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Archivio newsFatturato dell’industria e vendite di auto, i numeri di maggio. Dalla Bce nuove regole per i prestiti alle imprese
L’antitrust europeo si pronuncia (mercoledì) sulla fusione Fca-Psa in particolare nel remunerativo settore dei minivan, mentre venerdì è in programma un Consiglio Ue sul Recovery fund.
Annus horribilis per tutti, questo 2020, e per l’automotive molto più che per altri settori. A maggior ragione tornano utili le aggregazioni. Non a caso, benché l’azzeramento del mercato causa Covid aggiunga ulteriori complessità anche su questo terreno, i due gruppi che già si erano “portati avanti” confermano i piani: il virus non fermerà la fusione, ribadiscono a ogni occasione Fca e Peugeot. Le quali però, prima, devono ricevere il via libera dall’Antitrust Ue. È atteso per oggi e non è per niente scontato. Bruxelles potrebbe avviare un’indagine sul peso – eccessivo, dicono: Fca-Peugeot controllano circa un terzo del mercato, ossia quanto Ford e Renault messe insieme - che Torino-Detroit-Parigi raggiungerebbero in un singolo segmento di mercato, quello altamente redditizio dei minivan. In un mondo di colossi l’appiglio appare ridicolo, frutto solo dell’euroburocrazia. Forse. Perché, forse, la questione è anche di euroconcorrenza. Intesa come competizione diretta, su ogni possibile tavolo, tra i colossi di cui sopra.
Quanto sia in bilico l’industria automobilistica, in tutto il mondo, lo confermeranno oggi i dati Acea sulle vendite di maggio in Europa. Il primo mese di riapertura dei concessionari mostrerà un’ovvia risalita rispetto alle vendite zero del periodo di lockdown. Il calo resta però pur sempre pesantissimo: tra i principali mercati Italia, Germania e Francia hanno dimezzato i volumi rispetto allo stesso periodo del 2019, mentre in Gran Bretagna – dove le misure di contenimento sono partite dopo e a maggio erano ancora in buona parte attive – il crollo ha sfiorato il 90%. Istruzioni per una corretta lettura dei dati: ovunque, anche le poche migliaia di auto vendute non indicano una ripresa della produzione, ma il semplice e peraltro parzialissimo smaltimento degli stock accumulati dai rivenditori prima dell’emergenza Covid.
Aprile è stato il mese peggiore: quasi tutto chiuso, ovunque. L’Istat dirà oggi ufficialmente quanto è costato il lockdown all’industria italiana in termini di fatturato e ordini, dopo il crollo del 19% (o 42,5% su base annua) della produzione in marzo, ma un’indicazione l’ha già data Confindustria: il solo fatturato è sceso più o meno del 50% rispetto a un anno fa, ed è stimato in calo di un altro 33,8% in maggio. La riapertura delle attività si è insomma tradotta nelle scontate prove di ripartenza. Che si preannuncia lenta, però, e più faticosa di quanto comunque non temessimo. L’ultimo scenario in ordine di tempo è firmato Ocse e conferma che l’Italia sarà tra i fanalini di coda. Se in autunno non saremo colpiti da un ritorno pesante del Covid-19, prevedono da Parigi, potremo limitare il crollo del Prodotto interno lordo all’11,3% e puntare a una risalita del 7,7% nel 2021. Devastanti le stime in caso di seconda ondata pandemica: quest’anno il Pil precipiterebbe del 14%, l’anno prossimo non si riprenderebbe oltre il 5,3%. Nell’una e nell’altra ipotesi, sarà azzerato ogni progresso fatto negli ultimi tre decenni.
Entrano in vigore oggi, resteranno attive fino a settembre 2021. Sono le misure adottate dalla Bce per rendere più flessibili le regole di accesso degli istituti di credito alla liquidità della Banca centrale europea. Nelle intenzioni di Francoforte serviranno a sostenere l'afflusso di credito a famiglie e imprese (le “piccole”, soprattutto).
Si era capito in fretta, che nemmeno a questo Consiglio i Paesi Ue sarebbero arrivati pronti al varo del Recovery Fund. L’ultimo Ecofin l’ha confermato. Ai “rigoristi” del cosiddetto Fronte del Nord – ovvero Olanda, Danimarca, Svezia, Austria – si sono aggiunti Irlanda, Lituania e Ungheria. A quel punto è stato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, a rendere sostanzialmente ufficiale la previsione dell’ennesimo nulla di fatto con conseguente rinvio a nuovo Consiglio. “Dell’accordo abbiamo bisogno il prima possibile” (e questo lo sapevamo). Ma non illudiamoci. Sfumata la possibilità di arrivarci adesso, non è detto che lo slittamento sia l’ultimo. Per Dombrovskis “sarebbe molto positivo se avessimo l'accordo politico a luglio”. È quel “se” che autorizza ulteriori dubbi.