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Archivio newsIl reddito di emergenza non decolla. Non piace o non serve
Il decreto Rilancio ha introdotto il reddito di emergenza, misura provvisoria destinata ai nuclei familiari che vivono in condizioni di povertà. Va ad aiutare quell’ampia fascia di popolazione che, non potendo percepire il reddito di cittadinanza, sarebbe rimasta priva di reddito, in quanto impiegata in lavori giornalieri, estremamente precari, o in attività “informali”. Le domande pervenute all’INPS però, se confrontate con i dati ISTAT sulla povertà, sono state (fino ad ora) poche, nonostante il rinvio del termine finale di invio al prossimo 31 luglio. Le ragioni del mancato successo del reddito di emergenza non sono chiare. Ma un dato forse anche confortante c’è, quale?
Ormai da quasi un decennio è mutata la fisionomia del sistema di protezione sociale italiano, che si è così avvicinato ai modelli degli altri Paesi europei. Infatti, si è abbandonato il modello della tutela del rapporto di lavoro già in essere, per provare a rafforzare invece i diritti del lavoratore a che il mercato del lavoro riesca effettivamente ad incrociare domanda ed offerta di occupazione. Anzi l’ultima importante riforma (il c.d. Jobs act del 2015) ha giustificato l’introduzione di una disciplina meno garantista in tema di licenziamento, proprio con il prolungamento della indennità di disoccupazione NASpI, che avrebbe consentito quindi a chi avesse perso il lavoro di poter beneficiare di un aiuto più sostanzioso e più duraturo in attesa di rintracciare una nuova occupazione (dd.lgs. nn. 22 e 23 del 4 marzo 2015).
Questa tendenza a rafforzare le tutele “esterne” al contratto rispetto a quelle “interne” è in atto da quasi un ventennio, dato che già il «Libro bianco» di Marco Biagi dell’ottobre 2001 (con il successivo D.Lgs. n. 276/2003) aveva individuato i termini di un sistema di governo del mercato del lavoro che, grazie ad un miglioramento delle istituzioni del collocamento, avrebbe dovuto condurre a dare un contenuto concreto al diritto al lavoro di ognuno, solennemente riconosciuto dall’art. 4 della Carta costituzionale.
In questo sistema, la Cassa integrazione guadagni doveva diventare uno strumento mirato a ipotesi di crisi temporanea dell’impresa, tanto che si è chiesta la predisposizione di un piano industriale come condizione di concessione dell’intervento e che si è tendenzialmente esclusa l’assistenza nelle ipotesi di procedure concorsuali nelle quali mancasse l’autorizzazione all’esercizio provvisorio. Strumento di ultima istanza del sistema diventava così il “Reddito di cittadinanza”, realizzato solo successivamente nel 2019 dal Governo giallo-verde (D.L. n. 4 del gennaio 2019) ed ancorato all’accertamento di condizioni di sostanziale povertà del nucleo familiare.
Il sopravvenire dell’emergenza sanitaria ha però costretto ad abbandonare questo sistema, senza che ancora se ne fossero visti i frutti, poiché il decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. Cura Italia, poi convertito nella legge n. 27 del 24 aprile), nel vietare i licenziamenti, ha individuato la Cassa integrazione come il metodo più diretto per gestire l’emergenza: scelta non illogica, ove si pensi alla differenza, anche sul piano della riduzione dei contatti sociali, che corre fra la trattazione delle domande delle singole imprese, redatte da professionisti, e la situazione che si sarebbe venuta a creare ove si fossero dovute gestire domande di indennizzi individuali pervenute dai singoli, direttamente o per il tramite dei patronati, dopo il licenziamento.
Ovviamente, la Cassa integrazione non può aiutare quanti siano stati colpiti dalla crisi mentre si trovavano già disoccupati: ed in questo senso nel decreto Cura Italia già si prevedeva uno strumento “di chiusura” del sistema, ulteriore rispetto al Reddito di cittadinanza (i cui percettori sono sostanzialmente rimasti indifferenti alla crisi, vedendosi anzi sospeso l’obbligo di cercare lavoro): si trattava, in questo caso, di aiutare quell’ampia fascia di popolazione che, senza poter percepire il Reddito di cittadinanza, sarebbe rimasta priva di reddito, in quanto impiegata in lavori giornalieri, estremamente precari, o in attività “informali” (ovvero “in nero”).
A tal fine il decreto Rilancio (D.L. 19 maggio 2020 n. 34), all’art. 82 ha introdotto ora il Rem o Reddito di emergenza, come misura provvisoria destinata ai nuclei familiari che vivono in condizioni di povertà (devono aver percepito alla data dell’aprile 2020 un reddito inferiore a certi minimi, non possedere un patrimonio superiore ad un massimo di 20.000 euro, salvo specifiche eccezioni, e non godere di nessun altro tipo di aiuto fisso o conseguente alla pandemia). L’importo del Rem viene definito in una misura variabile, in relazione ai componenti del nucleo familiare, da 400 a 840 euro mensili.
Se confrontate con i dati che fotografano la povertà secondo l’ISTAT, però, le domande pervenute all’INPS fino ad ora sono state poche (300 mila, di cui 40 mila rifiutate), tanto che in una nota pubblicata lo scorso 17 giugno, l’Istituto ha comunicato di aver prorogato il termine inizialmente fissato, in via perentoria, per il 3 giugno. Il nuovo termine estende il periodo per richiedere il reddito di emergenza fino al prossimo 31 luglio (in conformità a quanto ora previsto dall’art. 2 del D.L. 16 giugno 2020, n. 52, in G.U. serie gen., n. 151 del 16 giugno 2020).
Le ragioni del mancato successo del Rem non sono chiare: è certamente possibile che la mancata pubblicizzazione della misura abbia influito sulla mancanza di domande, di modo che la proroga potrà forse giovare all’incremento del numero di domande. A riguardo, non si deve dimenticare che, in tutti i sistemi, una parte non marginale degli aventi diritto (anche intorno al 20%) rifiuta comunque di farsi avanti perché trova difficoltà ad ammettere di trovarsi in situazione di bisogno o perché teme, specie all’estero, lo stigma sociale che potrebbe derivargli dall’attribuzione dell’aiuto economico.
È parimenti possibile che questa fascia di popolazione abbia oramai ripreso l’attività che svolgeva prima, essendo oramai venute meno molte delle misure di confinamento sociale che impedivano la ripresa del commercio e dei servizi.
Una terza ipotesi si può pure formulare, senza per questo escludere le due che si sono appena formulate: tutti gli studi sociologici sono concordi nel sottolineare un elemento apparentemente secondario del sistema sociale italiano, mettendo in evidenza come la perdurante rilevanza dei vincoli familiari tende non solo a limitare la mobilità sociale, ma, per converso, anche a conservare le reti di solidarietà che, nei grandi come nei piccoli centri, si riflettono anche nella indubbia capacità delle iniziative di volontariato di garantire aiuto a chi soffre.
Insomma, alle carenze (o alle lentezze) dell’apparato statale sembrerebbe saper supplire solo la società civile: un risultato forse anche confortante, ma che conferma che anche per questo aspetto l’Italia sembrerebbe non essersi mai davvero evoluta dalle forme di socialità tipiche del medioevo, con la conclusione che per riformare il Paese potrebbe giovare più la lettura di Dante che il confronto con gli altri Stati europei.