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Responsabilità 231: i vantaggi di un modello organizzativo efficiente

Intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, impiego di lavoratori extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno, reati di omicidio colposo, lesioni colpose per violazione delle norme a tutela della sicurezza sul lavoro. Il pesante quadro punitivo previsto a carico delle imprese datrici di lavoro per queste fattispecie di reato può essere evitato attraverso l’adozione di un modello di organizzazione e di gestione (MOG) idoneo. Pierluigi Rausei approfondirà il tema il 9 novembre nel corso del webinar “Strategie aziendali per superare la crisi”. Il webinar, organizzato in collaborazione con la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, sarà presentato da Pasquale Staropoli.

Nel contesto di una gestione organizzativa dell’impresa che sia orientata alla continuità operativa e aziendale, nel contesto di una tutela del lavoro (in tutte le sue forme) anche perché finalizzata al raggiungimento dei risultati di produttività e di redditività attesi, rileva inevitabilmente la capacità di attuazione degli strumenti di management attivati rispetto al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che integrando il concetto di personalità della responsabilità penale contenuto nell’art. 27 Cost., ha coinvolto direttamente gli enti collettivi, come destinatari in proprio di una specifica e diretta responsabilità amministrativa derivante da reato.

A fronte di tale responsabilità diretta, la norma consente, però, di adottare un modello di gestione e organizzazione aziendale(“MOG”), che permette di procedimentalizzare ogni singola attività dell’ente, individuando specifici adempimenti idonei a minimizzare il rischio legato alla commissione di illeciti configurabili come reato.

Il MOG, di fatto, mira a esonerare l’impresa datrice di lavoro dalla responsabilità diretta (o quanto meno a ridurne la portata sanzionatoria), con particolare riferimento alle tutele riguardanti la corretta applicazione delle misure di prevenzione e protezione rispetto alla pandemia da Covid-19 (Coronavirus), che rilevano in funzione di quanto previsto dall’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa dell’ente per violazione di norme di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, con riguardo ai profili sanzionatori, per la specifica (connessa) responsabilità penale amministrativa diretta in capo alle imprese e agli enti datoriali, riferita alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni colpose gravi o gravissime) cod. pen.

Ciò anche in considerazione di quanto previsto dall’art. 42, comma 2, del Cura Italia (D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), che equipara all’infortunio sul lavoro i casi accertati di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro, con corrispondente tutela assicurativa INAIL (Circolari 20 maggio 2020, n. 22 e 3 aprile 2020, n. 13), esponendo il datore di lavoro ai profili sanzionatori di natura penalistica per i reati già ricordati di lesioni e omicidio colposo. In questa prospettiva si muove Cass. pen., Sez. IV, 5 maggio 2020, n. 13575, la quale conferma la condanna in capo ad un amministratore unico di una società (ex art. 590, comma 3, cod. pen.), a causa di un grave infortunio sul lavoro, con irrogazione alla stessa società di sanzioni pecuniaria e interdittiva (ex art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001): l’addebito contestato all’amministratore unico, in quanto datore di lavoro, attiene alla violazione dell’art. 29, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 per il mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR), unitamente all’omesso adempimento degli obblighi di cui all’art. 77, comma 3, dello stesso D.Lgs. n. 81/2008, per non aver consegnato ai dipendenti i dispositivi di protezione individuali (DPI), in assenza dei quali, stante il tipo di lavorazione eseguita, si era determinato l’infortunio sul lavoro.

D’altro canto, nella tutela contro il rischio di contagio da Covid-19 si pone all’attenzione specificamente sotto i profili di responsabilità dell’impresa l’art. 29-bis del decreto Liquidità (D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito dalla legge 5 giugno 2020, n. 40), in base al quale il datore di lavoro «adempie all’obbligo previsto dall’art. 2087 cod. civ. applicando le «prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali (…) e negli altri protocolli e linee guida (…), nonché mediante l’adozione ed il mantenimento delle misure ivi previste».

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L’inserimento, nel sistema penalistico-amministrativo di una responsabilità diretta delle persone giuridiche, finisce per superare il principio, riassunto nel brocardo “societas delinquere non potest”, rispetto al quale soltanto la persona fisica può essere destinataria di un intervento afflittivo sanzionatorio per la commissione di un reato, secondo quanto appunto formalizzato nel citato art. 27 Cost., nel contesto dell’idea tradizionale che voleva, quindi, originariamente esonerare da qualsiasi forma di responsabilità penale l’ente collettivo.

Peraltro, la natura di tale responsabilità diretta dell’ente, che si aggiunge a quella penale della persona fisica autrice del reato, senza sostituirsi ad essa, è tuttora oggetto di ampio dibattito in dottrina, fra chi ne sostiene l’identità penalistica e chi, invece, propone una lettura di tipo amministrativo, a fronte di una analisi che consente di inquadrare questa accountability anche come un tertium genus di carattere penale e amministrativo al contempo.

A prescindere, comunque, dalla natura della responsabilità, il D.Lgs. n. 231/2001 ha avuto effetti dirompenti sulla concezione sanzionatoria imputabile in modo diretto all’ente collettivo, anche in considerazione del sistema punitivo introdotto dalla normativa, che si incentra su un modello di sanzioni determinate per quote, ai sensi dell’art. 10, senza alcuna previsione di riduzione delle sanzioni, che devono essere determinate in base ai criteri dettati dall’art. 11, salva l’operatività e la piena efficienza di un MOG.

L’art. 1, D.Lgs. n. 231/2001 identifica l’ambito soggettivo di applicazione della responsabilità degli enti collettivi per gli illeciti dipendenti da reato, individuando gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni, anche prive di personalità giuridica. Definizione, quindi, che deve ricomprendere anche: fondazioni; istituzioni, sempre di natura privata, che non svolgono attività economico-imprenditoriale; società di capitali e cooperative; enti privati senza personalità giuridica (società a base personale, associazioni non riconosciute, Enti del Terzo Settore).

In base al comma 3 della stessa disposizione, invece, sono esclusi dal D.Lgs. n. 231/2001 lo Stato, gli Enti pubblici territoriali, gli Enti pubblici non economici e gli Enti con funzioni di rilievo costituzionale, dovendosi, tuttavia, leggere in modo restrittivo tale esclusione, allo scopo di ricomprendere nel novero dei soggetti inclusi anche le società partecipate da Enti pubblici.

La responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi trova il suo ambito oggettivo di applicazione nell’elencazione dei reati presupposto, contenuti nella Sezione III del D.Lgs. n. 231/2001, i quali, ai sensi dell’art. 2 dello stesso decreto, devono intendersi individuati in modo tassativo (Cass. pen., S.U., 22 settembre 2011, n. 34476), nel rispetto del “principio di legalità”, per cui l’ente «non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto» (Cass. pen., Sez. VI, 12 aprile 2011, n. 14564; Guardia di Finanza, Circolare 19 marzo 2012, n. 83607).

L’elenco delle fattispecie di reato considerate, progressivamente inserite nel testo originario, si compone attualmente delle ipotesi individuate nei venti articoli dal 24 al 25-sexiesdecies, D.Lgs. n. 231/2001, catalogo da ultimo ampliato per effetto dell’art. 39 del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157 e dell’art. 5 del D.Lgs. 14 luglio 2020, n. 75.

I profili di rilevanza lavoristici toccano essenzialmente l’intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera (art. 603-bis cod. pen.), l’impiego dei lavoratori extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno (art. 22, comma 12-bis, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286: il riferimento è al datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno quando i lavoratori occupati sono in numero superiore a 3, oppure sono minori in età non lavorativa o ancora sono sottoposti alle condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui all’art. 603-bis cod. pen.) e, per quanto specificamente rileva la tutela dei lavoratori e la gestione degli ambienti di lavoro, anche ai fini della mancata corretta attuazione delle misure di protezione e prevenzione, dettate dai provvedimenti governativi a contrasto della pandemia da Covid-19, con riferimento alle conseguenze - in termini di omicidio colposo, lesioni colpose gravi o gravissime - per violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

D’altra parte, quale diretta derivazione del principio di legalità, l’art. 3, D.Lgs. n. 231/2001 stabilisce che l’ente «non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato» e così neppure quando per quel reato «non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’ente», in tali casi - a meno che non si tratti di leggi eccezionali o temporanee - quando è stata pronunciata la condanna, in virtù del principio del favor rei, ne cessano l’esecuzione e gli effetti giuridici; inoltre, in applicazione del medesimo principio di favorevolezza, se la legge del tempo in cui è stato commesso l’illecito e quella successiva sono diverse, deve essere applicata la normativa le cui disposizioni sono più favorevoli, ad eccezione dell’ipotesi che sia intervenuta una pronuncia irrevocabile.

In forza dell’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001, l’impresa è responsabile per i reati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio» da persone che:

- rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale (Cass. pen., Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615);

- esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente oppure sono sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti già indicati (Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2010, n. 27735).

Affinché la società possa essere perseguibile, quindi, per la responsabilità diretta, conseguente dai reati contemplati nel D.Lgs. n. 231/2001, questi devono essere commessi, esclusivamente a vantaggio dell’ente, da parte di soggetti aventi un determinato potere decisionale sull’intera soggettività collettiva, riconducibili ad organi di vertice individuati nello Statuto, oppure di persone che esercitano funzioni manageriali su una unità organizzativa, alla stregua di un institore o di un direttore di stabilimento, nonché di soggetti che esercitano di fatto poteri gestionali o di controllo ovvero, da ultimo, di loro sottoposti.

Appare chiaro come la figura esercitante un potere volitivo, incarnando uno dei centri decisionali degli ambiti di gestione dell’ente collettivo, va intesa in senso allargato, in quanto non coinvolge esclusivamente il legale rappresentante, l’amministratore o i componenti del board, ma si estende anche a soggetti subordinati, dotati comunque di un potere decisorio, idoneo ad indirizzare le policy di gestione, ciascuno nel contesto proprio delle funzioni assegnate ed esercitate.

D’altra parte, in base alle previsioni contenute nell’art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, l’ente è responsabile del reato commesso dai soggetti sottoposti all’altrui direzione, se la commissione dell’illecito penale è stata resa possibile «dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza»; tuttavia, non può essere chiamato a rispondere dell’illecito, quando le persone individuate hanno tenuto la condotta antidoverosa «nell’interesse esclusivo proprio o di terzi».

La Suprema Corte (Cass. pen., S.U., 18 settembre 2014, n. 38343) nel valutare i criteri di imputazione oggettiva ora richiamati, con specifico riferimento ai concetti di «interesse» e «vantaggio», evidenzia come essi debbano intendersi riferiti alla condotta e non all’evento e considerarsi «alternativi e concorrenti tra loro» (Cass. pen., Sez. V, 4 marzo 2014, n. 10265; Cass. pen., Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615), specificando altresì che:

- il criterio dell’interesse è espressione di una dimensione teleologica del reato, che può apprezzarsi ex ante, già al momento della commissione del fatto, con giudizio soggettivo;

-il criterio del vantaggio è al contrario connotato in modo sostanzialmente oggettivo, in quanto valutabile soltanto ex post, in considerazione degli effetti derivati in concreto dalla realizzazione dell’illecito.

Al contrario, l’ente è esonerato da responsabilità da reato, se l’autore ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, in quanto, secondo la giurisprudenza (Cass. pen., Sez. I, 29 ottobre 2015, n. 43689), da tale condotta si determina «il venir meno dello schema di immedesimazione organica e l’illecito commesso, pur tornando a vantaggio dell’ente, non può più ritenersi come fatto suo proprio, ma un vantaggio fortuito, non attribuibile alla volontà della persona giuridica».

Permane, invece, la responsabilità dell’ente, anche se l’autore del reato presupposto ha agito per un interesse prevalentemente proprio o personale, nel caso in cui il soggetto collettivo non ne abbia ricavato alcun vantaggio o ne sia derivato per esso un vantaggio ancorché minimo (art. 12, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001, che prevede per tale fattispecie un’ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria; Cass. pen., Sez. VI, 6 dicembre 2018, n. 54640).

D’altro canto, la normativa riconosce la piena autonomia della responsabilità dell’ente (Cass. pen., Sez. IV, 9 agosto 2018, n. 38363), secondo quanto previsto dall’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, in ragione del quale la responsabilità del soggetto collettivo sussiste anche nei casi in cui l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile (lett. a) oppure quando il reato si estingue per una causa differente dall’amnistia (lett. b). Il comma 2 dello stesso art. 8, tranne per l’ipotesi in cui la legge disponga in modo differente, sancisce che non si può procedere nei confronti dell’ente se viene concessa l’amnistia per un reato presupposto, quando l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione, anche se l’ente può a sua volta rinunciarvi.

Il Modello di organizzazione e gestione (MOG) muove dall’analisi del contesto operativo dell’ente, fondandosi su una piena conoscenza, su una esatta percezione e su una corretta identificazione dei processi e delle attività, anche in ottica di risk assessment, allo scopo di definire il sistema di organizzazione, di gestione e di controllo con riferimento ai principali atti negoziali, di maggiore rilevanza, conclusi dall’azienda nelle aree a rischio.

L’individuazione e la descrizione dei processi e delle attività includono, fra l’altro, la corporate governance, la gestione delle risorse umane, anche sotto i profili della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (art. 30, D.Lgs. n. 81/2008; D.M. 13 febbraio 2014).

La valenza del MOG è contenuta nell’art. 6, D.Lgs. n. 231/2001, il quale al comma 1 stabilisce le condizioni per le quali l’ente collettivo non risponde di alcun illecito, quando il reato è stato commesso da organi di vertice individuati nello Statuto che dirigono o rappresentano l’ente, persone che esercitano funzioni manageriali su una unità organizzativa, soggetti che esercitano di fatto poteri gestionali o di controllo o da loro sottoposti.

Precisamente la norma sancisce che l’ente non risponde quando riesce a provare le seguenti circostanze:

- l’organo dirigente, prima della commissione del fatto, ha adottato e attuato efficacemente modelli di organizzazione e di gestione (MOG) idonei a prevenire reati della stessa specie di quello accertato;

- un apposito Organismo di Vigilanza (OdV) dotato di poteri autonomi di iniziativa e di controllo (Cass. pen., Sez. II, 9 dicembre 2016, n. 52316) ha avuto assegnato il compito di verificare e sindacare il funzionamento e l’osservanza dei MOG, nonché di curare il loro aggiornamento e adeguamento;

- coloro che hanno commesso il reato hanno agito in frode ai MOG (Cass. pen., Sez. V, 30 gennaio 2014, n. 4677);

- l’OdV non ha omesso la vigilanza sul MOG né l’ha attuata in modo non sufficiente.

I MOG, secondo le previsioni contenute nell’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, devono rispondere, in modalità “sartoriale” alle specifiche esigenze, anche in base alla effettiva ampiezza dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, finalizzate a procedimentalizzare le decisioni degli organi di vertice, e precisamente:

- individuare le attività e le aree nelle quali possono essere commessi reati;

- prevedere protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in base alla prevenzione dei reati;

- individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee e adeguate a impedire la commissione dei reati;

- prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’OdV circa il funzionamento e l’osservanza dei MOG stessi;

- introdurre un adeguato sistema disciplinare che abbia sicura idoneità a sanzionare in modo efficace il mancato rispetto delle misure evidenziate nei MOG.

Struttura e contenuti del MOG

Parte GeneraleOrganigramma, funzionigramma, mansionario Suddivisione e matrice delle responsabilità Organizzazione delle varie funzioni aziendali Struttura per processi Flussi informativi
Analisi dei rischi
Procedure gestionali
Procedure di controllo
Organismo di Vigilanza: procedure di nomina; qualità, competenze e conoscenze; obiettivi, compiti, funzioni e poteri assegnati; procedure di gestione dei flussi informativi, individuazione del budget a copertura delle spese, modalità di revoca; condizioni di cessazione dell’incarico
Parte SpecialeAnalisi delle singole fattispecie di reato
Principi di comportamento
Sistemi di controllo interno
Codice EticoSistema disciplinare
Sistema sanzionatorio

In particolare, in ragione dell’art. 6, comma 2-bis, D.Lgs. n. 231/2001, i MOG devono prevedere:

- uno o più canali che - garantendo la riservatezza dell’identità del segnalante (whistleblowing) - permettano agli organi di vertice che dirigono o rappresentano l’ente, alle persone che esercitano funzioni manageriali su un’unità organizzativa, ai soggetti che esercitano poteri gestionali o di controllo, ai loro sottoposti, di presentare segnalazioni circostanziate, a tutela dell’integrità dell’ente collettivo, su fatti di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte, relativi a: condotte illecite (rilevanti ai sensi del sistema sanzionatorio delineato dal D.Lgs. n. 231/2001), fondate su elementi di fatto precisi e concordanti; violazioni del MOG;

- almeno un canale alternativo per le segnalazioni, con modalità informatiche, che sia idoneo a garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;

- il divieto di atti e provvedimenti ritorsivi o discriminatori, di tipo diretto o indiretto, nei riguardi del segnalante per motivi collegati alla segnalazione, anche solo indirettamente;

- apposite sanzioni, in seno al sistema disciplinare, per chiunque viola le misure di tutela del segnalante e per chi effettua segnalazioni infondate con dolo o colpa grave.

Gli eventuali atti e provvedimenti discriminatori, a danno dei soggetti che effettuano le segnalazioni, può essere denunciata, dal segnalante o dall’organizzazione sindacale dallo stesso individuata, all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, perché esercitando le funzioni e i poteri di propria competenza, intervenga a tutela del discriminato (art. 6, comma 2-ter, D.Lgs. n. 231/2001).

Si prevede, inoltre, la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante, così come quella del provvedimento di modifica delle mansioni dello stesso (ex art. 2103 cod. civ.), nonché di ogni altra azione di tipo ritorsivo o discriminatorio, che sia stata adottata nei confronti del segnalante medesimo (art. 6, comma 2-quater, primo e secondo periodo, D.Lgs. n. 231/2001).

Viene poi previsto quale onere del datore di lavoro dimostrare che le misure organizzative e gestionali, adottate nei confronti del segnalante, sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione, nel contesto di controversie conseguenti all’irrogazione di sanzioni disciplinari, oppure a demansionamento, licenziamento, trasferimento, o ancora ad altra misura organizzativa con effetti negativi sulle condizioni di lavoro del segnalante, che siano stati successivi alla presentazione della segnalazione (art. 6, comma 2-quater, ultimo periodo, D.Lgs. n. 231/2001).

Secondo il comma 3 dell’art. 6, D.Lgs. n. 231/2001, i MOG possono essere adottati anche sulla scorta di codici di comportamento.

Con riferimento agli enti di minori dimensioni si stabilisce che i compiti dell’OdV possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente (art. 6, comma 4, D.Lgs. n. 231/2001), mentre nelle società di capitali le funzioni dell’Organismo di Vigilanza possono essere svolte dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza o dal comitato per il controllo della gestione (art. 6, comma 4-bis, D.Lgs. n. 231/2001).

D’altra parte, si rammenta, che nei confronti dell’ente collettivo viene disposta, in ogni caso, la confisca (anche per equivalente) del profitto che l’ente stesso ha tratto dal reato (art. 6, comma 5, D.Lgs. n. 231/2001).

Si segnala che qualora il reato sia commesso da un lavoratore soggetto alla direzione o alla vigilanza (dei vertici, dei manager, dei dirigenti), l’ente è responsabile nei casi in cui la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza (art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001).

Inoltre, sul piano della funzionalità e dell’efficacia del MOG, quale scudo rispetto alle responsabilità dirette dell’ente collettivo, rileva l’art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, secondo cui va esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza in tutti i casi in cui, prima della commissione del reato, l’ente abbia adottato e attuato in modo efficace un modello di organizzazione, gestione e controllo che sia idoneo a prevenire reati della stessa specie.

Si prevede anche che il MOG deve contenere strumenti idonei ad assicurare lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, oltre a consentire la scoperta e l’eliminazione tempestiva di situazioni di rischio, a seconda della natura e delle dimensioni dell’organizzazione analizzata, oltreché del tipo di attività svolta dall’ente.

Infine, il D.Lgs. n. 231/2001 stabilisce che il MOG può dirsi efficacemente attuato se prevede e garantisce:

- una verifica periodica del modello, con eventuale aggiornamento o adeguamento, a fronte di violazioni delle prescrizioni o dell’intervento di modifiche organizzative o mutamento dell’attività;

- un sistema disciplinare che sia effettivamente idoneo a sanzionare la violazione delle misure previste dal MOG.

GIP Tribunale di Milano - Ordinanza 9 novembre 2004
«Il modello deve dunque prevedere, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio. Deve subito sottolinearsi che le scelte organizzative dell’impresa sono proprie dell’imprenditore. Il D.Lgs. n. 231/2001 non può dunque essere interpretato nel senso di una intromissione giudiziaria nelle scelte organizzative dell’impresa, ma nel senso di una necessaria verifica di compatibilità di queste scelte con i criteri di cui al D.Lgs. n. 231/2001. (…) I modelli - in quanto strumenti organizzativi della vita dell’ente - devono qualificarsi per la loro concreta e specifica efficacia e per la loro dinamicità; essi devono scaturire da una visione realistica ed economica dei fenomeni aziendali e non esclusivamente giuridico-formale. (…) La rilevanza di un idoneo modello organizzativo è estrema: il modello infatti è criterio di esclusione della responsabilità dell’ente ex art. 6, comma 1, ed ex art. 7; è criterio di riduzione della sanzione pecuniaria ex art. 12; consente, in presenza di altre condizioni normativamente previste, la non applicazione di sanzioni interdittive ex art. 17 (…). Il modello peraltro potrà determinare questi effetti favorevoli nei confronti dell’ente solo ove lo stesso sia concretamente idoneo a prevenire la commissione di reati nell’ambito dell’ente per il quale è stato elaborato; il modello dovrà dunque essere concreto, efficace e dinamico, cioè tale da seguire i cambiamenti dell’ente cui si riferisce. La necessaria concretezza del modello, infatti, ne determinerà ovviamente necessità di aggiornamento parallele all’evolversi ed al modificarsi della struttura del rischio di commissione di illeciti».

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Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/11/05/responsabilita-231-vantaggi-modello-organizzativo-efficiente

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