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Archivio newsDivieto di licenziamento. Alle aziende (e ai lavoratori) serve altro
Nel timore che, nell’immediato, la pandemia potesse generare un numero indiscriminato di licenziamenti, il legislatore dell’emergenza ha vietato alle imprese di licenziare i dipendenti fino al 31 gennaio 2021, termine che la legge di Bilancio 2021 proroga al 31 marzo 2021. Il blocco, che riguarda i licenziamenti individuali e collettivi fondati su motivi economici, non potrà durare in eterno e non fa altro che gravare ulteriormente una situazione produttiva ed economica, oltre che sociale, già compromessa. Se nulla verrà fatto per gestire con programmi e progetti di vera politica attiva (e non di semplici “incentivi”) l’impatto degli esuberi strutturali nelle imprese, questo limbo produrrà solo danni. Perché?
Al fine di evitare che nell’immediato la pandemia potesse generare un numero indiscriminato di licenziamenti, il legislatore dell’emergenza ha emanato dei provvedimenti che hanno introdotto prima e prorogato poi al 31 gennaio 2021 il divieto di licenziamenti individuali e collettivi fondati su motivi economici.
In pari tempo, le procedure di licenziamento collettivo avviate dopo il 23 febbraio u.s. e - per spirito di interpretazione “sensata” - anche quelle avviate e non concluse prima della medesima data.
La sanzione che accompagna i licenziamenti irrogati in violazione di tale divieto è la nullità con la conseguente reintegrazione del lavoratore licenziato.
Occorre subito evidenziare come gli “eventuali” licenziamenti intimati in ragione del Covid-19 avrebbero tratto la causale principalmente dai provvedimenti che il medesimo legislatore dell’emergenza aveva ed avrebbe poi emanato in tema di “gestione” della vicenda con riferimento al blocco delle “attività”.
Detto questo, dal punto di vista tecnico giuridico credo sia assolutamente inutile indagare oltre sul provvedimento, mi riferisco alla questione circa la “dubbia” legittimità costituzionale ed altro: questo perché sono questioni afferenti alla “dottrina” e non certo i comportamenti imprenditoriali e non da tenersi nell’immediato.
Il divieto di licenziamento (che va a istituire, da un punto di vista giuridico, una rigorosa “regola di validità” sanzionabile con rimedi di natura proprietaria, connotando di nullità il licenziamento che fosse intimato in violazione di siffatto divieto) è la soluzione tecnica che, nelle intenzioni originarie del legislatore, andava a controbilanciare lo sforzo economico per finanziare gli ammortizzatori sociali: nessuno avrebbe perso il posto di lavoro a causa del COVID, perché l’INPS si sarebbe fatto carico, in questa delicatissima congiuntura emergenziale, di sostenere i costi del personale sospeso.
L’impianto originario si è poi protratto nel corso dei mesi, con una tecnica legislativa basata sostanzialmente sulla proroga delle misure originarie.
Il risultato è davanti a tutti noi anche se facciamo finta di non vederlo: siamo in un momento storico delicatissimo dal punto di vista economico, finanziario, sociale e politico.
Come si traduce tutto questo nel contesto legislativo? Produzione di “divieti”.
Se per un attimo isolassimo il provvedimento di “blocco dei licenziamenti” credo che nessuno potrebbe apprezzarne alcun valore.
Il blocco - che non potrà durare in eterno - non fa altro che ulteriormente gravare una situazione socio-economica già compromessa. Sotto il profilo “professionale” il “divieto” lo si vive come unica ragione di salvaguardia dell’occupazione ... in assenza della quale il futuro dell’individuo pare già segnato.
Sotto il profilo “imprenditoriale”, ancorché accompagnato da più o meno vari aiuti, il blocco impedisce la programmazione gestionale, comprime la libertà di impresa, non consente di immaginare “azioni organizzative”.
Dal punto di vista “sociale” il divieto crea “vite lavorative sospese” ...non certo tranquille e sicure come si vorrebbe far credere. Il blocco dei licenziamenti, peraltro imposto in modo sostanzialmente indistinto (salvo interpretazioni che, seppur apprezzabili sotto il profilo tecnico-giuridico, sono allo stato considerate minoritarie e sulle quali le aziende certo non possono fare affidamento), crea una prospettiva di vita professionale “alla giornata”.
Quali politiche industriali? Quali politiche attive?
Il diritto alla salute - unanimemente evocato a controbilanciare le istanze di ripartenza - è di rango costituzionale, al pari tuttavia del diritto al lavoro e della libertà di impresa; bisognerebbe chiedersi se nel (doveroso) bilanciamento, questi ultimi debbano necessariamente cedere al primo, posto che il diritto pieno alla salute nel corso di una pandemia non lo si deve probabilmente né tutelare né garantire, semplicemente perché è un obiettivo irraggiungibile.
Diverso sarebbe costruire quotidianamente un sistema di servizi che possano garantire al meglio la salvaguardia di un diritto senza che ciò determini il sacrificio “autoritario” di altri diritti.
Dirò ancora di più. Se nulla vien fatto da qui in avanti al fine di gestire positivamente con programmi e progetti di vera politica attiva, l’impatto di esuberi “strutturali” che sono maturati nelle imprese, questo limbo sarà servito solo (i) ad incrementare il numero di essi (ii) a creare e fomentare odio sociale (iii) ad irrigidire le relazioni industriali e creare un preoccupante disagio sociale e sindacale.
Nel medesimo senso credo che le politiche degli “incentivi” alle imprese sia un altro errore; incentivare cosa? Nel nostro Paese si tenta di risolvere tutto con “scontri”, “saldi”, “decontribuzioni”, etc... E non si va mai alla radice del problema.
Eppure le soluzioni tecniche ci sarebbero…