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Archivio newsMultinazionali italiane: nuovi modelli di business contro la crisi dei mercati internazionali
L’emergere del Coronavirus, con il suo impatto recessivo sull’economia mondiale, le repentine oscillazioni del prezzo del petrolio, il riaccendersi delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e UE, l’indebolimento dell’export verso i paesi emergenti e le tensioni ad Hong Kong, che rappresenta per il nostro Paese il terzo nodo del nostro export nell’area Asia-Pacifico, sono i principali fattori di rischio per le multinazionali Italiane che di fatto potrebbero limitare la ripresa economica. Per porre un freno alle difficoltà innescate dalle tensioni sui mercati internazionali sarà quindi necessario ripensare, reinventare nuovi modelli di business e di investimento, soprattutto per le imprese con una sezione di bilancio significativa spostata sull’estero.
Il 2019 è stato un anno difficile per l'economia globale, poiché l'incertezza geopolitica e il rallentamento dell'economia cinese si sono combinati innescando una recessione globale della produzione. Ci si aspettava che la crescita fosse leggermente più veloce nel 2020. Tuttavia, una rinnovata incertezza geopolitica, le tensioni tra USA e Iran sono divampate di nuovo a gennaio, unita all'emergere del Coronavirus che dalla Cina ha generato un inatteso spill-over recessivo mondiale, di fatto limiteranno qualsiasi ripresa della fiducia e degli investimenti delle imprese. E così per più di 300mila multinazionali, di cui 7mila sono italiane, che operano sui mercati internazionali, crescono i rischi con i quali è bene che inizino fin d'ora a misurarsi, per evitare di restare troppo allungo nel limbo dell'inerzia gestionale e organizzativa. In questo approfondimento, cercheremo di identificare e quantificare i rischi più reali sull'economia globale, mantenendo il punto d’osservazione sul sistema-Impresa italiano.
La svolta green e sostenibile, in Europa e nel Mondo, è dibattuta, caldeggiata e sostenuta, ma in termini meramente economici il petrolio resta il carburante dell’economia mondiale. Il risultato è che le sue repentine oscillazioni continuano a mietere perdite sui bilanci delle grandi aziende. La causa? La drammatica e pericolosa escalation delle tensioni tra USA e Iran.
Se ci soffermiamo sull’Italia, le elaborazioni più recenti ci mostrano come un aumento di 7 dollari al barile del prezzo del greggio automaticamente potrebbe innestare una perdita del Pil dello 0,1per cento. In sostanza, uno scontro di media portata Usa-Iran potrebbe determinare un rallentamento del Pil di 2 o 3 punti decimali. Al contrario, se il conflitto assumesse dimensioni più ampie si potrebbe anche contabilizzare un -0,5%-1per cento del Pil, in un solo trimestre.
L’impatto maggiore sarebbe a carico delle grandi aziende italiane, all’incirca 60mila, e delle multinazionali estere che operano in Italia, più di 14mila entità. Quale la soluzione? Predisporre già da ora un piano di sostenibilità intra-gruppo, sulla base di una diversificazione degli investimenti e, se necessario, ritirandosi da mercati tradizionali, in Libano e in Medio Oriente, per convergere su altre macro-aree o hub regionali.
E comunque, le ombre sui bilanci delle aziende italiane non si esauriscono sui pozzi petroliferi e sulle raffinerie, ma si estendono fino ai legami transatlantici. Guerra in famiglia o divorzio amichevole? Le relazioni commerciali UE-USA sono state messe a dura prova dalla metà del 2018, quando Washington avviò un'indagine sulle implicazioni di sicurezza nazionale delle importazioni di automobili e parti di automobili di fabbricazione estera e minacciò di aumentare le tariffe sulle importazioni di auto europee del 25%. Anche se gli Stati Uniti sembrano aver ritirato la minaccia, le tensioni persistono su una serie di fronti. In ottobre gli Stati Uniti hanno imposto tariffe su una vasta gamma di beni dell'UE, in risposta alle indagini sulla fornitura di sussidi ad Airbus da parte dell'UE. Gli Stati Uniti hanno anche minacciato ulteriori tariffe sulla Francia per la sua imposta sui servizi digitali.
Infine, anche il nuovo green deal dell'UE si rivelerà un argomento controverso per le relazioni commerciali USA-UE. A queste complicazioni ne va aggiunta una seconda, ancor più complessa. Il recente completamento di un accordo commerciale USA-Cina, infatti, fa sì che l'attenzione di Washington torni a rivolgersi al surplus commerciale dell'UE con gli Stati Uniti. Di conseguenza, non è possibile escludere un'ulteriore escalation delle tariffe che coinvolgerebbe l'industria automobilistica degli Stati Uniti e dell'UE.
Infine, anche se sembra che sia stata concordata una tregua tra Francia e Stati Uniti, le tariffe di ritorsione degli Stati Uniti contro la tassa francese sui servizi digitali, che si rivolge principalmente alle grandi società tecnologiche statunitensi, sono una possibilità distinta. Tutte queste controversie potrebbero scatenare una dannosa guerra commerciale tra gli Stati Uniti e l'UE, ed è evidente che le imprese italiane non potranno restarne fuori. In primis, perché le società italiane che operano e investono negli Usa sono una realtà attiva, propulsiva e crescente. In secondo luogo, perché anche la Corporate Usa investe ed è presente in Italia, dove gioca un ruolo guida nei flussi finanziari e nei progetti di sviluppo industriali e produttivi. Tradotto, Washington ha la quota maggiore del mercato imprenditoriale italiano che guarda a partner esteri. Se gli Stati Uniti imponessero tariffe sulle importazioni di auto nell'UE, Bruxelles sarebbe costretta a ritorsioni, aumentando il rischio di una guerra commerciale globale. Dati i volumi dell’export italiano verso gli Usa, 45mld di euro l’anno, e la propensione delle nostre aziende ad esportare, una tale crisi peserebbe maggiormente sulle aziende italiane e sul nostro Paese nel complesso. I settori più colpiti sarebbero quello manifatturiero, alimentare, farmaceutico di base e preparati, macchinari e apparecchiature, autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, altri mezzi di trasporto (navi e imbarcazioni, locomotive e materiale rotabile, aeromobili e veicoli spaziali, mezzi militari). In sostanza, un danno difficilmente quantificabile.
La nuova epidemia di Coronavirus che è scoppiata a Wuhan, la capitale della provincia cinese di Hubei, si è diffusa in tutto il mondo. Dopo una risposta inizialmente lenta, le autorità cinesi hanno bloccato la provincia di Hubei, limitando in modo significativo una regione di fondamentale importanza per le catene di approvvigionamento nazionali e internazionali. Anche l'attività economica in altre regioni, tra cui Pechino e Shanghai, è stata interrotta da misure di quarantena e dalla riduzione della domanda interna di beni e servizi. Inoltre, le restrizioni ai viaggi hanno avuto un impatto significativo sul consumo di servizi turistici e di viaggio in Cina e all'estero. L'impatto economico globale si è rapidamente esteso al resto del Mondo, dove oltre 300milioni di lavoratori sono stati precipitati nelle dinamiche del lockdown.
Il nodo principale è dato dalla durata dell'interruzione delle attività economiche. Lo scenario che sta emergendo è che nel corso dell’estate i governi dovrebbero provvedere a revocare le misure di quarantena e l'attività economica dovrebbe quindi tendere ad una nuova normalizzazione. Il presupposto che ne segue è che i governi attiveranno congiuntamente, alcuni lo stanno già facendo, anche un forte stimolo fiscale e monetario per progettare una ripresa dell'espansione economica, con conseguente rimbalzo della crescita nella seconda metà dell'anno, sia in Europa, che Cina e nel mondo. Nello scenario peggiore, l'impatto economico sarebbe molto più profondo e di più persistente. L'interruzione del commercio internazionale si trascinerebbe fino all’autunno inoltrato.
In questo quadro, le aziende italiane che guidano il nostro export e quelle che sostengono l’economia del turismo, e il settore recettivo e dell’ospitalità, sarebbero le più colpite, anche perché, soprattutto quest’ultime, legate a transiti e interscambi spesso stagionalizzati. Un numero crescente di esportatori internazionali, incluse le imprese italiane, sperimenterebbe difficoltà finanziarie, poiché un persistente deficit della domanda cinese deprime i prezzi delle materie prime e le entrate delle esportazioni.
Allo stesso tempo, se l'uso da parte dei governi di politiche monetarie e fiscali allentate per stimolare l'economia si prolungasse nel 2021 e oltre, crescerebbero le preoccupazioni in merito al grande stock di debito privato/pubblico non soltanto della Cina ma anche dei Paesi-membri dell’Ue e degli Usa, minando la ricerca di una stabilità finanziaria a lungo termine. Questo rischio è elevato per Paesi, come l’Italia, largamente indebitati. L’applicazione di riforme tendenti all’austerity o l’eventuale deflazione che s’insinuerebbe nel nostro tessuto economico potrebbero determinare un arresto della produzione, dell’accumulo di risorse e, più in generale, un impulso alla chiusura di attività d’impresa nei settori più colpiti.
Garantire liquidità alle società per assicurare continuità e stipendi reali non redditi assistenziali a carico del bilancio pubblico, è quindi un punto fondamentale cui imprese e Governo dovranno guardare e sul quale convergere.
Gli oneri del debito stanno raggiungendo vette mai viste in precedenza. Il rischio è che tali livelli, una volta insostenibili, possano innescare una recessione nei mercati emergenti, i più esposti alle intemperie dei mercati pur essendo i più dinamici e promettenti. Ancora una volta, le prospettive per le aziende italiane sono pessime. Infatti, nel corso del biennio passato le nostre imprese hanno puntato, giustamente, su tali mercati, aumentando l’export del 45per cento. Di fatto, oggi il nostro sistema-Impresa è sbilanciato sui Paesi emergenti, perché in crescita e perché promettenti. Ora però c’è il rischio di aver scommesso su una realtà economica molto più debole ed esposta di quanto si pensasse fino a ieri, ante-Covid-19.
In sostanza, un decennio di bassi tassi di interesse ha causato un aumento dei livelli del debito globale, in particolare in molti mercati emergenti, dove i livelli di debito esterno sono ora significativamente più alti rispetto al 2009, l’anno nero della crisi finanziaria. Nelle economie sviluppate, le famiglie hanno ridotto i loro debiti, ma ciò è stato facilitato da un aumento dell'indebitamento pubblico. Anche il livello e il profilo di rischio del debito societario sono aumentati, in particolare negli Stati Uniti. Di conseguenza, le prospettive di crescita globale sono diventate più vulnerabili a un cambiamento delle condizioni finanziarie, come le variazioni dei tassi di interesse statunitensi o la propensione al rischio dei mercati finanziari, che potrebbero rapidamente tradursi in maggiori costi di finanziamento per i Paesi indebitati.
Tuttavia, i Paesi emergenti rimangono vulnerabili a un improvviso e inaspettato deterioramento delle condizioni di mercato, come un forte calo dei prezzi all'esportazione delle materie prime o un significativo raffreddamento del sentimento di rischio globale, entrambi i quali potrebbero innescare un volo verso la sicurezza da parte degli investitori. Sicurezza o messa in sicurezza cui anche le imprese italiane dovrebbero aver già cominciato a pensare. Inoltre, il rischio di un rinnovato aumento dei tassi di interesse globali non è scomparso. L'austerità fiscale in una serie di economie avanzate, tra cui Stati Uniti, Germania e Regno Unito e in gran parte dell’Ue, è oramai ai minimi, complice la pandemia.
In questi scenari, ripensare, reinventare nuovi modelli di business e di investimento sono i punti in agenda per le imprese italiane con una sezione di bilancio significativa spostata sull’estero.
Le proteste di Hong Kong hanno provocato un esodo dal più grande centro finanziario asiatico, un hub globale su cui transitano, sostano e si reindirizzano per tramutarsi in spese e investimenti 10mila miliardi di dollari l’anno. Le 4mila più grandi multinazionali al mondo vi operano direttamente, con appositi uffici e quartier generali. Tra queste le 1400 più grandi aziende statunitensi, le 500 multinazionali cinesi di maggiori dimensioni e più di 1000 società extra-large europee, di cui più di 40 sono italiane.
Non è infatti un caso che Hong Kong rappresenti per l’Italia il terzo nodo del nostro export nell’area Asia-Pacifico. Un punto quindi centrale, anche perché le nostre aziende è qui che generalmente concentrano capitali, investimenti e risorse necessarie per la penetrazione nei mercati più grandi, Cina, Indonesia, India, Malesia e Vietnam. Un simile concentrato di finanza, progettualità e volumi d’investimento da giugno 2019 è stato scosso da gravi disordini sociali. Ciò è stato inizialmente motivato dal tentativo del governo locale di approvare riforme delle leggi sull'estradizione del territorio, che avrebbero consentito l'estradizione dei residenti locali nella Cina continentale.
Comunque, se le tensioni continuassero ad aumentare, emergerebbe il rischio reale che il governo cinese possa rispondere ai disordini persistenti e al crescente sentimento di indipendenza a Hong Kong sospendendo la modalità di governance a due sistemi. Tale percorso è possibile ai sensi dell'articolo 18 della Legge fondamentale - la mini costituzione del territorio di Hong Kong - che consente l'applicazione di "leggi nazionali pertinenti" a Hong Kong in caso di uno stato di agitazione che è al di fuori del controllo del governo del territorio. In sostanza, i disordini crescenti potrebbero portare allo schieramento dell'Esercito popolare di liberazione cinese. Ognuno di questi scenari provocherebbe una dislocazione economica seria e improvvisa e minaccerebbe lo status di Hong Kong come il terzo centro finanziario più importante del mondo.
Si tradurrebbe in una rapida partenza del talento straniero che lubrifica l'economia di Hong Kong e indurrebbe molte, forse la maggior parte, delle imprese straniere, incluse quelle italiane, a Hong Kong a chiudere o trasferirsi in altre città asiatiche, come Singapore, Tokyo, Taipei o Bangkok.
Per l’Italia, e per le sue imprese, un tale scenario implicherebbe un ridisegno generale della policy strategica seguita fino ad oggi. Un cambio di marcia e di scenario netti. Restare in una Hong Kong assoggettata alle normative interne cinesi, a rischio bolla immobiliare, e prossima ad una balcanizzazione della vita sociale e politica, non sarebbe né auspicabile né pensabile.