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Archivio newsDivieto di licenziamento: quali strategie adottare per prepararsi allo sblocco
Dal prossimo 1° aprile potrebbe non essere più applicabile il divieto di effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti collettivi. Con ogni probabilità sarà prevista un’ultima proroga in combinato disposto con il prolungamento della cassa integrazione COVID-19 secondo percorsi differenziati in base ai diversi settori produttivi. Le aziende devono però iniziare a prepararsi studiando una strategia che consenta, da un lato, di ridurre i costi e dall'altro di proteggere i lavoratori. D’altro canto anche il Governo dovrebbe adoperarsi per affrontare lo “tsunami” di risoluzioni del rapporto di lavoro che potrebbero realizzarsi una volta terminato il blocco dei licenziamenti. Come?
Il blocco dei licenziamenti non durerà per sempre. Ad oggi, il divieto di predisporre licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti collettivi è vigente sino al 31 marzo ma, probabilmente – anche secondo le indiscrezioni che provengono dal Ministero del lavoro - sarà prevista un’ultima proroga, sempre collegata alla proroga degli ammortizzatori COVID-19. Infatti, anche la cassa integrazione sembra che sarà a sua volta prorogata oltre la scadenza prevista dalla legge di Bilancio per il 2021. Detta proroga, a differenza di quello che è stato finora contemplato, prevederà percorsi differenziati a seconda dei diversi settori produttivi e del diverso impatto che la pandemia ha avuto su di essi. Parliamo, principalmente, dei settori del commercio, dello spettacolo, del turismo e di altri comparti produttivi che hanno subìto una importante riduzione del fatturato in questi mesi.
Per parlare di ritorno ad una auspicata normalità, con ogni probabilità si dovrà aspettare quanto meno il 2022. E prima di ciò le aziende tenteranno di ricollocarsi sui mercati cercando di riprendere quella competitività persa in questi mesi di attività ridotta. Ciò comporterà un riposizionamento anche da un punto di vista numerico dei lavoratori presenti in azienda e questo avverrà con l’uso dei licenziamenti, la cui evidenza è palese e incontrovertibile.
Va creata una strategia che consenta, da un lato, di ridurre i costi e dall'altro di proteggere i lavoratori.
L’economista austriaco, Peter F. Drucker, disse che “l’azienda ha due funzioni fondamentali: il marketing e l’innovazione. Il marketing e l’innovazione producono risultati: tutto il resto sono costi”. Ma il marketing e l’innovazione sono realizzati dai lavoratori, che sono la principale risorsa che l’azienda abbia per differenziarsi.
Detto ciò, vediamo quali strategia dovrebbe mettere in campo lo Stato per affrontare lo “tsunami” di risoluzioni che potrebbero realizzarsi una volta terminato il blocco dei licenziamenti.
Innanzitutto, va effettuato un controllo per appurare che i licenziamenti siano effettuati coerentemente con le necessità oggettive di revisione degli organici, in relazione al fabbisogno produttivo e non per “liberarsi” di quei lavoratori che non sono allineati con il pensiero aziendale.
Sempre su questo punto, andrebbero migliorate e potenziate le procedure di conciliazione stragiudiziale, al fine di aiutare le parti a trovare accordi condivisi che possano evitare contenziosi futuri, prevedendo, altresì, aiuti alla ricollocazione e specifici scivoli pensionistici.
Inoltre, andrebbe aggiornato il diritto di precedenza, previsto dall’articolo 5, comma 6, della legge n. 264/1949, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Detto diritto dispone l’obbligo, da parte dell’azienda, in caso di assunzione a tempo indeterminato, di preferire i lavoratori che sono stati licenziati, per motivi oggettivi, nei 6 mesi precedenti. Molti sono, ad oggi, i punti oscuri di questa disposizione. Per quanto riguarda l’ambito di operatività del diritto di precedenza, la giurisprudenza prevalente ritiene che il diritto operi con riguardo allo svolgimento della medesima mansione. L’aggiornamento normativo dovrebbe andare a chiarire proprio l’aspetto legato alle mansioni, andando ad aggiornarlo con le specifiche previste dal nuovo articolo 2103 c.c. (così come modificato dal decreto legislativo n. 81/2015), allorquando si parla di “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Inoltre, il diritto di precedenza dovrebbe essere sottratto da eventuali accordo conciliativi che prevedono, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro e dell’erogazione di un incentivo, anche la rinuncia al diritto da parte del lavoratore o, quanto meno, a fronte della rinuncia alla riassunzione, prevedere una indennità minima rapportata agli anni di servizio finora prestati dal lavoratore.
D’altra parte, per limitare le “uscite” dei lavoratori, in questo periodo di contrazione dei mercati e quindi della produzione, potrebbe essere il caso di potenziare l’orario multi-periodale (previsto dal secondo comma dell’articolo 3, del decreto legislativo 66/2003) che dispone la possibilità di rivedere l’orario settimanale, da parte della contrattazione collettiva (anche aziendale), andandolo a ridurre in determinati periodi dell’anno, ove vi sia un calo della produzione, per poi aumentarlo nei momenti di picco produttivo, lasciando altresì inalterata la retribuzione per l’intero periodo.
Sempre per limitare i licenziamenti, potrebbe essere il caso di potenziare quanto previsto dall’articolo 8, comma 3, della legge n. 236/1993 (di conversione del decreto legge n. 148/1993) e cioè la possibilità di condividere la forza lavoro da parte di aziende con un surplus temporaneo di lavoratori verso aziende con carenza di manodopera. La condivisione della forza lavoro non cambierebbe il rapporto di lavoro, ma avverrebbe attraverso un distacco finalizzato ad evitare riduzioni di personale.
Un altro intervento dovrebbe riguardare la riduzione generale del costo del lavoro, attraverso una diminuzione iniziale della contribuzione, per tutti i rapporti di lavoro stabili. Questo dovrebbe avvenire attraverso la cancellazione delle tante agevolazioni contributive oggi presenti (alcune delle quali ridondanti e poco utilizzate), al fine di accorpare le dotazioni economiche in un’unica agevolazione onnicomprensiva, che preveda una decontribuzione generalizzata in caso di assunzione (o trasformazione) a tempo indeterminato ed il successivo mantenimento in servizio del lavoratore per un arco temporale minimo.
In particolare, tra gli incentivi da riformare, c’è anche l’ultimo nato (l’agevolazione “under 36”), soprattutto nella parte che prevede la fruizione dell’incentivo esclusivamente qualora l’assunzione stabile avvenga con soggetti che non abbiano mai avuto un pregresso rapporto di lavoro a tempo indeterminato. È anacronistico, da un lato aumentare l’età dei lavoratori, possibili fruitori dell’agevolazione, e dall’altro pretendere che questi siano ancora alla ricerca di un primo rapporto a tempo indeterminato per fornire l’agevolazione.
Un quarto intervento passa per una maggiore flessibilità spazio/temporale dei contratti di lavoro subordinato. Il decreto Dignità non ha raggiunto gli obiettivi auspicati dal Governo; in particolare, non vi è stato quell’aumento di contratti a tempo indeterminato dovuti all’inasprimento delle regole sui contratti a termine. Rendiamoci conto come lo stesso Governo che ha introdotto le causali nel 2018, con il decreto Dignità, oggi dispone una norma che, per consentire alle aziende di prorogare e rinnovare i contratti a tempo determinato, esclude le causali, quasi a dichiarare che le causali possono essere motivo per il mancato rinnovo e proroga dei contratti. Con questa disposizione, prevista nel decreto Rilancio e poi successivamente prorogata sino al 31 marzo 2021 (v. legge di Bilancio 2021), di fatto il Governo dichiara il fallimento delle causali e cioè l’obbligo di indicare un motivo all’avvio del rapporto a termine che, per come è stato realizzato, risulta di intralcio alla continuità del rapporto stesso.
Ritengo che il Governo si debba interrogare sulla validità di un limite (obbligo di indicare la causale) che nei fatti disincentiva l’occupazione.
Sul tema, permettetemi un parere personale: andrebbero riviste le regole sui contratti a termine, perché sono troppe e si ripercuotono negativamente non solo sull’azienda, con un aumento indiretto del costo del lavoro, ma anche sul lavoratore in termini di durata media dei rapporti di lavoro.
Andrebbero lasciate soltanto le seguenti regole:
· Durata massima (per dare un limite all’utilizzo dei contratti a termine per singolo lavoratore),
· Percentuale massima (una azienda non può funzionare con soli contratti a termine)
· Diritto di precedenza (se il lavoratore ha prestato la propria attività all’interno di una azienda per un periodo medio lungo deve avere la precedenza sui contatti a tempo indeterminato).
Aggiungendo una quarta regola: se l’azienda vuole continuare con il contratto a termine (sempre nel limite di durata massima) e non stabilizzare il lavoratore, deve “risarcire” la precarietà del rapporto, pagandolo di più, attraverso una maggiorazione retributiva.
In generale, le aziende assumono lavoratori a tempo indeterminato essenzialmente per due motivazioni: perché vi è un’ottica dei mercati a lungo termine e perché quei lavoratori hanno una professionalità che può far crescere l’azienda stessa. E questo porta ad evidenziare un ulteriore ambito di intervento: la formazione. Lo Stato deve incentivare la formazione dei lavoratori, prevedendo una riduzione stabile del costo delle ore dedicate alla crescita professionale.
La vera lotta, oltre al lavoro irregolare, lo Stato dovrebbe farla all’outsourcing estremo. Agli appalti non genuini che in luogo di erogare servizi offrono manodopera a prezzi ridotti, andando a lucrare essenzialmente sul costo del lavoro e creando una concorrenza sleale.
Un ultimo punto, nell’agenda del Governo, dovrebbe riguardare la riforma complessiva delle politiche attive. Una riforma che sia realmente capace di effettuare quell’incontro domanda/offerta di lavoro auspicato dalle parti sociali, attraverso un reale potenziamento dei centri per l’impiego ed un effettivo accompagnamento del lavoratore alla ricollocazione dopo un licenziamento.
Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza