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Archivio newsLavoratori all’estero: perché la riforma prevista dall’UE aiuterà le imprese
Sta per essere recepita in Italia la direttiva UE (n. 957/2018), che modifica la disciplina sul distacco transfrontaliero dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi. Il tema è di grande importanza soprattutto per le aziende che partecipano agli appalti per opere pubbliche o private. Qui, infatti, il sistema di aggiudicazione secondo il criterio del ribasso d’asta finisce per privilegiare le imprese straniere con un costo del lavoro minore rispetto a quello applicato nel nostro Paese. Le nuove misure europee impongono ora al legislatore italiano di prendere posizione anche sul salario minimo legale. Sarà l’occasione per una definitiva svolta?
E’ scaduto, lo scorso 30 luglio, il termine previsto per il recepimento in Italia della direttiva dell’Unione Europea n. 957 del 28 giugno 2018, che ha modificato in più punti la precedente direttiva n. 71 del 1996, relativa al distacco transfrontaliero dei lavoratori.
Il legislatore italiano ha provveduto per tempo, attraverso la legge delega n. 117 del 4 ottobre 2019, a conferire al Governo il potere di recepire la direttiva con un decreto legislativo, di modo che, seppure con qualche modesto ritardo dovuto alle emergenze derivanti dalla pandemia, il Consiglio dei Ministri, esauritosi l'iter parlamentare, ha approvato definitivamente lo scorso 10 settembre il testo definitivo del provvedimento, che a breve verrà pubblicato in "Gazzetta".
Il tema è di grande importanza e riguarda non solo chi è propriamente distaccato all’interno di un gruppo multinazionale, ma i 17 milioni e mezzo di lavoratori che all’interno dei confini europei vivono e lavorano in un paese diverso da quello in cui sono nati. Si tratta in molti casi di lavoratori addetti a mansioni manuali o a lavori “di fatica”, provenienti dall’Est Europa, dalla Romania o dalla Bulgaria: cittadini “comunitari” che hanno pieno diritto di soggiornare sul suolo di un altro paese dell’Unione, fin tanto che producano un reddito o godano del pagamento di una pensione.
Altri invece sono cittadini di paesi extra-UE (come l’Ucraina, la Turchia o l’Albania), ma equiparati agli europei, perché autorizzati a vivere e lavorare in un paese dell’UE.
La direttiva, in verità, non riguarda tanto i singoli, ma piuttosto le imprese, ed in particolare quelle attive nei settori delle costruzioni e della manutenzione industriale, che partecipano agli appalti per opere pubbliche o private. Qui è lo stesso sistema di aggiudicazione secondo il criterio del ribasso d’asta, che finisce per privilegiare le imprese straniere, forti di un costo del lavoro minore rispetto a quello praticato nei mercati dei paesi ricchi. In questo senso, invero, la direttiva interessa anche le imprese italiane, che in tante occasioni sono risultate aggiudicatarie di lavori infrastrutturali all’estero (per es. nel settore dell’estrazione e della raffinazione del petrolio).
Al fine di evitare che la concorrenza si basi solo sul costo del lavoro, la legislazione dell’Unione consente allo Stato che ospita l’impresa estera di imporre ad essa il rispetto delle proprie norme nazionali (per es. in tema di salute e sicurezza o di orario), anche se questa operazione rischia di risultare parziale, quando manchi (come in Italia) un salario minimo legale, obbligatorio per tutti. Ed è per questo motivo che oramai da molti anni si cerca di individuare a Bruxelles un punto di equilibrio, che consenta ai prestatori di servizi che provengano dai paesi dell’Est di potersi liberamente muovere sul territorio europeo, senza tuttavia costringere le imprese dei paesi più ricchi ad abbassare i salari per non essere messe ai margini del mercato.
Con questa finalità, l’originaria direttiva n. 71 del 1996 sul distacco transfrontaliero dei lavoratori è stata già integrata dalla direttiva 2014/67, che ha dato luogo all’emanazione del D. Lgs. 136 del 2016, il quale a sua volta ha abrogato e completamente sostituito il D. Lgs. 72 del 2000, che aveva trasposto l’originaria direttiva del 1996.
Le novità introdotte dalla direttiva del 2018, che attende ora di essere trasposta in Italia, sono molte, anche se nessuna di esse mette in discussione l’impianto originario del 1996, che ha trovato conferma in molte sentenze della Corte di Giustizia europea (si tratta, in primis, dei casi Laval e Viking, sui quali sono stati versati fiumi di inchiostro). In primo luogo, si cerca di contrastare il distacco transfrontaliero “fraudolento”, all’evidente fine di far emergere le società che hanno solo di fatto una sede in un diverso Stato (sono le “letter box companies”) e i lavoratori solo apparentemente inviati in distacco, ma in realtà da tempo residenti in un paese diverso da quello che attribuisce loro la nazionalità.
A riguardo, anzi, con un regolamento dello scorso anno (n. 1149/2019) si è costituita l’Autorità Europea del Lavoro al fine di garantire che ogni paese svolga controlli seri ed adeguati, per «combattere gli abusi evidenti» e i casi «di attività transnazionali illegali» (così l’art. 4, par. 2 della dir. 96/71 nel testo ora modificato dalla direttiva 2018/957).
La misura più efficace in questo senso è costituita dalla previsione (art. 3, par. 1bis dir. 2018/957) che il distacco non possa ora superare i 12 mesi (prorogabili a 18 dallo Stato membro in cui il servizio è prestato), mentre restano altresì vietati i distacchi (“a catena”) per sostituire lavoratori già presenti all’estero nelle medesime mansioni: si tratta di misure importanti che innovano profondamente la precedente disciplina, di cui all’art. 12 del reg. 883/2004, dove il termine massimo era biennale, senza peraltro che si impedissero distacchi di più lunga durata (sino a cinque anni), a patto tuttavia di procedere al versamento dei contributi all’ente previdenziale del paese ospitante.
Inoltre la direttiva del 2018 prevede ora che siano meglio distinte le voci che compongono la retribuzione individuale, al fine di evitare che attraverso finti rimborsi si eviti di versare la contribuzione dovuta all’ente previdenziale competente. Si stabilisce poi che venga ad essere costituito, con il contributo di tutti gli Stati, un sito web in tutte le lingue possibili (si pensi ai tanti lavoratori albanesi, ucraini o turchi, di cui sopra si diceva!) che individui in maniera precisa i diritti di tutti i lavoratori espatriati.
Sono misure assai precise che impongono al legislatore italiano di prendere posizione sui tanti punti ora regolati dalla nuova direttiva, prestando collaborazione sul versante dell’amministrazione e regolando settori, come in primis quello del salario, che da sempre lasciano ampio spazio all’informalità e alle incertezze del nostro sistema di contrattazione collettiva, che non conosce l’efficacia generale (c.d. erga omnes) dei salari, lasciando così alle imprese grandi spazi di adattamento.