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Archivio newsContratti a termine dopo il decreto Agosto. Dall’assenza di causale alla quinta proroga
La “liberalizzazione” dei contratti a termine, come definita dal decreto Agosto, ha una portata ampia e vale non soltanto per il fatto che l’assenza di causale non comporta la trasformazione a tempo indeterminato, ma anche perché è possibile utilizzare una quinta proroga, rispetto alle usuali quattro, e non rispettare lo “stop and go” tra un contratto a tempo determinato e l’altro. Sono questi alcuni chiarimenti resi dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro che hanno risolto gran parte dei problemi interpretativi degli operatori. Sarà ora compito degli ispettori del lavoro vigilare sulla corretta applicazione delle disposizioni di legge anche nei casi in cui non sussiste una specifica sanzione prevista dall’ordinamento.
Con la nota n. 713 del 16 settembre 2020, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito le prime indicazioni su una serie di questioni che scaturiscono dal testo del decreto Agosto (D.L. n. 104/2020): tra queste, particolarmente significative ed importanti, sono quelle che riguardano i contratti a termine che, attesa la piena assimilazione intervenuta con il D.L. n. 87/2018, possono ben riferirsi anche alla somministrazione a tempo determinato.
Va dato atto a tale organo di essersi espresso ben prima del Ministero del Lavoro che, pure su un tema come questo avrebbe dovuto fornire le proprie indicazioni velocemente (senza dimenticare le problematiche connesse alla sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo): erano molto attesi dagli operatori e dai datori di lavoro i chiarimenti che, a mio avviso, hanno risolto gran parte dei problemi interpretativi correlati al cambiamento normativo che ha, radicalmente, mutato il testo dell’art. 93 del D.L. n. 34/2020 convertito, con modificazioni, nella l. n. 77/2020.
Indubbiamente, ci troviamo di fronte ad una disposizione che, sulla materia molto contorta ed articolata dei rapporti a tempo determinato che, sovente, ha dato luogo a forti criticità, rappresenta una “parentesi” temporalmente ben identificata rispetto allo schema rigido quale era stato ridisegnato dal decreto Dignità e che le timide aperture avvenute per effetto della decretazione d’urgenza antecedente (da ultimo, l’art. 93 del D.L. n. 34/2020) non avevano, sostanzialmente, scalfito.
Ora, anche al fine di favorire il riavvio delle attività nel periodo successivo alla punta massima della crisi pandemica, si liberalizza il ricorso al contratto a termine ed alla somministrazione a tempo determinato, per un preciso periodo (dodici mesi al massimo) senza l’apposizione di alcuna causale in caso di proroga o rinnovo (il primo contratto tra le parti, è sempre senza condizioni). Tale apertura normativa vuole rappresentare una risposta al crollo di tali tipologie contrattuali verificatosi nel primo semestre dell’anno in corso, in quanto i lavoratori a termine e quelli stagionali sono stati, da un punto di vista lavorativo, tra le prime vittime del COVID-19.
Ma, andiamo con ordine, seguendo le indicazioni chiarificatrici dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Tale organo parte dal significato che occorre dare alla frase che stabilisce la deroga all’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015 affermando che la stessa, per un periodo massimo di dodici mesi per le proroghe o per i rinnovi e per una sola volta, nel rispetto dei termini di durata massima di ventiquattro mesi complessivi, senza condizioni, ha una portata ampia nel senso che vale non soltanto per il fatto che l’assenza di causale non comporta la trasformazione a tempo indeterminato (come sostenuto da chi si è attestato su una tesi restrittiva), ma anche perché è possibile, qualora ve ne sia la necessità, utilizzare una quinta proroga (rispetto alle usuali quattro) e non rispettare lo “stop and go” tra un contratto a tempo determinato e l’altro che è di dieci o venti giorni di calendario se il precedente rapporto ha avuto, rispettivamente, una durata fino a sei mesi o superiore.
La previsione di una durata massima della proroga o del rinnovo “agevolato” ha una data di riferimento: quella del 31 dicembre 2020. Essa si riferisce alla formalizzazione della proroga o del rinnovo entro tale data, con la conseguenza che gli effetti possono ben esplicarsi nel corso dell’anno successivo. In caso di proroga la comunicazione telematica ai servizi per l’impiego può essere inviata entro i cinque giorni successivi, mentre in caso di rinnovo la stessa deve essere effettuata entro il giorno antecedente l’inizio del rapporto.
Qui si pone, a mio avviso, una questione che, peraltro, era già emersa nel corso del 2018 durante il c.d. “periodo transitorio” tra la vecchia e la nuova disciplina introdotta con il D.L. n. 87/2018 e, soprattutto, con la legge di conversione, n. 96/2020: quello della proroga di un contratto in corso la cui scadenza è ben oltre la data ultima del 31 dicembre. Ritengo che la proroga, con il consenso del lavoratore, debba avvenire alla scadenza o nelle immediate vicinanze della stessa e che non può riguardare un rapporto a tempo determinato che termina in un periodo ampiamente successivo, in quanto si “concretizzerebbe” un “negotium in fraudem legis”, con tutte le conseguenze del caso. Quanto appena detto a livello interpretativo dall’INL ci fa vedere la solare differenza con il vecchio art. 93 ove la data finale ivi apposta (30 agosto 2020) era considerata ultimo giorno del contatto a termine in essere e non ultimo giorno per la stipula (come affermato, sollecitamente, dal Ministero del Lavoro, peraltro, attraverso una slides anonima apparsa sul sito istituzionale).
Altro chiarimento di un certo spessore riguarda il susseguirsi delle eventuali proroghe che si succedono, la prima avvenuta sotto l’imperio del vecchio art. 93 e l’altra sulla base del nuovo testo. L’Ispettorato chiarisce che la nuova disposizione ha carattere “sostitutivo” rispetto alla precedente (e ciò si evince chiaramente dal dettato normativo) e, quindi, le due diverse proroghe acausali hanno origine da due norme diverse, atteso che i presupposti sono diversi: di conseguenza, il concetto di “prima volta” che, tanto ha angustiato qualche commentatore, va inteso come riferito al “nuovo” art. 93, sempre nel rispetto dei ventiquattro mesi complessivi.
Prima di entrare nel merito di altri chiarimenti ricordo che:
a) con il riferimento ai ventiquattro mesi complessivi ci si riferisce a contratti a termine o in somministrazione a tempo determinato svoltisi tra gli stessi soggetti (datore di lavoro e lavoratore) per mansioni di pari livello o categoria legale di inquadramento;
b) con il richiamo al termine “rinnovo” il Legislatore si riferisce ad un nuovo contratto tra il datore di lavoro ed il lavoratore che, in via normale, dovrebbe vedere l’apposizione di una condizione ex art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015 pur se le mansioni o la categoria legale di inquadramento sono diverse rispetto al precedente;
c) con il richiamo all’istituto della proroga il Legislatore non cambia nulla circa il contenuto della stessa in quanto interviene, solamente, sul fatto che, in caso di necessità, se ne può stipulare una quinta senza che ci sia la trasformazione a tempo indeterminato a partire dalla stessa, come richiederebbe il comma 2 dell’art 21.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro si sofferma, poi, sugli effetti dell’abrogazione del comma 1-bis del D.L. n. 34, introdotto in sede di conversione nella legge n. 77 che prevedeva una proroga automatica dei contratti a termine in essere per un periodo uguale a quello derivante dalla sospensione dell’attività lavorativa. Tale proroga, se avvenuta, resta “neutra” rispetto al computo della durata massima di ventiquattro mesi: si tratta di un chiarimento opportuno, atteso che molti operatori avevano il dubbio che un possibile “sforamento” del tetto massimo, potesse riverberarsi sul contatto attraverso una trasformazione a tempo indeterminato.
Ma, cosa affermava il comma 1-bis?
Esso imponeva per i contratti a termine anche in somministrazione una sorta di “imponibile di manodopera” di stampo “anni cinquanta”, peraltro, definito incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 78/1958 in agricoltura, sia pure in un contesto del tutto diverso. L’imponibile di manodopera si caratterizzava in una proroga obbligatoria dei rapporti a termine per tutto il periodo in cui c’era stata la sospensione del rapporto.
Era una norma che si applicava, indistintamente, a tutti i contratti a termine ed in somministrazione, e quindi anche a quelli stagionali, con un aspetto paradossale che era quello di dover assicurare una proroga anche in assenza dell’attività oltre che, in presenza (nei contratti a tempo determinato “normali”) di una carenza di necessità da parte del datore di lavoro (perché, ad esempio, la donna in maternità sostituita era rientrata in servizio).
L’abrogazione del comma 1-bis ha portato alla cancellazione anche del recupero della sospensione nei contratti di apprendistato di primo e terzo livello (art. 43 e 45 del D.L.vo n. 81/2015), mentre è rimasto il recupero delle ore di sospensione per le integrazioni salariali per i lavoratori con contratto di apprendistato professionalizzante, in quanto tale disposizione (ben comprensibile, perché si tratta di una tipologia contrattuale a tempo indeterminato con un contenuto formativo) si rinviene nel comma 4 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 148/2015 ed ha validità per ogni sospensione o riduzione di orario con intervento di sostegno al reddito. La disposizione precedente è stata in vigore per 29 giorni (infatti, la legge di conversione che la conteneva è stata pubblicata il 18 luglio): ciò significa che se, in tale lasso di tempo, un datore di lavoro ha prorogato il rapporto a tempo determinato per un periodo uguale alla sospensione dovuta al periodo di integrazione COVID-19, questo contratto conserva la propria efficacia.
I chiarimenti dell’INL terminano con un breve riferimento al c.d. “contratto in deroga assistita” stipulato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro ai sensi dell’art. 19, comma 3, oltre il termine dei ventiquattro mesi o quello, diverso, previsto dalla contrattazione collettiva: qui nulla è cambiato rispetto alle indicazioni fornite, da ultimo, con la nota n. 8120/2019 tra cui, ricordo, spiccano l’unicità del contratto per un massimo di dodici mesi (senza proroga), l’inserimento di una delle condizioni previste dal comma 1 dell’art. 19 ed il rispetto dello “stop and go”.
Fin qui i chiarimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che, a mio avviso, non toccano un’altra questione che potrebbe riverberarsi sui rapporti di lavoro a termine in caso di “recrudescenza della crisi pandemica”: cerco di spiegarmi meglio.
L’art. 19-bis del D.L. n. 18/2020 (decreto Cura Italia), fornendo in maniera un po' inusuale, una norma di interpretazione autentica in materia di accesso agli ammortizzatori sociali e di rinnovo dei contratti a termine stabilì che, in deroga a ben tre articoli del D.Lgs. n. 81/2015 (20, comma 1, lettera c, 21, comma 2 e 32, comma 1, lettera c) fosse possibile rinnovare o prorogare i rapporti anche in somministrazione in scadenza per i lavoratori che erano in forza alla data del 23 febbraio. Ebbene, la disposizione si riferisce ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori COVID-19 (articoli da 19 a 22), nei termini ivi indicati (il termine ultimo era il 31 agosto): cosa succederà se sarà necessario, a fronte di una crisi determinata dal coronavirus, richiedere nuovi ammortizzatori con contratti a termine che sono in scadenza? Il buon senso porterebbe a pensare alla possibilità di una proroga ma, forse, sarebbe opportuno inserire qualcosa da un punto di vista normativo in sede di conversione del provvedimento.
I cambiamenti normativi non hanno, assolutamente, inciso sugli altri istituti correlati al contratto a tempo determinato: mi riferisco alle percentuali, alle sanzioni degli organi di vigilanza, al ricorso giudiziale, alla sentenza di condanna in caso di illegittimità riscontrata nel contratto, al computo dei contratti a termine in relazione all’applicazione di istituti che richiedono il computo dei dipendenti, al diritto di precedenza che, peraltro, non ha una propria specifica sanzione in caso di inosservanza ma che potrebbe essere oggetto di una specifica “disposizione”. La questione che ho appena sollevato consente di evidenziare qualcosa che, nel silenzio del dibattito in corso tra gli operatori, muterà la stessa attività ispettiva (quindi, ben oltre il caso del diritto di precedenza non scritto nella lettera di assunzione), assegnando agli ispettori del lavoro un compito di vigilanza sulla corretta applicazione delle disposizioni di legge anche nei casi in cui non sussiste una specifica sanzione prevista dall’ordinamento.
Su questo punto, infatti, ci sono novità da un punto di vista sanzionatorio per effetto dell’art. 12-bis della l. n. 120/2020 che ha convertito, con modificazioni, il D.L. n. 76/2020 (decreto Semplificazioni). Con tale norma è stato cambiato, tra le altre cose, il testo dell’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004 relativo alla disposizione che è un atto in capo al personale di vigilanza degli Ispettorati del Lavoro.
Senza entrare nel merito della questione (lo farà, certamente a breve, l’INL) ricordo che:
a) il personale ispettivo può adottare (e qui sussiste un criterio discrezionale che consente di far riferimento ad un principio della ragionevolezza) un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in cui le irregolarità riscontrate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative. Come si vede il campo di applicazione è molto ampio: basti pensare, tanto per fare tre esempi, alle mansioni svolte, alla sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo o al diritto di precedenza non inserito nella lettera di assunzione;
b) la disposizione deve contenere un termine per adempiere che può variare a seconda della irregolarità riscontrata;
c) è ammesso, entro quindici giorni, il ricorso al direttore dell’Ispettorato territoriale del Lavoro che decide nei quindici giorni successivi e la mancata decisione equivale a silenzio – rigetto. Il ricorso non sospende l’esecutività del provvedimento di disposizione;
d) la mancata ottemperanza alla disposizione comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa compresa tra 500 e 3.000 euro, senza applicazione dell’istituto della diffida ex art. 13, cosa che comporta l’impossibilità di applicare l’importo minimo previsto.