News
Archivio newsVerso la riforma delle pensioni. Per rispondere (anche) alle esigenze delle imprese
Dal 1° gennaio 2022 cesserà di produrre effetti il regime di pensionamento sperimentale, quota 100. Si stanno vagliando varie ipotesi di intervento per evitare il repentino innalzamento delle condizioni di accesso alla pensione. Sono due i principali fattori che vanno considerati. La composizione della popolazione che risente di un numero di nuovi nati in discesa e un numero di lavoratori occupati, che, ormai da venti anni, è particolarmente basso. Il Governo si dovrà impegnare puntando sullo sviluppo dell’occupazione, in particolare nelle fasce in forte sofferenza (giovani e donne), facilitando le imprese. Come?
Uno dei prossimi nodi che il Governo sarà chiamato ad affrontare riguarda l’eventuale prolungamento del regime di pensionamento sperimentale, introdotto nel gennaio 2019 per una durata di tre anni, e noto con il nome di “quota 100”. Dal 1° gennaio 2022, infatti, quel sistema cesserà di produrre i suoi effetti, lasciando solo due possibilità di uscita dal sistema agli italiani: o il pensionamento di vecchiaia, a 67 anni di età, oppure quello di anzianità dopo 42 anni e 10 mesi di effettivo lavoro (ma per le lavoratrici basta un anno meno).
Seppure non dovrebbero essere modificate le ipotesi correlate allo svolgimento di mansioni usuranti (e forse anche si può sperare nel prolungamento della c.d. Opzione donna), resta che il sistema potrebbe conoscere alla data del 31 dicembre 2021 una rilevante modifica, con un repentino innalzamento delle condizioni di accesso alla pensione. Ed è per questo motivo che, in sede tecnica, si stanno vagliando varie ipotesi di intervento, anche alla luce delle proiezioni che la Ragioneria generale dello Stato ha effettuato nel luglio del 2020, in vista della legge di Bilancio 2021.
In quella sede, pur nell’incertezza della situazione del momento, già si sono messe in evidenza le possibili opzioni che si offrono al Paese.
Ed infatti, si deve rilevare come la necessità di continui interventi sulla disciplina delle pensioni nasce da una serie di caratteristiche che restringono enormemente gli spazi lasciati alla discrezionalità del Parlamento, imponendo invece una valutazione prevalentemente tecnica.
Il primo dato, di cui ogni sistema deve tenere conto, infatti, è la composizione della popolazione per classi di età e le possibili modifiche del dato demografico nel tempo. A riguardo, le situazioni sono abbastanza differenziate, anche solo a guardare ai Paesi europei a noi più vicini, perché il tasso di natalità varia fortemente, al pari dell’aspettativa di vita media. Così, mentre in Francia il numero di bambini che viene al mondo è particolarmente elevato, l’Italia conosce invece un tasso di natalità che, in percentuale, è sicuramente fra i più bassi al mondo. Se poi si tiene conto del fatto che gli italiani in media hanno vite fra le più lunghe in assoluto nel mondo, ci si renderà conto del fatto che la popolazione italiana si avvia ad essere composta per una gran parte da vecchi. Si tratta di un fenomeno non nuovo, ed anzi oramai profondamente radicato, poiché dopo il 1965 il numero dei nuovi nati è costantemente in discesa: situazione che dovrebbe oramai essere nota a tutti dopo che il recente piano vaccinale ha individuato la popolazione a rischio nell’enorme numero di ultraottantenni.
Secondo le stime demografiche, nel lungo periodo si dovrebbe registrare quindi un ridimensionamento della stessa popolazione totale (che si stima dovrebbe ridursi dagli attuali poco più di 60 milioni a circa 54 milioni nel prossimo mezzo secolo, secondo i dati del MEF prima citati). E tanto anche a ragione del fatto che l’apporto al numero complessivo degli abitanti che deriva dall’immigrazione è in forte contrazione, sia perché si riduce il numero di quanti si stabiliscono in Italia, sia perché si assiste anche in questa fascia di popolazione ad una riduzione del numero medio dei figli per coppia, rispetto al dato registrato nei paesi di origine.
È chiaro che in un panorama di questo tipo, il primo problema è quello di dover assicurare un equilibrio fra la quota di popolazione attiva e quella in pensione.
Il nostro sistema pensionistico, infatti, non è mai riuscito ad accantonare riserve da utilizzare in periodi di difficoltà, con il risultato che è solo grazie all’intervento dello Stato che l’INPS può garantire ogni anno il pareggio di bilancio. Né la situazione è destinata a migliorare a breve, poiché, essendo nota la composizione attuale della popolazione, non è difficile prevedere quale possa essere l’andamento dei conti nei prossimi anni (tanto che la legge Fornero ha imposto l’elaborazione di bilanci tecnici capaci di proiettarsi su un arco temporale futuro di cinquanta anni).
In questa prospettiva, il passaggio operato dalla riforma Dini-Treu del 1995 dal sistema della pensione retributiva (calcolata in percentuale sulla base della retribuzione degli ultimi anni) a quella contributiva (che, al contrario, prende a riferimento solo l’importo dei contributi versati) consente senza eccessive difficoltà di stimare il costo delle pensioni che verranno in pagamento nei prossimi anni.
Poiché, però, il regime di finanziamento del sistema rimane “a ripartizione”, per quel che riguarda i flussi di cassa, l’INPS è chiamata a garantire il costante equilibrio fra le entrate e le uscite, di modo che si deve instaurare una precisa correlazione fra le somme che vengono annualmente versate dalle imprese a titolo di contributi (inclusa la quota trattenuta ai lavoratori) e l’ammontare complessivo delle pensioni erogate (mentre è solo una certa parte che rimane a carico del bilancio pubblico, in relazione a prestazioni aventi carattere sostanzialmente assistenziale, come per es. il reddito e la pensione di cittadinanza, nonché i trattamenti per i superstiti).
Ed è proprio al fine di garantire questo equilibrio “di cassa”, inteso a non incrementare la quota del bilancio che viene sostenuta dalla fiscalità generale, che negli ultimi venti anni si è proceduto a continue modifiche dei requisiti per l’accesso al pensionamento (per es. negli anni 2004, 2007, 2011, 2019, per ricordare solo gli interventi più importanti).
Si tratta, in verità, di dati noti da tempo e che spaventano chiunque perché sembrerebbero lasciare davvero poco spazio alle scelte delle future maggioranze, quasi condannando il Governo all’irrilevanza, se non fosse per il fatto che non si è ancora esaminata l’ultima variante che incide sugli equilibri previdenziali.
Si deve tenere conto, infatti, che il volume complessivo del finanziamento che l’INPS riceve dalle imprese è fortemente condizionato dal numero dei lavoratori occupati, che, oramai da venti anni, è particolarmente basso, tanto che si assesta a circa un terzo della popolazione totale (prima della diffusione della pandemia, si trattava di circa 23 milioni di lavoratori attivi, di cui almeno un quarto autonomi).
È questo il dato sul quale il Governo si dovrà impegnare di più, sia facendo emergere quella parte di occupazione (stimata in almeno 4 milioni di unità) che rimane (totalmente o parzialmente) nell’ombra, perché non dichiarata, sia puntando molto sullo sviluppo dell’occupazione nelle fasce per adesso in forte sofferenza: giovani e donne. Ma per ottenere un risultato di questo tipo non necessitano solo modifiche della normativa, c’è bisogno invece di procedure più semplici e dirette che consentano ad es. di poter denunziare in forma elettronica tutte le vicende relative al rapporto di lavoro, la raccolta in maniera semplice ed unitaria dei contributi, l’adozione di forme semplificate e trasparenti per la instaurazione di rapporti di lavoro di breve durata.
Ed ancora: il Paese ha grande bisogno che si sviluppino i servizi di collocamento o, come si suol dire con espressione più moderna, di intermediazione fra offerta e domanda di lavoro, capaci di dar vita ad un sistema che descriva le competenze del singolo e che sappia incrociare in maniera efficiente e veloce le esigenze delle imprese con le professionalità di quanti cercano lavoro, anche al costo di imporre mirati ed efficienti percorsi di riqualificazione professionale.