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Archivio news“Scudo penale” per chi vaccina in azienda? Basterebbe la 231
In questi giorni un susseguirsi di voci incontrollate ha portato alla ribalta l’ipotesi di uno “scudo penale” a favore dei datori di lavoro che aderiranno al programma nazionale di vaccinazione generale ed accelerata anti Covid-19. In questo susseguirsi di voci e ipotesi, la più apprezzabile è però quella che vorrebbe condizionare la protezione legale del datore di lavoro alla previa, corretta adozione del modello organizzativo e di gestione di cui al “Decreto 231”; modello tuttora facoltativo dopo vent’anni dall’introduzione della responsabilità amministrativa “da reato” delle persone giuridiche. Se la pandemia portasse a questa evoluzione delle strutture produttive, sarebbe forse l’unico effetto positivo riconoscibile all’emergenza sanitaria. Nella consapevolezza che analogo risultato poteva essere conseguito in contesti meno drammatici.
Il costo della giustizia, sia che funzioni sia che non funzioni, è elevatissimo in termini economici, sociali ed individuali.
Si dice, verosimilmente non a torto, che gli investimenti in Italia siano frenati dalla mancanza di certezza sui tempi della giustizia, motivo per cui lo straniero evita di venire a produrre in Italia e – una volta scottato da un’esperienza negativa – sceglie altri luoghi di produzione meno problematici e, quasi sempre, idonei a consentire economie di varia natura.
Se questo vale per la giustizia civile, più di un segnale indica in modo incontrovertibile che anche la giustizia penale non dà una risposta soddisfacente e tranquillizzante alla aspettativa di tutela della vittima ed, anzi, viene sempre più a configurarsi come strumento di aggressione invece che garanzia per il cittadino.
La pretesa di uno “scudo penale” quale componente per un accordo che consentisse vitalità alla nuova ILVA, nel rispetto del diritto alla salute e del diritto al lavoro, va letta non come una inaccettabile pretesa di licenza di delinquere contro l’ambiente, la salute e la sicurezza del lavoro, ma come consapevolezza che il massimo impegno nel rispetto delle regole di per sè potrebbe essere insufficiente ad evitare una condanna o, almeno, la sottoposizione ad un processo.
Ed il processo è già di per sé una pena, in termini di discredito morale e sociale, e trascina con sé importanti e, a volte, devastanti ricadute economiche.
Ciò vale per le persone fisiche come per quelle giuridiche: le prime possono essere private della libertà personale, con la non tranquillizzante prospettiva di una riparazione dell’ingiusta detenzione e, da ultimo, di un rimborso solo in parte restitutorio delle spese sostenute per difendersi in giudizio.
Le seconde non hanno diritto a nessuna riparazione per l’ingiusta misura interdittiva e per l’errore giudiziario, anche se riconosciuto tale.
Si pensi, per rimanere nell’ambito del sistema 231, alle società riconosciute estranee ai delitti per i quali sono state assoggettare a processo ma cui la riconosciuta estraneità ad illeciti non consentirà di recuperare i mercati asiatici o africani ipotizzati come teatro di reato. Danni milionari non solo alle società, ma all’intera Nazione.
Non muta la situazione, o non più di tanto, se la persona fisica o giuridica viene riconosciuta responsabile per gli illeciti attribuiti.
L’effetto negativo collaterale (perdita del lavoro o dell’appalto, licenziamenti o non assunzione di personale, grave danno all’economia individuale, societaria e anche nazionale) rimane confermato, senza che l’osservatore esterno si senta tranquillizzato dal rilievo che all’illecito è stata ricollegata la sanzione comminata dal legislatore e il colpevole ha avuto quanto si è meritato con la sua condotta attiva od omissiva.
Riemerge il non nuovo problema di evitare che fiat iustitia et pereat mundus (sia fatta giustizia, quale che siano le conseguenze anche su soggetti incolpevoli), laddove l’auspicio dovrebbe essere fiat justitia ne pereat mundus (nessun autore di illeciti si illuda di impunità, ma la sentenza non deve colpire gli innocenti).
Lo “scudo penale” è tornato prepotentemente alla ribalta nel settore medico, a seguito dell’apertura di un procedimento coinvolgente chi ha semplicemente somministrato un vaccino ritenuto, a torto o a ragione, all’origine di eventi luttuosi.
Il rapporto tra professione sanitaria e giustizia (civile e/o penale) tende a diventare sempre più incandescente, a fronte della legittima aspettativa di sapere se determinati eventi letali o invalidanti o comunque morbosi siano da attribuire a “mala sanità” o a eventi naturali non controllabili e non evitabili.
Certo è che il disegno di ampliare al massimo i luoghi e il numero degli addetti alle vaccinazioni (cosa fondamentale, in vista dell’obiettivo di un contrasto rapito e generale al Covid-19) si scontra con i timori del sanitario di esporsi a rischi personali, lavorativi, familiari ed economici che, con l’astensione, potrebbe evitare e/o ridurre drasticamente.
Di qui la pretesa, portata avanti dagli organismi rappresentativi della categoria, di assicurare al sanitario che si impegna nella campagna nazionale di immunizzazione, di andare esente da procedimenti penali per il solo fatto di aver somministrato il vaccino finito sotto accusa: legittimo ogni accertamento sugli eventuali effetti collaterali negativi del vaccino o su modalità errate nell’eseguire l’iniezione, ma va trovato un modo per tenere indenne il sanitario dalla gogna giudiziaria e mediatica che – come si è visto nella prima casistica – accompagna l’apertura di qualsiasi inchiesta.
Il tema dello “scudo penale” si ripresenta in questi giorni con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro per (non) aver fatto vaccinare i propri dipendenti, alla necessità di una legge per imporre un trattamento sanitario obbligatorio (artt. 23 e 32 comma 2° Cost.), al problema di come gestire un lavoratore no vax (anche alla luce dello Statuto dei lavoratori e del diritto alla privacy), dell’eventuale licenziamento motivato dall’esigenza di tutelare gli altri lavoratori o della eventuale responsabilità per malattia contratta sul lavoro proprio per il mancato allontanamento di un dipendente che non intendeva vaccinarsi ( caso verificatosi, in questi giorni, in un ospedale ligure).
E’ in programma, immediatamente dopo le festività pasquali, un incontro al Ministero del lavoro per arrivare ad un protocollo condiviso che apra la strada alle vaccinazioni sul luogo di lavoro, quale canale alternativo alle strutture sanitarie in senso stretto.
Voci incontrollate parlano di uno “scudo penale” a favore dei datori di lavoro (persone fisiche e giuridiche) che aderiranno al programma nazionale di vaccinazione generale ed accelerata, ma l’intento – se confermato – appare problematico da tradurre in norme operative, perché l’autonomia nell’attivarsi da parte dell’autorità giudiziaria può essere fermata solo dal legislatore.
In questo susseguirsi di voci, la più apprezzabile è quella di condizionare la protezione legale del datore di lavoro alla previa, corretta adozione del modello organizzativo e di gestione di cui al D.Lgs. n. 231/2001, tuttora facoltativo dopo vent’anni dall’introduzione della responsabilità amministrativa “da reato”.
Se la pandemia portasse a questa evoluzione delle strutture produttive, sarebbe forse l’unico effetto positivo riconoscibile all’emergenza sanitaria (nella consapevolezza che analogo risultato poteva essere conseguito in contesti meno drammatici).