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Archivio newsRetribuzioni convenzionali estere, tassazione alla prova del COVID-19
La fiscalità dei lavoratori espatriati potrebbe essere incisa dalle modifiche al luogo di svolgimento della prestazione lavorativa causata dall'emergenza legata al COVID-19. In particolare, potrebbe essere compromessa l'applicazione delle retribuzioni convenzionali. La norma di riferimento presuppone che l'attività sia prestata esclusivamente all'estero e che il dipendente soggiorni nel Paese straniero per più di 183 giorni in un periodo di 12 mesi. Esiste la possibilità di individuare dei correttivi sulla base delle situazioni concrete in cui si possono trovare i lavoratori? E quali sono le azioni che può porre in essere il datore di lavoro, nel corso dell'anno ovvero nell'ambito delle operazioni di conguaglio?
Nel percorso di analisi degli impatti del COVID-19 sulla Global Mobility (che ha preso le mosse da alcune riflessioni sulla tematica della residenza fiscale) si intende ora focalizzare l’attenzione sulla tassazione dei dipendenti operanti all’estero, ma fiscalmente residenti in Italia e che sono “normalmente” sottoposti ad imposizione sulla base delle c.d. retribuzioni convenzionali.
Come si avrà modo di specificare, proprio il mutamento del luogo di svolgimento della prestazione potrebbe compromettere l’applicazione di tale modalità di tassazione.
L’art. 51, comma 8-bis del TUIR, prevede uno specifico regime per i lavoratori che operano all’estero mantenendo la residenza fiscale nel nostro Paese; secondo tale norma, in particolare, “in deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all'articolo 4, comma 1, del decreto-legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398”.
Le c.d. retribuzioni convenzionali, pertanto, trovano applicazione, a condizione che l’attività sia prestata all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto (e che il dipendente soggiorni all’estero per più di 183 giorni nell’arco di 12 mesi).
La continuità presuppone che venga affidato al dipendente uno specifico incarico che non sia occasionale, ma che preveda stabilmente l’attività prestata all’estero.
L’esclusività, invece, fa riferimento alla circostanza che l’incarico sia integralmente svolto all’estero; nel corso dell’assegnazione all’estero, pertanto, si deve ritenere che il dipendente non possa svolgere la propria prestazione anche in Italia.
Nel corso degli anni l’Amministrazione ha avuto modo di dettare alcuni chiarimenti; per quel che interessa le presenti note si segnalano i seguenti:
- è necessario che venga stipulato uno specifico contratto che preveda l’esecuzione della prestazione in via esclusiva all’estero;
- per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero rilevano, in ogni caso, nel computo dei 183 giorni, il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi.
L’attuale emergenza sanitaria potrebbe impattare sulla fiscalità del dipendente espatriato sotto un duplice punto di vista.
In primo luogo per quanto attiene al requisito temporale, vale a dire il superamento dei 183 giorni di soggiorno all’estero in un periodo di 12 mesi.
In altri termini, il dipendente potrebbe essere rientrato in Italia prima del raggiungimento del soggiorno minimo ed essere impossibilitato (causa il lockdown) a tornare all’estero.
Ad avviso di chi scrive, in tale scenario occorre valutare se il lavoratore svolge attività in Italia (anche in regime di smart working) ovvero se non presta alcuna attività (ad esempio in quanto collocato in ferie, cassa integrazione ecc.).
In quest’ultimo caso, mutuando le indicazioni fornite in passato dall’Agenzia delle entrate, si dovrebbe ritenere che detti giorni possano essere utilizzati ai fini della verifica del limite temporale innanzi indicato.
Contrariamente, ove il dipendente lavorasse in Italia allora questi giorni non sarebbero utili ai fini di cui sopra.
Ad ogni modo, almeno sotto l’aspetto temporale, l’applicazione delle convenzionali potrebbe non essere compromessa in quanto, dopotutto, il periodo di 183 giorni va verificato in un arco di 12 mesi e, pertanto, ove l’emergenza dovesse terminare il lavoratore potrebbe tornare a svolgere la propria attività in territorio estero.
Tuttavia, proprio l’attività svolta in Italia solleva il secondo dei problemi cui si faceva riferimento.
Ci si riferisce, in particolare, al venir meno dell’esclusività della prestazione lavorativa all’estero.
Si ricorda, difatti, che una interpretazione rigida di tale condizione escluderebbe la possibilità di utilizzare le retribuzioni convenzionali in caso di attività lavorativa prestata in Italia.
L’emergenza che stiamo affrontando, evidentemente, non poteva essere né prevista né disciplinata dal mondo del diritto e quello tributario non fa eccezione.
Una rigida interpretazione delle norme di riferimento, pertanto, dovrebbe far concludere che il venire meno anche solo di una delle condizioni previste dall’art. 51, comma 8-bis del TUIR, comprometta l’applicabilità delle retribuzioni convenzionali (quantomeno per il periodo di lavoro svolto in Italia).
Al riguardo, ad avviso di chi scrive, alcuni correttivi potrebbero essere ricercati per cercare di adeguare le previsioni legislative al mutato contesto e una prima distinzione potrebbe essere operata a seconda che il lavoratore assegnato all’estero rientrato in Italia stia continuando o meno a svolgere la propria prestazione.
Nell’ipotesi, ad esempio, di ferie/permessi/malattia (e forse anche di accesso alle forme di integrazione salariale quale la cassa integrazione a zero ore) si potrebbe, mutuando le indicazioni dell’Agenzia delle entrate sopra richiamate, ritenere che detti periodi debbano essere valorizzati ai fini dei menzionati 183 giorni.
Maggiori problemi sorgono allorquando il dipendente svolga la propria prestazione lavorativa (presso la sede italiana o in regime di smart working).
Assumendo che l’attività sia la medesima di quella esercitata durante il periodo di assegnazione all’estero (in caso contrario, difatti, si ritiene che il contratto di assegnazione dovrebbe essere quantomeno sospeso se non interrotto e, pertanto, il dipendente tornerebbe ad essere sottoposto alla “normale” fiscalità) la condizione di esclusività prevista dal più volte citato comma 8-bis potrebbe essere difficilmente soddisfatta e, inoltre, potrebbe non essere raggiunto il periodo di soggiorno all’estero superiore ai 183 giorni.
In questa fase, in cui l’incertezza non è ancora venuta meno, le società dovrebbero procedere ad un attento monitoraggio dei propri dipendenti operanti all’estero (ma rientrati in Italia) tassati sulla base delle retribuzioni convenzionali al fine di verificare se occorre procedere agli opportuni aggiustamenti ove la situazione di lockdown dovesse proseguire impendendo alle persone interessate di riprendere il lavoro all’estero.