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Archivio newsQuota 100 va in pensione... Senza alternative valide
Sta per scadere (e, con ogni probabilità, non verrà rinnovata) la possibilità di andare in pensione anticipatamente con quota 100 per chi, entro il 2021, possiede un'età anagrafica di almeno 62 anni e ha maturato un'anzianità contributiva minima di 38 anni. In realtà, il mancato rinnovo delle disposizioni non esaurirà del tutto gli effetti della norma di favore, perché il lavoratore che ha conseguito il diritto all’uscita con quota 100 conserva, di fatto, la facoltà di esercitarlo successivamente. Per chi, invece, vedrà slittare di 5 anni il momento del pensionamento, le soluzioni per un accesso anticipato al pensionamento potrebbero essere, realisticamente, l’APE sociale e l’opzione donna?
Quando nel gennaio 2019, con il D.L. n. 4/2019 fu congiuntamente introdotto nel nostro sistema previdenziale il reddito di cittadinanza e il trattamento di pensione anticipata «quota 100», quest’ultima misura fu espressamente qualificata come norma provvisoria, destinata a produrre i suoi effetti «in via sperimentale per il triennio 2019-2021».
Date queste premesse, ora il Governo, mutata la coalizione che lo sorregge, ha dichiarato che alla sua scadenza la norma non verrà ripresentata, di modo che si pone già sin da adesso il quesito in ordine alle conseguenze che deriveranno dall’eventuale applicazione del regime generale di cui alla legge Fornero del 2011, dettata dall’emergenza di fronteggiare la crisi dell’euro, ma di fatto sempre in larga misura rinviate (grazie o alle varie norme che hanno consentito l’uscita anticipata degli “esodati”, o, per l’appunto, a “quota 100”).
In realtà, il mancato rinnovo delle disposizioni del Governo giallo-verde non esaurirà del tutto gli effetti della norma di favore, perché il decreto n. 4 del 2019 fa salva l’ipotesi che il lavoratore, conseguito entro il 31 dicembre 2021 il diritto all’uscita con quota 100, voglia poi esercitarlo successivamente a quella data rimanendo in servizio sino all’effettivo pensionamento.
Il problema si pone soprattutto per quella fascia di età intercettata dalle norme del 2019 che, non avendo potuto avere accesso alla misura per la mancanza di uno dei requisiti previsti («un'età anagrafica di almeno 62 anni e un'anzianità contributiva minima di 38 anni»), dal 1° gennaio 2022 vedrà spostata in avanti in un giorno solo di 5 anni il momento del pensionamento. L’applicazione della regola generale, infatti, impone a costoro o l’uscita al maturare del requisito di vecchiaia (a 67 anni) o di attendere sino al raggiungimento della soglia della pensione anticipata, che è ormai fissata in 42 anni e 10 mesi di effettivo servizio per gli uomini (e in 41 anni e 10 mesi per le donne).
Ed anche le soluzioni che, prima della legge del 2019, si erano studiate per un accesso comunque anticipato al pensionamento sono prossime alla scadenza, posto l’APE sociale e l’opzione donna sono state previste solo in via provvisoria sino al 31 dicembre 2019. Come si ricorderà, nel primo caso si tratta di una forma di pensionamento previsto per varie categorie di lavoratori compresi coloro per i quali la particolare natura dell’attività prestata per un certo numero di anni fa temere che la loro speranza di vita residua sia inferiore rispetto alla generalità dei pensionati (sono ad es. i lavoratori che prestano servizio presso impianti industriali su turni a rotazione, operando sulla catena di montaggio, oppure lavoratori marittimi e pescatori e così via). Nel caso di opzione donna si tratta di un sistema che consente l’uscita anticipata con 35 anni di contribuzione, ma a patto di vedere liquidata la propria pensione integralmente con il sistema contributivo.
In entrambi i casi, le soluzioni non sono troppo attrattive, o perché l’anticipo si rivolge ad una piccola minoranza di lavoratori, o perché, nel caso di “opzione donna” la quota di assegno mensile che il pensionato viene a perdere può essere anche di importo rilevante (anche se deve dirsi che, in prospettiva, questa soluzione comincia a diventare più attraente che in passato, per tutte quelle lavoratrici che hanno maturato pochi anni nel sistema retributivo, e cioè per un numero sempre più rilevante, posto che questo criterio di calcolo è stato oramai cancellato più di 25 anni fa, di modo che non è certo che il Governo sia davvero intenzionato ad una proroga, almeno alle condizioni attuali).
Resta da dire che gli effetti sul sistema pensionistico italiano di “quota 100” sembrano essere stati poco interessanti sul piano della prospettata sostituzione dei più anziani con lavoratori più giovani. Infatti, se si prendono a riferimento i dati del quarto trimestre del 2019, quando oramai la legge era entrata in vigore da circa un anno e ancora non si avvertivano gli effetti della pandemia, ci si accorge che si è certamente registrato un incremento dell’occupazione complessiva (circa 200 mila lavoratori in più, così da arrivare ad un totale di 23,3 milioni di occupati nel complesso), ma che questo aumento non è né inferiore, né superiore a quello che si era registrato nell’anno precedente. Anzi: ove si vada a disaggregare il dato per classi di età, le modifiche nella classe di età fra i 15 e i 34 sono infinitesime (lo 0,1% in un anno) e resta invariato il tasso di età dei lavoratori più anziani (dai 50 ai 64 anni), a dimostrazione che l’effetto sostituzione per operare richiede un complesso di misure e di condizioni, che non si sono affatto realizzate.
Da questo punto di vista, si deve rilevare come la pandemia abbia influito soprattutto sul piano di assunzioni, che già nell’autunno 2019 era stato varato nel settore del pubblico impiego, ma che ha ancora avuto scarsa attuazione: qui i dati sono davvero disperanti, perché, complice il “blocco del turn over” che ha consentito assunzioni in misura ridotta (1 nuovo dipendente ogni 5 cessati dal servizio), in circa venti anni l’età media dei dipendenti è cresciuta di più di sette anni (era pari a 43,5 nel 2001; ed era cresciuta a 50,7 nel 2018): questo significa che il numero dei dipendenti pubblici, già contenuto se paragonato a paesi a noi vicini come la Francia, ha conosciuto un progressivo deterioramento, che ha investito sia quanti siano rimasti a lavorare per le pubbliche amministrazioni, sia – indirettamente – i tanti che beneficiano dei servizi offerti.
L’invecchiamento è certamente disomogeneo (perché è più pronunziato nell’impiego presso i ministeri e gli enti locali e un po’ meno nella sanità), ma dà l’idea di quella riduzione progressiva dei servizi pubblici che è emersa in tutta la sua portata quando si è trattato di dover fronteggiare l’emergenza sanitaria conseguente al Coronavirus, poiché spesso hanno saputo reagire meglio proprio le regioni dove era stata minore la riduzione del personale (e l’invecchiamento complessivo) nei servizi dedicati alla prevenzione e alla vigilanza sanitaria.
In questi ambiti, il venir meno del sistema di pensionamento anticipato quota 100 potrebbe dar luogo a criticità, conseguenti ad un ulteriore invecchiamento del personale, che solo si possono fronteggiare con nuove assunzioni, così da consentire a chi rimane al lavoro in età avanzata di poter essere affiancato da personale più giovane (magari anche più dinamico) e in ogni caso più avvezzo ad utilizzare le tecnologie informatiche.
In questo senso, non si deve dimenticare che nel settore del lavoro pubblico l’avvio dei concorsi per le nuove assunzioni è forse passato in secondo piano in conseguenza del contemporaneo venir meno del blocco alla progressione retributiva, che era stato introdotto in via generalizzata oramai dieci anni fa, dopo la crisi del 2009: sono stati così incrementati i fondi che il bilancio statale mette a disposizione per il personale delle pubbliche amministrazioni (con circa 6 miliardi di euro aggiuntivi), tanto che è stato possibile il rinnovo di molti contratti collettivi, oramai bloccati da anni, con un adeguamento retributivo del 3,7% ed aumenti medi di circa 100 euro al mese.