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Archivio newsPiani di incentivazione all’esodo: una soluzione al divieto di licenziamento?
Mentre si discute sulla portata del divieto di licenziamento ridefinita ed estesa temporalmente, rischia di passare in secondo piano un’opportunità di gestione non traumatica degli esuberi offerta dall’art. 14, comma 3, del decreto Agosto: gli accordi collettivi di risoluzione consensuale, conosciuti come piani di incentivazione all’esodo. Questa soluzione acquista, oggi, un interesse rinnovato proprio nel contesto di divieto generale di licenziamento per almeno tre buoni motivi. Quali? E poi, nonostante le buone argomentazioni giuridiche a sostegno della possibilità di licenziare i lavoratori quando l’esubero non derivi dall’emergenza epidemiologica, è facile prevedere che nessun datore di lavoro sarà disponibile ad affrontare il rischio del contenzioso che potrà scaturire dai licenziamenti intimati prima del 31 dicembre 2020.
Il decreto Agosto (D.L. n. 104/2020) ha riscritto i termini del divieto di licenziamento per riduzione di personale nel periodo emergenziale sia nella forma del recesso individuale che collettivo, prevedendo quali uniche eccezioni le ipotesi di cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguente alla messa in liquidazione della società (a condizione che non sia simulata attraverso un trasferimento ex art. 2112 c.c.), il fallimento senza esercizio provvisorio dell’impresa e - novità più importante - gli accordi collettivi aziendali di incentivo alla risoluzione consensuale del rapporto.
Il divieto di licenziamento con queste poche eccezioni persiste in capo al datore di lavoro sino all’esaurimento dell’intera disponibilità di integrazioni salariali con causale COVID-19, pari a 18 settimane nel periodo dal 13 luglio al 31 dicembre 2020. In alternativa all’esaurimento dell’integrazione salariale, il decreto consente al datore di lavoro di accedere ad un esonero contributivo dai contorni ancora incerti. L’art. 3 del decreto Agosto, infatti, stabilisce il diritto del datore di lavoro che rinunci alla nuova dote di integrazioni salariali di beneficiare entro il 31 dicembre 2020 di un esonero contributivo nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020. Il beneficio è soggetto all’approvazione della Commissione europea ed è allo stato difficilmente quantificabile. Infatti, mentre è molto semplice calcolare il numero di ore di integrazione salariale fruite nei mesi di maggio e di giugno 2020, non è dato sapere quale sia il valore retributivo da attribuire a questo quantitativo di ore: potrebbe essere il valore medio delle retribuzioni “perdute” dai lavoratori collocati in integrazione salariale nei mesi di maggio e giugno. Detto valore, moltiplicato per il doppio delle ore di trattamento fruite nei due mesi, costituirebbe la “base imponibile” dell’esonero contributivo. Se però, in sede applicativa, venisse decisa l’adozione di un valore convenzionale, desunto dalla relazione tecnica di accompagnamento al decreto pari, ad esempio, a quello di riferimento per la stima degli oneri per la finanza pubblica derivanti dalle integrazioni salariali emergenziali di circa euro 5,80 (al netto della contribuzione figurativa), la sorpresa potrebbe essere molto amara, perché si tratterebbe di un valore retributivo nettamente inferiore alle retribuzioni normalmente riconosciute, con l’effetto di un significativo depotenziamento dello sgravio.
Alla luce di queste considerazioni, la scelta tra ricorso alle ulteriori settimane di integrazione salariale o esonero contributivo dovrebbe essere guidata da ragioni eminentemente produttive e non da calcoli di convenienza tra “non lavoro” assistito e sgravio contributivo.
In un quadro economico di grande incertezza per i mesi futuri e segnato dalla pesante flessione registrata nel primo semestre dell’anno, è naturale per i datori di lavoro porsi il problema di un adeguamento degli organici all’effettivo fabbisogno per il mantenimento dell’equilibrio economico. In questa prospettiva il rimedio temporaneo dell’integrazione salariale con causale COVID-19 rappresenta un indubbio sollievo, ma non certo una soluzione di carattere strutturale.
In via generale il decreto Agosto, diversamente dalla normativa precedente, non fissa una data di scadenza del divieto di licenziamento, ma individua indirettamente un termine mobile, stabilendo che i datori di lavoro possano riprendere l’iniziativa di recesso solo dopo aver integralmente fruito dei nuovi trattamenti di integrazione salariale emergenziali disponibili fino al 31 dicembre 2020 o aver optato per l’esonero contributivo alternativo. La fruizione dell’esonero, sempre entro il 31 dicembre 2020, dovrebbe avvenire per quote costanti nei mesi da settembre a dicembre, cosicché il divieto di licenziamento verrebbe a cadere comunque a partire da gennaio 2021.
La portata del divieto parrebbe dunque collegata esclusivamente alla fruizione di questa speciale dote aggiuntiva di integrazione salariale emergenziale, mentre resterebbero escluse le ipotesi di mancato ricorso all’integrazione salariale per insussistenza dei presupposti.
Si pensi, ad esempio, al caso di chiusura di un punto vendita di una rete del retail per scadenza del contratto d’affitto ed impossibilità di reperire nuovi locali a condizioni economicamente sostenibili. In questo caso, il ricorso all’ammortizzatore COVID-19 sarebbe senz’altro improprio, in quanto l’impossibilità di occupare i lavoratori non è in alcun modo riconducibile all’emergenza epidemiologica. In questa ipotesi, secondo alcuni commentatori, non opererebbe la preclusione ai licenziamenti collettivi stante l’oggettiva impossibilità di utilizzo dell’ammortizzatore COVID, così come per evidenti ragioni dell’esonero contributivo.
Nonostante le buone argomentazioni giuridiche a sostegno della possibilità di licenziare i lavoratori quando l’esubero non derivi dall’emergenza epidemiologica, è facile prevedere che nessun datore di lavoro sarà disponibile ad affrontare il rischio del contenzioso che potrà scaturire dai licenziamenti intimati prima del 31 dicembre 2020. Preferirà, probabilmente, utilizzare comunque l’ulteriore ammortizzatore del decreto Agosto fino all’esaurimento e qualificare eventualmente le ulteriori giornate di mancata prestazione lavorativa fino alla fine dell’anno come assenza non retribuita e non indennizzata dall’INPS, per poi dar corso ai licenziamenti a partire da gennaio 2021.
Nel quadro normativo tracciato dal decreto Agosto, salvo revisioni in sede di conversione in legge del provvedimento, non sembrano sussistere concrete possibilità di anticipare il momento in cui il datore di lavoro possa esercitare il recesso per motivi economici, se non nel caso di completo esaurimento della nuova disponibilità di 18 settimane di integrazione salariale (anche per poche ore, anche per pochi lavoratori). Ogni altra ipotesi appare carica di incertezze e di rischi di contenzioso.
L’art. 14 al comma 3 propone, però, una soluzione interessante e non traumatica di cessazione dei rapporti di lavoro: gli accordi collettivi di risoluzione consensuale, altrimenti conosciuti come piani di incentivazione all’esodo. La soluzione acquista, oggi, un interesse rinnovato proprio nel contesto di divieto generale di licenziamento per almeno tre buoni motivi:
a) i tempi di realizzazione del piano possono essere molto brevi, sicuramente inferiori ai 75 giorni di durata massima di una procedura di licenziamento collettivo ex artt. 4 e 24, L. 223/91;
b) la risoluzione consensuale del rapporto non comporta oneri di preavviso;
c) al lavoratore che spontaneamente aderisce al piano spetta - ed è questa la più importante novità -l’indennità di disoccupazione Naspi come se fosse stato licenziato.
L’art. 14 del decreto Agosto pone solo tre condizioni:
1. che sia sottoscritto un accordo collettivo aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative;
2. che la risoluzione del rapporto sia incentivata;
3. che gli accordi, sia quello collettivo che quello individuale correlato, siano stipulati entro il 31 dicembre 2020.
Riguardo alla prima condizione, la nozione di organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale richiama quella dell’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015. Gli accordi dovranno essere sottoscritti dalle segreterie nazionali o territoriali (escluse quindi RSA e RSU) delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative della categoria produttiva cui appartiene l’azienda.
La seconda condizione pone la necessità di individuare un meccanismo incentivante, senza tuttavia fornire ulteriori vincoli o indicazioni. Ad esempio, potrebbe essere individuato un importo base di incentivo all’esodo incrementabile in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore e ulteriormente elevabile laddove il lavoratore manifesti la volontà di risoluzione del rapporto entro una determinata data. Non sono, invece, affatto vincolanti i criteri imposti dalla legge n. 223/1991 per i licenziamenti collettivi (oltre all’anzianità di servizio, i carichi di famiglia e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative). La fattispecie della risoluzione consensuale, infatti, non va confusa con quella del licenziamento, nemmeno quando il licenziamento derivi dall’applicazione del c.d. criterio di non opposizione individuale. La risoluzione consensuale, nel quadro di un piano di incentivazione, prende le mosse dalla libera volontà del lavoratore di aderire ad una proposta del datore di lavoro e non da una dichiarazione di esubero formulata secondo le procedure di legge. Per lo stesso motivo, non è affatto necessario che l’accordo sindacale definisca profili professionali, funzioni o reparti nel cui perimetro si applichi il piano stesso. Esso potrà limitarsi, ad esempio, ad indicare un numero massimo di istanze individuali che potranno essere accolte, potendo altresì prevedere la c.d. clausola di esclusione, cioè la possibilità per il datore di lavoro di non accogliere la richiesta del lavoratore qualora ritenga che questa risorsa sia strategica per la prosecuzione dell’attività dell’impresa.
Date le caratteristiche di un piano di incentivazione all’esodo, non dovrebbero esservi opposizioni di principio da parte delle organizzazioni sindacali, perché si tratta in buona sostanza di un’opportunità in più offerta al lavoratore che equivale, sul piano della scelta individuale, ad un atto di dimissioni, ma che offre tre vantaggi in più:
1. non comporta l’obbligo di lavorare il periodo di preavviso o di subire la corrispondente trattenuta retributiva;
2. implica il pagamento di un incentivo economico da parte del datore di lavoro;
3. dà diritto all’indennità di disoccupazione Naspi, normalmente esclusa in caso di dimissioni (con le note residuali eccezioni).
Il limite temporale del 31 dicembre 2020 per il perfezionamento dell’accordo collettivo e individuale si ricava indirettamente dal contesto in cui è inserita questa speciale deroga al divieto di licenziamento. In altri termini, nulla vieta che un piano di esodo incentivato possa aver luogo anche successivamente, ma in tal caso non opererà la garanzia della Naspi. A tal fine in via prudenziale è opportuno che anche la cessazione effettiva del rapporto di lavoro intervenga entro il 31 dicembre 2020. Il trattamento di disoccupazione rappresenta una leva importante per il successo del piano di incentivazione all’esodo, perché garantisce per la durata massima di due anni un sussidio economico di importo lordo complessivo che può superare i 24 mila euro nel biennio e una piena copertura figurativa di contributi ai fini della pensione. Inoltre, il datore di lavoro, che diversamente dal licenziamento non è tenuto al pagamento del preavviso o dell’indennità sostitutiva, potrà integrare opportunamente l’incentivo all’esodo per sostenere il piano. La norma nulla dispone riguardo al contributo Naspi (c.d. ticket di licenziamento), normalmente non dovuto in ipotesi di risoluzione consensuale. In questo caso, tuttavia, l’estensione eccezionale del trattamento di Naspi porta a ritenere che il ticket sia dovuto.
Gli oltre quattro mesi di prolungamento del divieto di licenziamento e le scarse, e in alcuni casi rischiose, possibilità di anticiparne la scadenza rendono particolarmente interessante la strada dell’accordo collettivo di risoluzione consensuale incentivata offerta dall’art. 14 del decreto Agosto. Sul piano produttivo e organizzativo, le risoluzioni consensuali incentivate, anche in costanza di ammortizzatore con causale COVID-19, consentono di affrontare in modo flessibile e meno traumatico il problema del dimensionamento d’organico nella stagione di grave incertezza economica che stiamo attraversando.