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Archivio newsBlocco dei licenziamenti: come gestire gli esuberi di personale nelle imprese con CIGO e CIG in deroga?
Il decreto Sostegni ha previsto due date per la cessazione del blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: il 1° luglio per le aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO e il 1° novembre per le altre. La duplicazione delle scadenze potrebbe generare qualche problema per le imprese che, per il proprio personale, fanno riferimento ad un doppio inquadramento e, di conseguenza, a due diversi ammortizzatori sociali Covid-19. E’ il caso, ad esempio, delle aziende che, genericamente, gestiscono, oltre alla produzione, la commercializzazione dei prodotti. Come gestire gli eventuali esuberi aziendali?
Tra le questioni che potrebbero aprirsi alla luce del differente periodo relativo alla fine del blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo previsto dall’art. 8, commi 9 e 10, del decreto Sostegni (D.L. n. 41/2021), c’è quello relativo alle imprese che per il proprio personale fanno riferimento ad un doppio inquadramento e, di conseguenza, a due diversi ammortizzatori sociali che sono stati utilizzati durante la pandemia.
E’ il caso, ad esempio, delle aziende tessili che per la produzione hanno usufruito della CIGO mentre per i negozi strettamente dipendenti che commercializzano i prodotti hanno utilizzato la Cassa in deroga, come previsto per le imprese plurilocalizzate in più ambiti territoriali. Il discorso non è, comunque, legato soltanto a tale settore, potendo estendersi anche alle aziende alimentari o a chi, genericamente, gestisce, oltre alla produzione, la commercializzazione dei prodotti.
L’Esecutivo ha previsto, come è noto, due date per la cessazione del blocco: il 1° luglio per le aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO (comma 9) e 1° novembre per le altre (comma 10).
In fase di prima interpretazione, molti operatori, basandosi su diverse accentuazioni presenti nelle relazioni illustrative, hanno ritenuto che tali date si riferissero, unicamente, ai datori di lavoro che utilizzano gli ammortizzatori COVID e non agli altri che non vi fanno ricorso: a mio avviso, il criterio, a prescindere o meno dalla fruizione, è uno soltanto che è quello che da un lato comprende le aziende che, teoricamente, possono far ricorso alla CIGO (i settori sono ben evidenziati all’art. 10 del D.L.vo n. 148/2015) e, dall’ altro, le restanti.
La ragione della differenziazione riguarda anche “il godimento” dell’integrazione COVID-19 che, per le prime, cessa con il 30 giugno: il blocco dei licenziamenti per motivazione economica può finire prima per tali aziende che risultano, nella maggior parte dei casi, più strutturate, che, sovente, hanno anche le rappresentanze sindacali all’interno e che, a fronte di una situazione di crisi possono attivare le integrazioni ordinarie e straordinarie, nonché i contratti di solidarietà previsti dal D.L.vo n. 148/2015 (ovviamente, non a “costo zero” come quelli della pandemia). Le altre imprese sono meno strutturate e comprendono anche piccolissime aziende con meno di 6 dipendenti che hanno, quale unico strumento difensivo per il mantenimento dei livelli occupazionali, la Cassa in deroga, riattivata, tra mille difficoltà, allo scoppio della crisi da coronavirus. Ed è per queste, largamente diffuse sul territorio, che il Governo ha inteso prolungare gli ammortizzatori COVID (le ulteriori 28 settimane, diventano 40 se cumulate alle precedenti del 2021 e possono arrivare fino al 31 dicembre) sperando che in autunno entri in vigore la riforma degli ammortizzatori sociali che dovrebbe avere un carattere universalistico.
Dopo questa breve digressione, torno alla questione alla base di questa riflessione.
Un’impresa con doppio inquadramento (e con ammortizzatori diversi dalla CIGO) che, dovendo procedere ad una profonda ristrutturazione, volesse avviare una procedura collettiva di riduzione di personale, lo potrà fare, da quella data, soltanto, per il personale che, potenzialmente, fruisce del trattamento di CIGO e non degli altri. Quindi, una situazione del tutto nuova rispetto alle ordinarie procedure ove, soprattutto in caso di una riconversione o di una crisi, le questioni aziendali vanno valutate in una dimensione di unicità, soprattutto allorquando, giunti al termine dell’iter previsto dagli articoli, 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, si dovesse procedere alla valutazione dei dipendenti in esubero sulla base di mansioni fungibili all’interno, ma anche all’esterno delle varie unità produttive, soprattutto se queste hanno una natura ripetitiva: tutto ciò potrebbe portare, in presenza di un contenzioso giudiziale, a invalidare un determinato criterio di scelta che non ha comparato tutti i dipendenti con le stesse mansioni in forza nell’azienda (magari, perché adibiti a reparto commerciale).
La situazione che ho, sommariamente, descritto, può avere delle varianti che provo ad elencare, non trascurando, ovviamente, la possibilità del ricorso (per la parte che rientra nell’ambito della CIGO) ad uno degli ammortizzatori previsti dal D.L.vo n. 148/2015:
a) Ricorrere, per i dipendenti del settore industriale, al licenziamento plurimo di un massimo di 4 lavoratori, avendo cura di non effettuare un altro recesso nei 120 giorni successivi, altrimenti i licenziamenti diverrebbero “ex lege” collettivi, con tutte le conseguenze del caso. Questo passaggio potrebbe avvenire anche con la procedura individuale ex art. 7 della legge n. 604/1966 (non più “bloccata” dalla norma) e con la risoluzione consensuale con conciliazione avanti alla commissione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, cosa che porterebbe il diretto interessato a fruire del trattamento di NASpI. Va sottolineato, comunque, che quest’ultima può essere attivata, unicamente, dalle imprese dimensionate oltre le 15 unità per lavoratori (esclusi i dirigenti) assunti prima del 7 marzo 2015. Per coloro che sono stati assunti successivamente potrebbe essere attivata la procedura di conciliazione facoltativa prevista dall’art. 6 del D.L.vo n. 23/2015 (che, per una serie di motivi, presenta poco “appeal” tra i lavoratori) ove, in caso di accordo, il lavoratore fruisce, comunque, della NASPI, come affermato dall’ interpello n. 15/2015 del Ministero del Lavoro;
b) Procedere a risoluzioni consensuali a seguito di accordi collettivi, secondo la previsione del comma 11 dell’art. 8 per i soli dipendenti che fruiscono di ammortizzatori diversi dalla CIGO, cosa che consente ai soggetti interessati di percepire anche il trattamento di NASpI. Per i lavoratori, invece, che fruiscono della CIGO, ciò, stando a tenore letterale della norma, non appare possibile, essendo tale strumento stato utilizzato dal Legislatore quale alternativa concordata al blocco dei licenziamenti che per costoro non c’è più. Sarebbe auspicabile che in sede di conversione del decreto Sostegni, tale strumento potesse essere utilizzato anche dopo la fine dello “stop” ai licenziamenti per motivi economici, in quanto, la fruizione della NASpI accompagnata da un “qualche incentivo all’esodo”, potrebbe facilitare il datore di lavoro nell’opera di alleggerimento concordato degli organici;
c) Procedere alla richiesta di integrazione salariale straordinaria per crisi aziendale o per ristrutturazione (ovviamente, con motivazioni plausibili che vanno esaminate dal Dicastero del Lavoro prima della concessione) e durante la stessa, con accordo sindacale raggiunto secondo le modalità previste dall’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015, aprire una procedura di ricollocazione per i dipendenti che, entro un mese dall’accordo, hanno manifestato, per iscritto, la loro intenzione di aderire. Tale iter, abbastanza complesso e irto di difficoltà, che prevede un affidamento dei lavoratori interessati ai centri per l’Impiego o alle Agenzia di Lavoro per una ricollocazione in altra impresa, in caso di risoluzione del rapporto a seguito di una nuova collocazione, consente che fino a 9 mensilità di incentivo all’esodo non si paghi l’IRPEF e, qualora il dipendente non abbia fruito di tutto il trattamento di CIGS, può ottenere il 50% del residuo.