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Archivio newsSindacato escluso dalla responsabilità 231: una scelta da ripensare?
Si discute molto, recentemente, della possibile esclusione dal campo di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti per illeciti amministrativi di alcuni specifici enti, tra i quali anche i sindacati, e delle ripercussioni sistematiche e più generali di questa scelta nel nostro ordinamento. Ne consegue l’analisi delle ragioni della cautela espressa dal legislatore rispetto a tale esclusione, ma anche della difficoltà di armonizzare la possibile esclusione con la responsabilità riconosciuta, invece, in capo a tutti gli altri enti datori di lavoro.
Tra gli “enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale” (art. 39, Costituzione), il sindacato - unitamente ai partiti politici - è considerato, fin dalla Relazione illustrativa, non soggetto alla normativa che disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (D.Lgs. n. 231/2001).
Questa esclusione implica che il sindacato non soggiace alla responsabilità “da reato”, non commette gli illeciti amministrativi ivi previsti e non incorre nelle sanzioni stabilite dal sistema 231.
Esclusione dalla responsabilità da reato: finalità
La ratio è quella di evitare che provvedimenti giurisdizionali applicativi di misure cautelari e di sanzioni interferiscano con l’adempimento delle funzioni di rilievo costituzionale: si pensi, a titolo esemplificativo, alla “interdizione dall’esercizio dell’attività” [art. 9, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001] applicata “per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno” all’ente datore di lavoro responsabile per un omicidio colposo da violazione della normativa antinfortunistica (queste sarebbero le sanzioni previste dall’art. 25 septies dello stesso decreto).
Il mero ipotizzare un sindacato (o un partito) escluso in via giudiziaria dallo svolgimento del ruolo che ne giustifica l’esistenza, appare oggettivamente inaccettabile anche senza voler fare dietrologia e cioè pensare a una strumentalizzazione di questo tipo di responsabilità “a fini politici” e cioè per emarginare un sindacato (o un partito) ritenuto scomodo.
Le gravose e penetranti sanzioni interdittive, al di là delle intenzioni e delle motivazioni addotte per applicarle, altererebbero l’attività sindacale e ne intaccherebbero il pluralismo esattamente come analoghe misure nei confronti di un partito politico altererebbero la sua possibilità di concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49, Costituzione).
Perimetro dell’esclusione
Pur essendo condivisibile il rilievo che societas saepe delinquit, appare eccessiva la conclusione di chi ravvisa in questa esclusione una “generalizzata immunità penale”, non tanto perché l’ente (sia esso un’organizzazione sindacale o no) non può mai commettere reati, quanto perché – tornando al caso specifico del sindacato datore di lavoro – la scelta ad excludendum ravvisata nell’art. 1 del D.Lgs. n. 231/2001 non può assolutamente essere letta come una legittimazione a violare la normativa antinfortunistica.
Conclusione parimenti interdetta è quella di una irragionevole afflittività del sistema 231 per tutti gli enti datori di lavoro, desumibile dalla sua non applicazione a specifici enti, quali i sindacati e i partiti politici.
Sono circa vent’anni che il legislatore insiste sulla normativa di cui al D.Lgs. n. 231/2001, ampliando il catalogo dei reati presupposto (si pensi al recente ampliamento all’ambito tributario), il che dimostra una fiducia nella responsabilità “da reato” degli enti come strumento di contrasto alle forme più preoccupanti di criminalità: non meno frequenti sono gli input comunitari per un affiancamento della responsabilità degli enti a quella della persone fisiche.
L’ampliamento dei soggetti attivi può conoscere tempi suoi propri come quelli registrati per l’ampliamento del catalogo dei reati presupposto, ma sarebbe affrettato - e metodologicamente scorretto - dedurre che tutti gli enti esclusi dall’art. 1 del D.Lgs. n. 231/2001 si vedano riconoscere se non il diritto, almeno la possibilità di un impegno meno cogente nel contrasto a qualsiasi forma di illegalità.
Lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici nonché gli altri enti (quali i sindacati e i partiti politici) che svolgono funzioni di rilievo costituzionale – ove un reato venga commesso in danno di un dipendente a causa del deficit nella sicurezza delle condizioni di lavoro – lungi dall’essere irresponsabili, conoscono forme diverse di responsabilità, non necessariamente meno afflittive o espressive di un qualche favor.
Responsabilità del sindacato
Entrando nello specifico – e rimanendo sul sindacato datore di lavoro – l’istituzione di un modello organizzativo, di gestione e controllo (m.o.g.), secondo quanto previsto dall’art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001, non è obbligatoria per gli enti rientranti nel sistema 231 (cfr., per tutte, Cass. Sezioni Unite 27 settembre -14 novembre 2018, n. 51515) e a fortiori per gli enti esclusi, ma il sindacato soggiace certamente sia all’obbligo di procedere alla valutazione dei rischi, che l’art. 28 del D.Lgs. n. 81/2008 impone a tutti i datori di lavoro, sia all’obbligo di redigere il documento di cui all’art. 17 dello stesso decreto (DVR), e di aggiornarlo nel tempo, sia all’obbligo di adozione di un “modello di organizzazione e gestione” (art. 30 stesso decreto) specificamente orientato alla sicurezza del lavoro.
In altre parole, sostanzialmente negli stessi tempi nei quali il legislatore introduceva la responsabilità “da reato” degli enti e ne escludeva il sindacato datore di lavoro, quest’ultimo veniva chiamato a dotarsi di un’organizzazione specificamente funzionale al contrasto di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori suoi dipendenti (D.Lgs. n. 81/2008).
Si potrebbe obiettare che, a parità di obblighi antinfortunistici, solo il datore di lavoro sindacato (o partito) viene esonerato dalle misure e sanzioni interdittive, ma anche tale conclusione sarebbe affrettata, perché altro è dichiarare inapplicabile il sistema 231 e altro è dedurre una assoluta non assoggettabilità a misure interdittive.
La riprova è sempre nel D.Lgs. n. 81/2008, che prevede misure interdittive applicabili ai datori di lavoro senza passare attraverso le procedure (e le garanzie) previste dal D.Lgs. n. 231/2001.
Resta l’interrogativo finale se un detto ente – ove mai sprezzante rispetto agli obblighi di garantire un lavoro sicuro ai propri dipendenti – meriti di rimanere escluso dal soggiacere al sistema 231 (cosa consentita dal vigente quadro normativo) o non richieda, piuttosto, una diversa risposta da parte del legislatore.
Ragionevolmente, è da ritenersi teorica l’esistenza di un sindacato datore di lavoro pervicacemente insensibile ai valori che dichiara di voler difendere, cosicché deve ritenersi remota l’eventualità di una concreta applicazione della misura/sanzione interdittiva, ma questa considerazione finale sembra giustificare la rimozione del privilegium più che il suo mantenimento.