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Archivio newsPensioni nel lockdown. Perché non bisogna cedere ai falsi allarmismi
In Italia si pagherebbero più pensioni che buste paga. Il sorpasso delle pensioni sugli stipendi è stato favorito dal lockdown con la diminuzione del numero di coloro che ricevono retribuzioni regolari. Ma non bisogna cedere a falsi allarmismi. La situazione reale non è questa. Il sistema previdenziale, per il momento, è largamente sostenibile. Bisogna, però, proiettare lo sguardo verso il futuro. La domanda da porsi: il rapporto tra il numero di lavoratori attivi e pensionati resterà stabile o tenderà a “logorarsi”? E inoltre, quale ruolo giocherà la previdenza complementare?
Come sempre, in particolare in una congiuntura critica come l’attuale, il welfare si presenta come una questione rilevante nello scenario politico e sociale. A partire dalla notizia - che molto rumore ha prodotto - che in Italia si pagherebbero più pensioni che buste paga. Prima di affrontare questo argomento, fermiamo un punto, per così dire, di consapevolezza: il welfare nel suo complesso - non solo le pensioni, dunque - è questione fondamentale per definire il futuro civile del Paese.
Veniamo alla realtà sul rapporto tra attivi e pensionati. Dunque: in Italia abbiamo, in totale, 23 milioni di lavoratori e 16 milioni di pensionati. È ragionevole pensare che, sull’elaborazione di chi ha annunciato il sorpasso delle pensioni sugli stipendi, abbia pesato il lockdown, nel quale il numero di coloro che ricevono retribuzioni regolari è molto diminuito a causa della Cassa Integrazione. Infatti, i lavoratori in Cassa Integrazione sono aumentati in modo esponenziale.
Se quell’elaborazione fosse realistica, cioè strutturale, sarebbe allarmante. Diciamo che siamo in una congiuntura particolare. Di interruzione delle attività produttive si muore e di soli ammortizzatori sociali non si può vivere. Accanto al giusto periodo di tutele - rappresentato da Cig, Reddito di Cittadinanza, di emergenza e di ultima istanza, bonus ecc. - che deve durare per tutto quest’anno, è necessario che si innesti una consistente previsione di investimento. L’accordo appena raggiunto nell’Unione Europea sarà, certo, di aiuto. Perché, se non riparte la produzione, non c’è occupazione.
Perciò, l’affermazione che ci sono più pensioni che stipendi non deve alimentare, a sua volta, un circuito di argomentazioni relativo alla insostenibilità del sistema pensionistico italiano.
E qui, intendo fare una premessa di metodo: bisogna analizzare questo dato - il rapporto tra chi lavora e chi sta in pensione - sulla base di alcuni criteri. Primo: noi siamo in un sistema a ripartizione. Questo significa che la mia generazione andava in pensione a 60 anni con 40 di contributi - anche 35 se si faceva un lavoro pesante. Nel sistema a ripartizione la pensione a chi si è ritirato la pagano i lavoratori attivi. Questo vale per i 16 milioni di assegni che vengono erogati oggi. Figli e nipoti dei lavoratori di oggi pagheranno loro la pensione. È evidente la preoccupazione relativa al fatto che, se il numero di coloro che lavorano si riduce, gli stipendi diventano proporzionalmente pochi mentre i pensionati aumentano: c’è il rischio oggettivo che le pensioni non possano essere pagate. Potremmo trovarci nella condizione che i versamenti contributivi non siano sufficienti per sostenere l’erogazione degli assegni pensionistici.
Ma non bisogna accendere questo falso allarme perché, nell’immediato - poi tutto va monitorato - è valido il punto, ribadito da esperti come Alberto Brambilla - presidente di Itinerari Previdenziali -, che non sia questa la situazione. Il sistema previdenziale, per il momento, è largamente sostenibile. Bisogna, però, proiettare lo sguardo verso il futuro. Dunque, la domanda da porsi è se il rapporto tra il numero di lavoratori attivi e pensionati resterà stabile o tenderà a logorarsi. Al 2050, tra trent’anni, è ipotizzabile che il numero di coloro che lavorano tenderà a ridursi, al contrario di quello di coloro che stanno in pensione. Anche per il semplice fatto che aumenta la cosiddetta aspettativa di vita. La quale non sempre è cresciuta in modo lineare. Ormai, abbiamo ampiamente passato una soglia di aspettativa di vita superiore agli 80 anni. Insomma, nel lungo periodo diverrà possibile valutare se il sistema resterà o no in equilibrio.
Ricordiamo sempre, però, che in tutte le riforme del sistema pensionistico, del 2004 (Maroni), del 2007 che ho firmato da ministro del Lavoro, del 2011 (Sacconi) con l’aggancio dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, fino alla riforma “Fornero”, la direzione di marcia era quella di produrre dei risparmi. Esattamente, secondo il Def 2016, confermato in un Rapporto della Corte dei Conti, 900 miliardi di euro - equivalenti a 60 punti di Pil – dal 2004 fino al 2050.
Venendo a Quota 100, va osservato che si tratta di una misura congiunturale. A noi servono, invece, misure strutturali. Sostengo che Quota 100 vada portata alla sua fine naturale nel 2021 perché si deve pur mantenere un filo logico di fedeltà nei patti sottoscritti con i cittadini. In passato abbiamo vissuto la terribile vicenda - non ancora esaurita - degli esodati. Nei loro confronti, quel patto fu rotto. Secondo le norme vigenti fino alla Fornero, potevano andare in pensione. Fecero un progetto di vita, lasciarono il lavoro, chiesero la pensione. Un mattino si trovarono senza più il lavoro e senza poter andare in pensione. È illogico. Per Quota 100 si deve anche osservare che metà della platea potenziale non l’ha utilizzata. Abbiamo dunque, un risparmio di risorse di cui tener conto.
Infine, un argomento di grandissimo rilievo: il welfare secondario che coinvolge decine di milioni di persone e che raccoglie, mettendo insieme tutti i versamenti, cifre che si avvicinano ai 200 miliardi di euro. Ne fanno parte la previdenza integrativa insieme all’ancora meno identificato settore della sanità complementare. Vi operano più di 300 fondi tra contrattuali e non contrattuali. Parliamo poco anche di Enti bilaterali, di formazione permanente. Nell’insieme c’è una massa enorme di risorse che vengono mobilitate dai lavoratori. A mio avviso, quello della previdenza complementare è un tema assolutamente da rilanciare poiché è stato spesso trascurato.
Quando parliamo del secondo pilastro si deve capire che è una previsione di futuro e le imprese, così come i lavoratori, dovrebbero cogliere questo aspetto. In definitiva, auspico che l’iscrizione alla previdenza complementare diventi obbligatoria perché, in questa situazione, nel passaggio dal retributivo, al regime misto, al contributivo puro, si è sviluppata una dinamica del mercato del lavoro diversa dal passato: il lavoro è segmentato e dominato dall’incertezza. Oggi c’è una situazione complessa: lavoro dipendente, autonomo, para-subordinato, occasionale, a termine e così via. È una segmentazione eccessiva che causa una mancanza di continuità nei versamenti dei contributi che, ovviamente, si ripercuote sul montante pensionistico. Perché la vera differenza tra retributivo e contributivo non è tanto nel calcolo, ma in quanto si è versato di contributi. Per le attuali generazioni di lavoratori, se a sessant’anni di età hanno versato venticinque-trenta anni di contributi è già tanto rispetto, ai quaranta delle generazioni precedenti. Si verifica, dunque, un gap nei versamenti contributivi dovuto alla natura frammentata del lavoro. Da qui bisognerebbe ripartire: cioè, coprire con contributi figurativi i momenti nei quali il lavoratore non svolge attività. Per questo, la previdenza complementare dovrebbe assumere una nuova funzione: conseguire un livello di dignità nell’importo della pensione. Quindi, si devono invogliare tutti ad aderire a queste forme di welfare secondario; questo, in un tentativo di immaginare il futuro del welfare nella complementarietà tra quel che deve essere pubblico e quel che deve essere privato.
Questo impegno, associato a un sano ragionamento sul rafforzamento della “flessibilità strutturale nella previdenza”, già in parte introdotta con l’APE sociale, è centrale per il disegno del welfare futuro.