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Divieto di licenziamento: proroga in due tempi nel decreto Sostegni

Il decreto Sostegni proroga il divieto di licenziamento prevedendo una importante novità. Fino al prossimo 30 giugno il blocco resta generalizzato in quanto riguarda tutti i datori di lavoro. Dal 1° luglio e fino al 31 ottobre 2021, invece, il divieto rimarrà solo per i settori destinatari dell’assegno ordinario e della cassa in deroga. Qui, nella maggior parte dei casi, ci si trova di fronte ad aziende con un numero piccolo di dipendenti e che appartengono a settori, come i pubblici esercizi, il commercio, il turismo, le agenzie di viaggio, lo spettacolo, ed i servizi, in generale, particolarmente colpite dalla pandemia.

Lungamente anticipata dai “media”, la proroga del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in essere dal 17 marzo 2020, è stata “allungata” dal decreto Sostegni (D.L. 22 marzo 2021, n. 41). Strettamente correlata all’evolversi della crisi pandemica, per la prima volta, la fine del divieto non viene prevista nello stesso giorno per tutti i datori di lavoro ma è diversificata a seconda dell’ammortizzatore sociale di riferimento. Si tratta di un criterio nuovo che va, necessariamente, spiegato.

Il decreto Sostegni, all’art. 8, commi 9, 10 e 11 afferma che, fino al prossimo 30 giugno, per tutti i datori di lavoro restano precluse sia le procedure collettive di riduzione di personale (e quelle in corso alla data del 23 febbraio 2020 restano sospese, come quelle relative ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966, a prescindere dai limiti dimensionali): resta, al contempo, “bloccato” il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966 che si svolge per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo innanzi alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro.

Dal 1° luglio, invece, il “blocco” rimarrà, come vedremo, per interi settori destinatari degli ammortizzatori sociali COVID-19 che si concretizzano nell’assegno ordinario e nella cassa in deroga.

Restano le eccezioni già previste nella decretazione d’urgenza dello scorso anno e già confermate dall’art. 1 comma 311, della legge di Bilancio 2021 (legge n. 178/2020):

· Cambio di appalto con la riassunzione dei dipendenti presso il datore di lavoro subentrante nel rispetto di un obbligo di legge (ad esempio, art. 50 del codice degli appalti), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di un codicillo contenuto nel contratto di appalto;

· Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società, a meno che non si configuri una cessione totale o parziale dell’azienda, nel qual caso scatta la tutela dell’art. 2112 c.c. per ogni lavoratore interessato;

· Accordo collettivo aziendale stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (in sostanza, con le organizzazioni territoriali di categoria, ma non con le RSA o le RSU che, tuttavia, possono, a mio avviso, aggiungere la propria firma “ad abundantiam”), limitatamente ai lavoratori che aderiscono (a mio avviso per iscritto all’accordo, finalizzato alla risoluzione del rapporto di lavoro, attraverso una risoluzione consensuale). I lavoratori hanno diritto alla NASpI, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal D.L.vo n. 22/2015, secondo le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 111/2020 (richiesta del trattamento di disoccupazione con accordo allegato e dichiarazione di adesione). Il datore di lavoro è tenuto al pagamento del ticket di ingresso alla NASpI nella misura ordinaria. Nell’accordo collettivo che, a mio avviso, va sottoscritto entro la data di “blocco dei licenziamenti” pur potendo le risoluzioni dei rapporti avvenire in data successiva (e, sarebbe opportuno che, almeno una volta, il Ministero del Lavoro fornisse delle indicazioni amministrative scritte), le parti individuano i profili eccedentari (non necessariamente i nomi) e possono (non è un obbligo) identificare il “quantum” a titolo di incentivo all’esodo che può essere diversificato in ragione del profilo professionale, dell’anzianità e delle singole situazioni, non dimenticando anche ipotesi di pensionamento anticipato anche attraverso le procedure del contratto di espansione che, per il 2021, riguarda le imprese con un organico superiore alle 250 unità. Nell’accordo, le parti possono anche convenire che i singoli accordi di risoluzione siano sottoscritti “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc, cosa che evita al lavoratore la procedura telematica di conferma della risoluzione consensuale o delle dimissioni attraverso la procedura telematica individuata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo. L’accordo collettivo può avvenire anche a seguito di procedura collettiva di personale che, è possibile in quanto prevista come eccezione alla regola generale: in tale quadro, sempre come eccezione, possono essere riprese anche le procedure individuali ex lege n. 604/1966;

· Fallimento senza prosecuzione, neanche parziale, dell’attività.

Le cose cambiano dal 1° luglio 2021. I datori di lavoro che non fanno riferimento alla integrazione salariale ordinaria e che, ai fini dell’emergenza epidemiologica COVID-19, fruiscono per i loro dipendenti, senza alcun contributo addizionale, dell’assegno ordinario o dei trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga continuano ad essere “bloccati” per i licenziamenti determinati da giustificato motivo oggettivo (fatte salve le eccezioni sopra menzionate) fino al 31 ottobre 2021.

La distinzione operata dal provvedimento merita una riflessione. Quali sono i datori di lavoro che possono procedere ai licenziamenti per g.m.o. a partire dal 1° luglio e che possono aprire le procedure collettive di riduzione di personale di cui parlano gli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991?

Sono quelle imprese che rientrano nelle tutele della Cassa integrazione guadagni ordinaria e che sono indicate all’art. 10 del D.L.vo n. 148/2015:

· Imprese manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas; · Cooperative di produzione e lavoro che svolgano attività lavorative similari a quelle degli operai delle imprese industriali, fatta eccezione delle cooperative ex DPR n. 602/1970, per le quali l’art. 1 del DPR non prevede la contribuzione per la CIG; · Imprese dell’industriaboschiva, forestale e del tabacco; · Cooperative agricole, zootecniche e dei loro consorzi che esercitano attività di trasformazione, manipolazione e commercializzazione di prodotti agricoli propri per i soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato; · Imprese addette al noleggio e alla distribuzione dei film di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche; · Imprese industriali per la frangitura delle olive per conto terzi; · Imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato; · Imprese addette agli impianti telefonici ed elettrici; · Imprese addette all’armamentoferroviario; · Imprese industriali degli Enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica; · Imprese industriali ed artigiane dell’edilizia e affini; · Imprese industriali esercenti l’attività di escavazione e/o escavazione di materiale lapideo; · Imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalle attività di escavazione.

Queste imprese sono, altresì, identificabili, attraverso il contributo che, ai sensi del successivo art. 13, sono tenute a versare mensilmente per la CIGO, secondo aliquote differenziate sulla base di diversi parametri:

a) 1,70% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i dipendenti impiegati, operai ed apprendisti (con rapporto “professionalizzante”) delle imprese industriali che occupano fino a 50 dipendenti;

b) 2,00% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i dipendenti già individuati sub a) delle imprese industriali che occupano più di 50 dipendenti;

c) 4,70% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i dipendenti già individuati sub a) delle imprese industriali ed artigiane del settore edile;

d) 3,30% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per gli operai ed apprendisti professionalizzanti delle imprese dell’industria e artigianato lapidei;

e) 1,70% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per gli impiegati ed i quadri delle imprese dell’industria e dell’artigianato edile e lapidei che occupano fino a 50 dipendenti;

f) 2,00% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per gli impiegati ed i quadri delle imprese dell’industria e dell’artigianato edile e lapidei che occupano più di 50 dipendenti.

Il limite dimensionale (comma 2 dell’art. 13) viene determinato, con effetto dal 1° gennaio di ogni anno, sulla base del numero medio dei dipendenti dichiarato dall’impresa relativamente al personale in forza nell’anno precedente. Per le imprese costituite in corso d’anno è preso, come riferimento, il numero dei dipendenti in forza alla scadenza del primo mese.

Provo, a chiarire, la ragione di tale scelta.

Per le imprese che fruiscono della CIGO (che, in generale, sono più strutturate delle altre e che, magari, hanno all’interno rappresentanze sindacali) la data del 1° luglio non rappresenta, necessariamente, quella del “via” ai recessi per giustificato motivo oggettivo, atteso che, a fronte di una situazione di crisi ancora presente, potrebbero essere attivati, venendo meno le integrazioni salariali COVID-19, ammortizzatori sociali, ordinari o straordinari, secondo le previsioni del D.L.vo n. 148/2015 che, però, è bene rimarcarlo, non sono a “costo zero” come gli ammortizzatori COVID-19, essendo previsto un contributo addizionale nella misura individuata dall’art. 5.

Molto diverso è il discorso relativo ai datori di lavoro che non usufruiscono della CIGO. Qui, nella maggior parte dei casi, ci si trova di fronte ad aziende con un numero piccolo di dipendenti, che usufruiscono dell’assegno ordinario o della CIG in deroga, che appartengono a settori, come i pubblici esercizi, il commercio, il turismo, le agenzie di viaggio, lo spettacolo, ed i servizi, in generale, particolarmente colpite dalla pandemia e che sono state (e sono) colpite dalle chiusure o dai restringimenti dell’attività attraverso vari provvedimenti amministrativi, mentre i settori industriali, artigiani, alimentari e della grande e piccola distribuzione hanno, pur tra numerose difficoltà, continuato l’attività. Tali settori (mi riferisco, in particolar modo, ai datori che occupano fino a 5 dipendenti) se non fruiscono di integrazioni COVID-19 non hanno altro e, di conseguenza, la decisione dell’Esecutivo di bloccare i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino al 31 ottobre 2021 (periodo che può essere “coperto” dall’ammortizzatore, previsto, soltanto per assegno ordinario e CIG in deroga, per 28 settimane a partire dal 1° aprile), appare coerente con la tutela del posto di lavoro che, fin dall’inizio, è stato un obiettivo costante da perseguire. Per quella data, sperando, comunque, in una attenuazione del virus ed in una ripresa progressiva delle attività nei settori sopra evidenziati, cosa che dovrebbe, in parte, scongiurare i recessi, dovrebbe essere stata approvata la riforma delle integrazioni salariali che dovrebbe avere un contenuto universalistico

Ma, quali sono i licenziamenti che non rientrano nel “blocco? Ritenendo di fare cosa utile, provo ad elencarli.

· I licenziamenti per giusta causa che, comunque, obbligano il datore alle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970: su questo punto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982 è stata molto chiara;

· I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare, anch’essi soggetti all’iter procedimentale del citato art. 7;

· I licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia, atteso che per la prosecuzione fino ai 70 anni occorre un accordo tra le parti in quanto il diritto alla prosecuzione non è un diritto potestativo del lavoratore, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015;

· I licenziamenti determinati da superamento del periodo di comporto, atteso che la procedura è “assimilabile” al giustificato motivo oggettivo ma non è giustificato motivo oggettivo;

· I licenziamenti durante o al termine del periodo di prova sottoscritto dalle parti prima della costituzione del rapporto, con l’indicazione sia della durata che delle mansioni da svolgere;

· I licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”, frutto della elaborazione della contrattazione collettiva: si tratta di un criterio di valutazione più forte rispetto al giustificato motivo oggettivo che si applica agli altri lavoratori subordinati. Su questo punto, tuttavia, di recente, il Tribunale di Roma si è espresso nel senso per una illegittimità del recesso, ritenendo di fornire una lettura “costituzionalmente orientata”. Tale sentenza è stata criticata da parte della dottrina che ha messo in evidenza come il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo richiami, espressamente, la legge n. 604/1966 che non si applica al personale con qualifica dirigenziale;

· I licenziamenti dei lavoratori domestici che sono “ad nutum”;

· I licenziamenti dei lavoratori dello spettacolo a tempo indeterminato (cosa rara), laddove nel contratto di scrittura artistica sia prevista la c.d. “clausola di protesta”, cosa che consente la risoluzione del rapporto allorquando il lavoratore sia ritenuto non idoneo alla parte;

· La risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c.: qui, non appare ravvisabile il giustificato motivo oggettivo. Ovviamente, occorre tener presente quanto affermato dall’art. 2, comma 4, del D.L.vo n. 148/2015 in base al quale il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui il giovane ha fruito della integrazione salariale.

Resta fuori da tale elencazione il licenziamento per inidoneità psico-fisica, secondo un indirizzo giurisprudenziale prevalente, alla luce delle specifiche disposizioni contenute nell’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 o all’interno della legge n. 68/1999 (articoli 4 e 10). Anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha espresso, alcuni mesi or sono, la propria opinione sposando la tesi della sospensione del licenziamento per tale motivazione.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/03/26/divieto-licenziamento-proroga-due-tempi-decreto-sostegni

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