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Archivio newsLicenziamento illegittimo: il Jobs Act non viola il principio di parità di trattamento
349 lavoratori licenziati e reintegrati sul posto di lavoro in quanto assunti prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs Act. Una lavoratrice licenziata, ma non reintegrata perché, diversamente dai suoi colleghi, stabilizzata a tempo indeterminato a fine marzo 2015. Secondo il Tribunale di Milano, in tale situazione, potrebbe configurarsi una possibile violazione del principio di parità di trattamento nel differente regime rimediale applicato: tutela indennitaria del Jobs Act verso tutela reintegratoria del regime Fornero. La questione viene portata al vaglio della Corte UE che promuove il Jobs Act, sulla base di quali argomentazioni? E tutte condivisibili?
Con sentenza del 17 marzo 2021 nella causa C-652/19 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulle questioni pregiudiziali sollevate da parte del Tribunale di Milano con ordinanza del 5 agosto 2019.
Il caso, molto peculiare, riguarda una lavoratrice assunta con contratto a tempo determinato precedentemente all’entrata in vigore del Jobs Act, e stabilizzata a tempo indeterminato a fine marzo 2015, che veniva licenziata due anni dopo all’esito di un licenziamento collettivo; il licenziamento veniva dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di scelta ma la lavoratrice, diversamente dai suoi colleghi (tutti assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015), si vedeva riconoscere la sola tutela indennitaria.
Il Tribunale di Milano rinveniva in tale situazione una possibile violazione del principio di parità di trattamento tra la ricorrente e i propri colleghi dovuta al fatto che questa era stata stabilizzata immediatamente dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, che come noto prevede che «Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato […] in contratto a tempo indeterminato» (Art. 1, comma 1).
Nello specifico le questioni pregiudiziali poste dal Tribunale di Milano erano due.
La prima riguardava il sospetto di violazione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione contenuto nella clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18.3.1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE.
Sotto tale profilo, la Corte UE ha anzitutto ricordato che la finalità dell’accordo quadro è quella di impedire che l’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro costituisca un modo per privare il lavoratore dei diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato.
Nel caso di specie, il timore del Giudice del rinvio sarebbe fondato, in quanto la “differenza di trattamento” lamentata derivava proprio dal fatto che la lavoratrice era inizialmente stata assunta a tempo determinato (altrimenti ella avrebbe avuto accesso alla tutela rimediale reintegratoria del regime Fornero e non già a quella indennitaria del Jobs Act).
L’ipotesi, pertanto, è quella di cui al comma 1 della clausola 4 dell’accordo quadro secondo cui “Per quanto riguarda le condizioni di impiego [alle quali sono riconducibili le tutele accordate in caso di licenziamento illegittimo – n.d.r.] i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.
Nel caso di specie, tuttavia, secondo la Corte europea siffatte ragioni oggettive esistono.
Infatti, il Governo italiano ha dimostrato che il trattamento “meno favorevole” di un lavoratore nella situazione della ricorrente è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal D.Lgs. 23/2015, consistente nell’“incentivare” i datori di lavoro a stabilizzare i lavoratori a tempo determinato in scadenza di contratto; trattasi, secondo la Corte europea, di una finalità di stabilizzazione dell’occupazione e di un obiettivo perseguito dallo stesso accordo quadro, e pertanto di “ragione oggettiva” che giustifica la (solo teorica) disparità di trattamento.
Le considerazioni
La pronuncia convince nelle conclusioni, un po' meno nella sua argomentazione.
Certo la Corte di Giustizia applica un principio molto semplice: l’alternativa all’applicazione della disciplina vigente per i lavoratori stabilizzati successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 non è il regime Fornero, ma molto più semplicemente la non stabilizzazione.
Tuttavia, così esposti i termini della questione, resta il dubbio di quelle conversioni, pur successive al 7 marzo 2015, ma in qualche modo comunicate precedentemente a tale data, o comunque nei casi in cui il lavoratore possa dimostrare che, a prescindere dal regime rimediale applicabile, il suo contratto sarebbe stato convertito in ogni caso.
In tale ipotesi, infatti, non escludo che un Giudice possa perfino decidere di rimettere nuovamente il caso alla Corte di Giustizia (poggiando la medesima fattispecie su presupposti contrari a quelli sottesi alla sentenza in commento), ovverosia giungere all’(aberrante) conclusione che, prescindendo la conversione dall’“incentivo” legislativo, la disparità di trattamento sussiste, e il Jobs Act debba essere disapplicato. Sarebbe una deriva interpretativa (non condivisibile) di cui faremmo volentieri a meno.
Quanto alla seconda (e ben più insidiosa) questione, il Giudice del rinvio riproponeva, pur nella peculiarità del caso di specie, una questione che era già stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, ossia quella relativa alla conformità (questa volta con il diritto europeo) di un trattamento diversificato tra lavoratori che, pur licenziati nel medesimo contesto, si vedono assoggettati ad un diverso regime rimediale.
La questione veniva sollevata ai sensi dell’art. 20 e 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e della direttiva 98/59, non mancando di sottolineare il Giudice del rinvio come l’assetto rimediale indennitario di cui al Jobs Act sarebbe, per effetto di una serie di richiami interpretativi, in contrasto con la Carta (“nel senso che una sanzione derivante da un licenziamento collettivo illegittimo è considerata adeguata quando prevede, primo, il rimborso delle perdite economiche subite dal lavoratore interessato tra il giorno del suo licenziamento e la decisione che condanna il datore di lavoro a detto rimborso, secondo, una possibilità di reintegrare tale lavoratore nell’impresa nonché, terzo, un’indennità di importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito da detto lavoratore”).
La Corte Costituzionale aveva già trattato sostanzialmente la medesima questione nel 2018, quando aveva ritenuto perfettamente legittimo che la disciplina rimediale possa essere differente in relazione alla data di assunzione.
Le considerazioni
Non posso non rilevare, con sollievo, che la Corte di Giustizia si è astenuta dal creare un contrasto interpretativo con quanto già statuito dalla Corte Costituzionale.
In punto di diritto condivido le argomentazioni della Corte di Giustizia, che correttamente ha rilevato come la direttiva di cui il Giudice del rinvio invocava la violazione (la 98/59) contenga solo obblighi consultivi (che l’ordinamento italiano ha prontamente recepito), mentre “non mira a istituire un meccanismo di compensazione economica generale a livello dell’Unione in caso di perdita del lavoro, né tanto meno ad armonizzare le modalità di cessazione definitiva delle attività di un’impresa”; non essendo la disciplina italiana attuativa del diritto dell’Unione Europea, anche la questione relativa alla presunta violazione degli artt. 20 e 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea non può essere esaminata.
Promozione totale per il Jobs Act, pertanto, e questa volta senza riserve.