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Archivio newsTutelare la salute dei lavoratori (in azienda) è interesse della collettività. Lo dice la Costituzione!
Le previsioni postagostane danno per certi, con il permanere (o la ripresa) dell’emergenza del Covid-19, riflessi anche sulla responsabilità dei datori di lavoro e del medico di fabbrica, al centro della possibile attenzione giudiziaria. Il tutto avviene in un sistema pesantemente condizionato dalla legislazione esistente che, a tutela della libertà e dignità dei dipendenti, ha previsto il divieto di accertamenti sanitari sull’idoneità al lavoro e sull’infermità per malattia, nonchè il dovere di giustificare modalità e tempi di un intervento terapeutico e di difendersi da accuse di ritardo o omissione. Non dimentichiamo, nel prossimo “autunno caldo” che la salute, lo dice la Costituzione, oltre che un diritto dell’individuo, è un interesse della collettività.
La gestione dell’emergenza sanitaria sta progressivamente diventando il tema di maggior interesse dell’attività giudiziaria penale: passata la fase dei “miracoli”, dei “santi” e degli “eroi”, l’attenzione investigativa si sofferma sulle “zone rosse” non create o create in ritardo, sulle forniture di presidi sanitari (camici, mascherine, detergenti, kit diagnostici) in tutto o in parte non avvenute o risoltesi nella consegna di aliud pro alio (ovviamente di qualità inferiore rispetto al pattuito) o avvenute a condizioni economiche svantaggiose per l’ente pubblico o in violazione della trasparenza amministrativa.
Si sono delineati piccoli-grandi problemi del tipo chi dovesse provvedere a fornire ai riders i dispositivi di protezione individuale anti Covid-19, e cioè se a detto incombente dovesse provvedere in autonomia il ciclo fattorino o fosse un obbligo del committente fornirglielo: i Tribunali di Firenze e Bologna hanno risposto che doveva provvedere il datore di lavoro, ma la questione rimane aperta.
Sicuramente di maggior respiro e di interesse più generale è il discorso circa la correttezza della risposta sanitaria, dei singoli e degli enti, al delinearsi dell’epidemia da Covid-19 e alle misure di contenimento, nonché il discorso circa la responsabilità dei datori di lavoro e del personale medico e paramedico e dei medici di base nella gestione dell’emergenza.
C’è un segnale inequivoco della attualità del problema, della preoccupazione degli addetti ai lavori svegliati bruscamente dal nirvana, consapevoli - o convinti - di indagini in atto o possibili nei loro confronti, chiamati a compulsare contratti di assunzione per responsabilità civile in vista di (temibilissime) azioni civili per il risarcimento di danni lamentati da pazienti e/o loro parenti.
È fiorita un’autentica letteratura a soggetto che vede esperti di diritto penale, civile, lavoristico, previdenziale ed assicurativo dispensare consigli e suggerimenti su misure di prevenzione e di gestione del rischio, nella consapevolezza dell’esistenza di un diffuso interesse - non meramente scientifico - per la tipologia di responsabilità che si delinea e, soprattutto, per i criteri di imputazione di detta eventuale responsabilità.
Non vi è alcun dubbio che al centro della possibile attenzione giudiziaria vi sia il datore di lavoro, certo non tranquillizzato dalla Suprema Corte che esclude una responsabilità oggettiva (Cass. n. 3282/2020) e dalla circolare INAIL n. 22/2020 che esclude che il riconoscimento dell’infezione da Covid-19 del lavoratore come infortunio sul lavoro implichi (almeno) l’automatica (ed ineludibile) apertura di un procedimento penale per il datore di lavoro e i suoi collaboratori per lesioni o omicidio colposo da violazione della normativa antinfortunistica.
Il datore di lavoro deve apprestare un ambiente di lavoro anche igienicamente idoneo, motivo per cui gli si chiede di sanificare previamente i locali, di fornire i necessari dispositivi di protezione individuale e di controllare (almeno) la temperatura di chi viene a rendere la prestazione lavorativa. Il tutto avviene in un sistema pesantemente condizionato dalla legislazione esistente che - a tutela della libertà e dignità dei dipendenti - ha previsto il divieto di accertamenti sanitari sulla idoneità al lavoro e sull’infermità per malattia (per un emblematico precedente storico, va ricordato Pret. Siena 25 gennaio 1971, che ha escluso una violazione dello Statuto dei lavoratori da parte di un datore di lavoro autore del suggerimento di misurarsi la temperatura corporea mediante un termometro); lo stesso medico di fabbrica - i cui compiti e le cui responsabilità sono indicate nel T.U sicurezza (d.lgs. n. 81/2008) - ha non pochi problemi a delineare il proprio ruolo ed a comprendere la propria responsabilità in un contesto emergenziale nel quale era richiesto il controllo e in un contesto post emergenziale nel quale si torna a discutere se e quali poteri di intervento avesse qualora si trovi a svolgere il ruolo di sanitario in strutture aziendali, ospedaliere e/o di assistenza e possa trovarsi a dover giustificare modalità e tempi di un intervento terapeutico e a difendersi da accuse di mala gestio e/o di ritardo/omissione.
Si assiste, in parallelo, al delinearsi di un altro versante di aggressione anche mediatica: chi si è mosso per tempo e con ferma determinazione è, più o meno esplicitamente, accusato di violazione della privacy e delle libertà altrui in un contesto nel quale l’art. 32 Cost. appare ridotto ad un rilievo simbolico e subvalente rispetto ad altri beni o valori della persona umana.
È forse il caso di ricordare che la salute, oltre che un diritto dell’individuo, è un “interesse della collettività” e che il bilanciamento dei valori in gioco è già stato fatto dal legislatore costituzionale riservando al contenuto dell’art. 32 Cost. quell’aggettivo (“fondamentale”) che non può essere ridotto a scelta semantica fine a se stessa.
La storia giudiziaria italiana è piena di amnesie e di “eroi” rapidamente degradati sul campo e, addirittura, sanzionati, motivo per cui andrà sempre tenuto conto del contesto generale nel quale il sanitario, l’ente pubblico o privato e l’amministratore pubblico si sono trovati ad operare: come ha sottolineato recentemente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella risposta alla domanda di giustizia non andrà mai dimenticato che non è configurabile una libertà di far ammalare gli altri né - va aggiunto - una pretesa di disporre della propria salute come se il singolo non si trovasse ad agire in un contesto sociale nel quale la regola base ed irrinunciabile è “alterum non laedere” (si veda, al riguardo, proprio con riferimento alla salute come interesse collettivo la giurisprudenza della Corte costituzionale, 20 dicembre 1996, n. 399).