica del nesso eziologico negli illeciti penali a contenuto omissivo (ossia l’inosservanza di norme incriminatrici che impongono una certa azione) richiede il cosiddetto giudizio controfattuale, ovvero l’accertamento che, sostituendo mentalmente l’omissione con la doverosa azione esigibile ed escludendo l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento non si sarebbe verificato con un elevato grado di credibilità razionale.
A tale riguardo, proprio recentemente, per una vicenda risalente nel tempo ma ancora attuale ai fini di quanto in esame, la Suprema Corte (Sezione IV penale, sentenza n. 13575-20) ha avuto modo di tornare proprio su tale nesso causale tra violazione di una norma antinfortunistica ed infortunio sul lavoro, utilizzando un percorso logico di natura quasi presuntiva; in particolare, a fronte di un infortunio accaduto ad un dipendente al quale erano stati consegnati dispositivi di protezione individuale (DPI) diversi da quelli previsti ed in assenza di un Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) aggiornato, la Corte di Cassazione ha osservato che:
(a) con riferimento alla mancata consegna di idonei DPI, se il DVR della società ciò prevedeva evidentemente tali dispositivi erano considerati quelli più corretti per la particolare lavorazione in questione, così che la loro corretta messa a disposizione avrebbe contribuito in modo rilevante ad evitare l’incidente;
(b) con riferimento alla mancata formazione ed adeguamento del DVR in merito ad alcune specifiche fasi del processo produttivo, ciò avrebbe messo il dipendente nella oggettiva non conoscenza del rischio e delle idonee condotte contenitive dello stesso, ed anche ciò quindi avrebbe contribuito all’evento accaduto; a nulla sono invece valsi i tentativi del soggetto imputato volti a dimostrare che, anche in presenza delle condotte omissive contestate al datore di lavoro, l’incidente sarebbe potuto accadere ugualmente.
Un tale approccio potrebbe prevedibilmente proseguire, anche in misura più accentuata in termini di sostanziale presunzione, con specifico riferimento all’infortunio da Covid-19 e al mancato rispetto del citato protocollo stipulato, proprio per tale rischio, dal Governo con le parti sociali; un eventuale contagio di un lavoratore (sempre che si sia verificato in ambito lavorativo), se avvenuto in un contesto anche di inadeguata applicazione del protocollo anti-Covid da parte dell’azienda e del datore di lavoro, facilmente (per non dire quasi certamente) sarebbe ricollegato, come fatto causale, alla predetta inadeguata condotta del datore di lavoro con conseguente sua possibile responsabilità penale per lesioni colpose o per omicidio colposo.
Quanto sopra conferma a maggior ragione l’assoluta necessità di una attenta, piena e puntuale applicazione del protocollo anti-Covid da parte del datore di lavoro (oltre che delle altre norme antinfortunistiche) prima di riavviare e svolgere le attività aziendali e lavorative.
In ultima analisi, e sempre seguendo un percorso che dall’evento contagio dapprima può portare a sua qualificazione come infortunio sul lavoro e che poi può proseguire per una possibile responsabilità penale del datore di lavoro, non può escludersi che si passi e si arrivi, in una sorta di escalation, anche ad un terzo stadio, ovvero quello della possibile responsabilità della società ai sensi dell’art. 25/septies del D.Lgs. 231/2001. Infatti, trattandosi di reati presupposto (lesioni gravi o gravissime o omicidio), qualora la lesione o il decesso colposi da Covid-19 fossero accompagnati da un interesse o vantaggio della società (ai sensi dell’art. 5 del citato decreto), scatterebbe anche tale aggiuntiva (e non alternativa) forma di responsabilità dell’ente; interesse o vantaggio che non appare difficile riscontrare in tale fattispecie visto il consolidato orientamento (confermato anche dalla citata recente sentenza della Suprema Corte) che rintraccia tale requisito anche nel solo risparmio di costi ottenuto dall’azienda a seguito dell’incompleta od omessa applicazione della normativa antinfortunistica e/o nel maggior guadagno ottenuto evitando la minore produttività che altrimenti si sarebbe verificata adempiendo pedissequamente tali norme.