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Archivio newsContratti d’impresa stipulati ante Covid-19: perché è vantaggioso rinegoziarli
Diversi gli strumenti giuridici che le imprese e i professionisti hanno a disposizione per ristabilire l’equilibrio economico di un contratto divenuto manifestamente iniquo a seguito dell’emergenza epidemiologia da COVID-19. Tra questi, la facoltà del contraente che si trovi in una situazione di particolare svantaggio o versi in una condizione di debolezza contrattuale di far appello al principio della buona fede per indurre la controparte alla rinegoziazione del contratto. Nel caso di ingiustificato rifiuto della controparte ad intavolare un tavolo di discussione si può ipotizzare, non solo il risarcimento del danno per violazione del principio di buona fede ed abuso del diritto, ma anche la possibilità di chiedere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di rinegoziazione.
Dopo la fine del lockdown e il ritorno ad una pur precaria ripresa delle attività economiche del nostro Paese, molte imprese hanno avuto modo di constatare che i contratti sottoscritti precedentemente allo scoppiare dell’epidemia da Covid-19 - se non già risolti per impossibilità sopravvenuta della prestazione (ai sensi di apposite clausole di forza maggiore o ai sensi dell’articolo 1463 del codice civile) - non rispecchiano più in molti casi quell’equilibrio (anche economico) iniziale che le parti avevano negoziato e sulla base del quale si erano determinate a concludere il contratto.
Vari sono gli scenari che si possono prospettare e varie sono le soluzioni operative che il nostro ordinamento giuridico mette a disposizione dell’operatore economico. Da un lato, infatti, può darsi il caso in cui una parte non riesca più ad adempiere per intero alla propria prestazione; l’altra parte – per non vedersi costretta a corrispondere per intero il corrispettivo pattuito a fronte di una prestazione solo parziale – può allora ricorrere allo strumento giuridico della c.d. eccezione parziale d'inadempimento di cui all’articolo 1464 cod. civ. che le consente, in sostanza, di chiedere una revisione del corrispettivo pattuito parametrandolo all’entità della prestazione effettivamente ricevuta (ferma restando la facoltà di chiedere invece la risoluzione del contratto laddove non abbia interesse a ricevere una prestazione solo parziale).
Dall’altro lato, si profila l’ipotesi in cui la prestazione sia semplicemente divenuta per una parte eccessivamente onerosa, avuto riguardo all’aggravio economico della propria prestazione o alla diminuzione di valore della prestazione da ricevere. In tal caso, salvo che tale maggior onerosità rientri nell’alea normale del negozio, la parte gravata dalla sopraggiunta eccessiva onerosità potrà richiedere la risoluzione del contratto ai sensi dell’articolo 1464 cod. civ. mentre l’altra, se non intende rinunciare a ricevere la prestazione, potrà evitare la risoluzione offrendosi di modificare equamente le condizioni del contratto.
Accanto ai già citati strumenti giuridici “caducativi” (che si sostanziano nella risoluzione del rapporto contrattuale), si annoverano quindi diverse ipotesi di strumenti “manutentivi”, che consentono alla parte che, a causa del mutato contesto economico, si trovi in una situazione di particolare svantaggio o versi in una condizione di debolezza contrattuale, di far appello allo strumento della rinegoziazione: è questo il caso, ad esempio, previsto dall’articolo 1664 cod. civ. in tema di contratti d’appalto, che consente all’appaltatore o al committente di chiedere una revisione del corrispettivo pattuito nel caso si verifichino aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera superiori al decimo del prezzo complessivo.
Vari sono quindi gli esempi di previsioni normative che impongono alle parti, successivamente alla stipulazione di un contratto, di porre nuovamente mano alle originali pattuizioni al verificarsi di determinate condizioni. Anche laddove però non vi sia una specifica norma che espressamente disciplini tale obbligo, è utile tenere a mente che - come ricorda la Suprema Corte di Cassazione nella Relazione n. 56 pubblicata l’8 luglio 2020 - sussiste sempre in capo alle parti un generale dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Tale dovere si traduce, in termini concreti, laddove ricorra la situazione sopradescritta – cioè quella del sopraggiunto sbilanciamento dell’equilibrio economico del contratto - in un obbligo di rinegoziazione delle condizioni contrattuali al fine di ricostituire il sinallagma originario, tenendo in considerazione il mutato assetto complessivo delle rispettive posizioni e i mutamenti economici del mercato di riferimento.
Detto principio è evidentemente volto a favorire la prosecuzione dei rapporti giuridici e commerciali tra le parti, anziché alla loro cessazione. In caso di violazione di tale dovere, è concesso al Giudice – entro certi limiti – di intervenire con una funzione di “eterointegrazione correttiva del contratto secondo equità”, ai sensi dell’articolo 1374 cod. civ.
Nel caso di ingiustificato rifiuto della controparte ad intavolare un tavolo di discussione per addivenire ad una rinegoziazione del contratto, si può ipotizzare non solo il risarcimento del danno per violazione del principio di buona fede ed abuso del diritto, bensì parte della dottrina ritiene plausibile che si possa chiedere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di rinegoziazione, ex art. 2932 cod.civ..
Ovviamente, come ribadito anche dalla sopracitata Relazione n. 56/2020, l’ingerenza del Giudice sarà possibile solo nel caso in cui dall’assetto delle pattuizioni negoziali emergano in modo chiaro “i termini nei quali le parti hanno voluto suddividere il rischio” che deriva dall'esecuzione del contratto, restando in ogni caso esclusa per il Giudice la possibilità di spingersi fino alla completa sostituzione della volontà delle parti.