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Archivio newsAssegno unico universale. Il primo passo verso una retribuzione equa?
Arriva l’assegno unico universale per i figli a carico. Operativo dal prossimo 1° luglio, l’assegno sarà erogato a tutte le famiglie, indipendentemente dalla condizione occupazionale dei genitori (lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati o disoccupati), secondo importi differenziati e commisurati ai differenti bisogni economici. Consisterà nell’erogazione di una somma aggiuntiva al reddito mensile in qualunque forma percepito (salario, pensione, indennità assistenziale) o nel riconoscimento di un credito d’imposta. Il Governo ha individuato un valore massimo mensile di 250 euro: sarà sufficiente ad assicurare equità retributiva e a porre un freno all’impoverimento demografico?
Oramai da almeno un decennio l’ISTAT ci fornisce la fotografia di un Paese incapace di porre freno ad un fenomeno di impoverimento demografico, che va avanti da oltre cinquanta anni, ma che negli ultimi dieci anni ha toccato traguardi davvero preoccupanti, se non drammatici.
Il numero dei bambini nati in Italia, inclusi quelli generati da coppie straniere, continua a diminuire e a segnare record storici negativi: nel 2019, i nuovi nati sono stati poco più di 420mila, e cioè quasi 20mila in meno rispetto all’anno precedente, con una riduzione di circa il 27% rispetto al dato di soli undici anni fa. Un valore più che dimezzato rispetto al numero di bambini che nascevano a metà degli anni ‘60, quando si toccò la vetta del baby boom (nel 1964). Ovviamente, anche il numero medio di figli per donna continua a scendere, arrivando a 1,27 per soggetti residenti (ed ancora più basso è il valore per le donne di cittadinanza italiana, pari ad 1,18 figli), di modo che appare certa una consistente riduzione della popolazione nei prossimi decenni, venendo a mancare la garanzia del ricambio fisiologico per ogni coppia di genitori.
La caduta della natalità risulta dal sommarsi di vari fattori che frenano i progetti di vita dei giovani: non c’è solo la crisi economica ed occupazionale, ma anche una più diffusa sfiducia nello sviluppo della società e nella possibilità di un miglioramento individuale. I dati segnalano infatti un ulteriore incremento nell’età media in cui si diventa madri (oramai a 31 anni e 4 mesi: e cioè 3 anni in più rispetto al 1995) e una diffusione oramai amplissima di nati da genitori non coniugati (orami un terzo, rispetto all’8,1% del 1995 e ad una percentuale del 19,6% del 2008).
Il dato complessivo, almeno prima del dilagare della pandemia, è quindi quello di una profonda modifica della composizione della popolazione italiana, che vede crescere sempre più il numero degli anziani e dei vecchi e dove, al profondo divario tra nascite e decessi, si aggiunge il saldo, parimenti negativo, fra giovani laureati o comunque professionalmente qualificati che abbandonano l’Italia e i pochi che il Paese riesce a trattenere dai flussi migratori dai quali è attraversato.
Invece di essere una risorsa, i giovani diventano così un costo sociale, come evidenzia il ben noto record di NEET, e cioè di under 30 che non studiano e non lavorano, oramai surclassati dagli ultra65enni, tanto che si stima che entro il 2030 i senior (dai 65 ai 75 anni) potrebbero essere ben più numerosi dei giovani occupati (dai 15 ai 25).
In altre realtà, come in Francia e negli USA, i numeri sono completamente diversi ed anche nei paesi più ricchi d’Europa, la situazione ha fatto segnare da tempo un miglioramento, a fronte di politiche dirette a sostenere l’occupazione giovanile, anche grazie al finanziamento dell’UE, come nel caso della c.d. “garanzia giovani”, adottata anche in Italia con effetti positivi.
Da anni si parla quindi di porre in essere misure ad ampio spettro, dirette a fronteggiare il negativo evolversi di questa situazione, nella speranza di poter invertire le tendenze (sia pure con i tempi lenti, propri della demografia). Ed è con questo spirito che il Senato della Repubblica, il 30 marzo 2021, ha approvato, in via definitiva e a larghissima maggioranza, una legge che prevede l’attribuzione al Governo di una delega di durata annuale perché vengano introdotte misure «a sostegno dei figli a carico».
La legge (n. 46 del 1° aprile 2021, in G.U. n. 82 del 6 aprile 2021) mira ad introdurre entro un anno, un «assegno unico e universale», con lo scopo di sostituire le misure attualmente vigenti: e cioè sia le detrazioni fiscali previste dal TUIR, sia il (modesto) assegno per il nucleo familiare (ANF), previsto dalla risalente legge n.153 del 1988 e corrisposto dall’INPS per il tramite dei datori di lavoro. Il nuovo assegno unico mira altresì ad assorbire la gran parte delle misure più recenti, come l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori previsto dalla finanziaria per il 1999, sia il c.d. bonus bebè, fatto oggetto di previsioni continuamente rinnovate negli ultimi anni.
La legge promette, quindi, di rendere l’assegno una misura per tutte le famiglie, quale che sia la condizione occupazionale dei genitori (lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati o disoccupati), secondo importi differenziati e commisurati ai differenti bisogni, provvedendosi o all’erogazione di una somma che si aggiunge al reddito mensile (in qualunque forma percepito: salario, pensione, indennità assistenziale), o al riconoscimento di un credito d’imposta. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Governo, si è individuato un valore massimo mensile di 250 euro, quale somma di una parte fissa e una variabile, legata al reddito complessivo della famiglia.
Il Governo dovrà anche farsi carico di coordinare il nuovo assegno con altri recenti strumenti introdotti a contrasto delle situazioni di marginalità sociale, come in primis il reddito di cittadinanza (e con le tante misure previste a livello locale) per evitare, sia il rischio di indebite duplicazioni, sia la possibilità che il sommarsi di discipline diverse finisca per penalizzare le famiglie rispetto all’importo oggi in godimento. In questo senso, si dovranno anche studiare meccanismi premiali per evitare soprattutto che le famiglie che percepiscano già il reddito di cittadinanza siano comunque incentivate ad accettare offerte di lavoro (per il secondo membro del nucleo familiare) senza perdere poi il sostegno riconosciuto ai figli minori.
A godere dell’assegno saranno i genitori, già dal settimo mese di gravidanza e sino all’età della maggiore età dei figli; anzi il beneficio viene riconosciuto sino ai 21 anni di età, a condizione tuttavia che il figlio segua un percorso di formazione professionale o che sia iscritto all’università. A certe condizioni, il beneficio potrà essere direttamente riconosciuto al giovane stesso. Un importo maggiorato sarà poi riconosciuto in caso di disabilità o qualora il genitore abbia meno di 21 anni ed ancora in caso di nucleo familiare con più di tre figli.
Per garantire che le previsioni di legge siano opportunamente pubblicizzate, si prevede poi che sia l’ufficiale dello stato civile ad informare i genitori dei benefici stabiliti dalla legge al momento della denunzia della nascita all’ufficio dell’anagrafe. Al contrario, per quanti godono già degli assegni al nucleo familiare a carico dell’INPS, dovrebbe essere l’Istituto a provvedere a dare informazioni per il ricalcolo. Secondo le stime, il numero dei giovani beneficiari dell’assegno unico dovrebbe essere pari a 12 milioni e mezzo, di cui 10 milioni minori, con circa 11 milioni di famiglie interessate.
Il Governo ha promesso che già dal 1° luglio si darà il via all’approvazione del decreto legislativo e degli altri provvedimenti necessari ad attuare la delega, anche se al momento non è esattamente chiaro quale sarà l’impatto complessivo sul bilancio dello Stato e quale la sorte del finanziamento contributivo destinato ad alimentare gli assegni familiari, già previsti per i lavoratori subordinati, fin dalla metà del secolo scorso, con un prelievo contributivo a carico delle imprese riscosso dall’INPS. Si tratta di un aspetto non secondario, posto che gli assegni INPS esistenti sono caratterizzati da importi davvero modestissimi, almeno per le famiglie a reddito medio, di modo che, per fare un esempio, un nucleo familiare con due figli minori a carico, e con un reddito di 72.331 euro lordi l’anno, percepisce solo 50 centesimi al mese.
Eppure sarebbe tempo che venisse finalmente a trovare attuazione, a distanza di oltre settanta anni dalla sua promulgazione, quella previsione della Carta costituzionale (art. 36) che assicura al prestatore il diritto ad una retribuzione equa, e cioè proporzionata (per quanto è dovuto dal datore in forza del contratto in essere) al valore dell’apporto professionale arrecato e alla durata della prestazione lavorativa resa, ma anche diretta (grazie proprio all’intervento finanziario dello Stato) a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.