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Archivio newsAzioni risarcitorie nel piano di risanamento: un’arma a doppio taglio
Il piano di concordato deve riportare le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nei confronti degli amministratori. Questa previsione del Codice della crisi d’impresa genera due problemi sostanziali, in capo alla società e all’attestatore. Per la prima, il problema consiste nell’inversione del nesso causale cui spesso si assiste nella prassi: poiché per legge i prospettati risarcimenti trovano rappresentazione del piano come “potenziali entrate”, le azioni di responsabilità sono promosse “al momento” proprio per incrementare le entrate della gestione concordataria e quindi aumentare la percentuale di soddisfacimento dei creditori sociali per favorirne il consenso. Per l’attestatore, invece, il giudizio sul potenziale ricavato dalle azioni risarcitorie che trovano rappresentazione nel piano concordatario pone inevitabili criticità per la complessità delle verifiche da svolgere e il rispetto del principio della neutralità rispetto alle vicende societarie.
L’art. 87, comma 1, lettera d), del Codice della Crisi prevede, tra le altre cose, che il piano (di concordato) indichi “le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero”. La Relazione Illustrativa del Codice della Crisi motiva tale inserimento nel contenuto obbligatorio del piano di concordato, affermando che “è evidente, infatti, che i creditori, per esprimersi sulla convenienza della proposta, debbano essere informati non solo dell’esistenza di azioni in astratto esercitabili, ma anche della situazione patrimoniale dei potenziali convenuti, in vista della fruttuosità di eventuali azioni esecutive e dell’incidenza sulla misura e dei tempi ragionevolmente necessari per conseguire un risultato utile”. La previsione normativa è ampia, riferendosi a qualunque tipo di azione risarcitoria, ed è logica, dal momento che da tali azioni possono derivare future entrate di liquidità per la società che non sono rappresentate in poste contabili nei bilanci aziendali, consistendo in mere attività potenziali. Per cui è comprensibile che il piano di risanamento (concordatario o di altro tipo), mirante a prospettare le future risorse disponibili per la società affinché i creditori possano decidere se esprimere voto favorevole all’accordo, contenga tale descrizione. La disposizione applica l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il patrimonio del debitore include anche i proventi derivabili delle azioni risarcitorie, e che quindi questi debbano essere rappresentati nel piano per non integrare gli estremi dell’occultamento patrimoniale e per consentire ai creditori di esprimere un giudizio fondato, anche nell’ottica del miglior soddisfacimento rispetto alle alternative praticabili. L’avvio di un’azione di responsabilità verso precedenti amministratori generalmente accade dopo un rinnovo dell’organo amministrativo e non è raro il caso in cui una società in crisi presenti una proposta di concordato dopo che vi è stato un cambio degli amministratori a seguito dell’aggravamento della crisi. Per cui, in astratto, si può ritenere che in una situazione di ricorso a uno strumento di regolazione della crisi previste dal codice, la probabilità di osservare azioni di responsabilità sia più elevata rispetto a quanto accade durante una normale, equilibrata, gestione. Tuttavia, la disposizione genera due problemi sostanziali, il primo in capo alla società e il secondo in capo all’attestatore, ciascuno dei quali merita una riflessione distinta. Le possibili conseguenze in capo alla società Con riferimento alla società anzitutto “è stato sostenuto che la prescrizione non è ragionevole e che rischia di tramutarsi in un disincentivo al ricorso a procedure di regolazione della crisi. In questa ottica, sarebbe troppo chiedere al debitore di autoaccusarsi, per giunta quantificando l’eventuale debito”. Ma al di là di questa osservazione di principio, il problema consiste nell’inversione del nesso causale cui spesso si assiste nella prassi, ossia che, dal momento che per legge i relativi prospettati risarcimenti trovano rappresentazione del piano come “potenziali entrate”, le azioni di responsabilità sono promosse “al momento” proprio per incrementare le entrate della gestione concordataria e quindi aumentare la percentuale di soddisfacimento dei creditori sociali per favorire il consenso di questi ultimi. In sostanza, vi sono parecchi casi in cui le azioni di responsabilità che trovano descrizione nel piano sono prospettate proprio in corrispondenza della decisione di adire a una procedura di regolazione della crisi. Tale decisione comporta l’innesco di una serie di conseguenze. Infatti, un’azione di responsabilità avviata (o, quantomeno, prospettata) in tempo utile per la presentazione del piano concordatario per i motivi sopra descritti richiede evidenze della mala gestio dei precedenti amministratori e del danno subito dalla società. In particolare, la dimostrazione del danno consiste tipicamente nel determinare la perdita subita dal patrimonio sociale per effetto della gestione degli amministratori chiamati in causa. Questa circostanza fa sì che i nuovi amministratori in occasione della redazione del bilancio dell’esercizio precedente a quello in cui si opta per una proposta concordataria, siano ancora più incentivati a svalutare quanto più possibile le attività (o aumentare le passività, accantonando, ad esempio, a fondi del passivo), abbattendo conseguentemente il netto patrimoniale, ovviamente cercando di sostenere che le svalutazioni dovevano esser compiute già in passato, durante il precedente mandato dell’organo amministrativo. Un comportamento del genere è il tipico big bath (la grande pulizia) ben studiato dalla dottrina aziendale, secondo il quale i nuovi amministratori compiono ingenti svalutazioni nel primo bilancio che redigono, con il duplice risultato di mettere in cattiva luce i precedenti amministratori e di ottenere delle performance notevoli negli esercizi successivi, grazie alle pesanti svalutazioni compiute inizialmente che evidenziano il pessimo stato con il quale è iniziata la loro gestione. Effettuare forti svalutazioni nel bilancio dell’esercizio precedente a quello dell’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi peraltro è un comportamento molto diffuso in quanto nei piani di risanamento le aziende in crisi iniziano a prospettare valori “di realizzo” di numerose attività e tali valori rappresentano più o meno consciamente un riferimento per gli amministratori in carica e che inevitabilmente spinge questi ultimi a appesantire ancora di più le svalutazioni nell’ultimo bilancio. A questo punto, in una procedura concordataria, si sono create le condizioni affinché questa sequenza porti alla contestazione da parte della Procura del reato di false comunicazioni sociali, dal momento che sono emerse in bilancio pesanti perdite che tipicamente sono attribuite alla precedente gestione ed ai bilanci da questa firmati. Riassumendo, in una procedura concordataria l’incentivo a prospettare entrate da azioni risarcitorie contro i precedenti amministratori può influenzare la redazione del bilancio da parte del nuovo organo amministrativo per evidenziare le responsabilità dei loro predecessori, creando i presupposti per un’azione a carico di questi ultimi che può portare a un’incriminazione. Sia ben chiaro che in molti casi le responsabilità che si evidenziano sono giuste e doverose, come pure lo sono molte azioni penali mosse contro i precedenti amministratori, ma è indubbio che la previsione delle entrate da azioni risarcitorie nel piano induce inevitabilmente a sfruttare questa possibilità oltre il dovuto, certe volte “inventandosi” delle irregolarità in bilancio al solo scopo di prospettare maggiori entrate concordatarie. Le possibili conseguenze in capo all’attestatore Si consideri ora la seconda questione, quella dell’attestatore chiamato a esprimersi sulla fattibilità di un piano di risanamento che prevede entrate da futuri risarcimenti derivanti da azioni di responsabilità. I principi di attestazione dei piani di risanamento emessi dal CNDCEC in generale affermano la neutralità dell’attestatore rispetto alle vicende societarie (par. 4.8). In particolare, al par. 4.8.1 si afferma che “in caso di concordato preventivo in continuità, le attività potenziali derivanti dall’esperimento di azioni risarcitorie dovranno essere oggetto di valutazione da parte dell’attestatore sulla base di quanto rappresentato nel Piano. In ogni caso, ai fini del miglior soddisfacimento dei creditori, le azioni di responsabilità creditorie potendo comunque essere azionate dai creditori in presenza di un danno anche nel caso dell’omologa del concordato preventivo, non incidono ai fini del giudizio del miglior soddisfacimento dei creditori”. Il par. 4.9 prosegue poi stabilendo che “l’attestatore non è tenuto a esprimere giudizi circa l’esperibilità di eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione e di controllo della società, ove non siano esplicitamente previste o menzionate nel Piano” e “non è compito dell’attestatore, ma del commissario giudiziale, individuare e/o prevenire atti distrattivi o depauperativi del patrimonio del debitore“ ed ancora “spetta al commissario e non all’attestatore verificare i dati storici aziendali per valutare se negli anni precedenti la domanda di concordato preventivo siano stati posti in essere comportamenti riconoscibili come atti di frode. Inoltre, non l’attestatore, ma il commissario valuta le possibilità di soddisfacimento dei creditori in caso di fallimento e verifica se vi siano fondati motivi per azioni di responsabilità o revocatorie fornendo, altresì, nella propria relazione una valutazione del rischio di insuccesso delle stesse e una stima dei costi legali e per consulenze tecniche connessi alle azioni medesime.” Infine, con la revisione dei Principi del 2020 si afferma anche che “in ogni caso, ai fini del miglior soddisfacimento dei creditori, le azioni di responsabilità creditorie potendo comunque essere azionate dai creditori in presenza di un danno anche nel caso dell’omologa del concordato preventivo, non incidono ai fini del giudizio del miglior soddisfacimento dei creditori”. La posizione dei principi è chiara: l’attestatore non ricerca responsabilità di qualsiasi organo sociale e tantomeno propone o sconsiglia l’avvio di azioni di responsabilità. L’unico compito a cui è tenuto è quello di esprimersi, nell’ambito della sua valutazione sulla fattibilità del piano, sul potenziale ricavato dalle azioni risarcitorie che trovano rappresentazione nel piano. Valutare il possibile ricavato di un’azione di responsabilità da parte dell’attestatore è compito molto difficile e che risente di molte circostanze. Oltre al più generale fattore rappresentato dai tempi a disposizione dell’attestatore, incidono al riguardo la fase in cui si trova l’azione di responsabilità (già avviata o meno, dal momento che il citato art. 87 permette di indicare le azioni “esperibili” e non soltanto “esperite”) e il livello delle informazioni presenti nel piano, come pareri legali e tecnici rilasciati al debitore a supporto delle ipotesi di esperibilità e di esito positivo della causa. Il giudizio dell’attestatore riguarda poi due profili, di cui: - il primo è la stima della probabilità di esito dell’azione; - il secondo, in caso di esito previsto positivo, è la adeguata quantificazione del provento, ambito ancor più complesso, dovendosi esaminare elementi quali la capienza del patrimonio del debitore, le polizze assicurative esistenti e il grado effettivo di recuperabilità del risarcimento, anche tenendo conto dei tempi richiesti dalla conclusione delle relative cause. La mancanza di statistiche relative agli esiti di tali azioni nei tribunali italiani complica ulteriormente la verifica. Nel momento in cui l’attestatore rilascia il suo parere sui proventi derivanti da tali azioni, implicitamente si introduce nel quadro generale del debitore un elemento che può a sua volta riflettersi sull’andamento dell’azione di responsabilità, in quanto il giudizio proveniente da un professionista indipendente quale l’attestatore sarà utilizzabile dalle parti in causa per avvalorare le loro ragioni. In questo senso si pongono inevitabili criticità circa il principio della neutralità e indipendenza dell’attestatore dal debitore. Basterebbero già queste considerazioni per capire la complessità del lavoro richiesto all’attestatore. Ma la questione si complica ulteriormente se si considera che la dottrina giuridica tende ad ampliare la portata delle verifiche dell’attestatore. Al riguardo si sostiene che “(l’attestatore) tuttavia non può considerarsi tenuto, in mancanza di una disposizione normativa in tal senso, a enucleare partitamente “le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitarsi ed il loro possibile esito […]. Piuttosto, affinché il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori risulti adeguatamente scrutinato, l’attestatore deve farsi carico di - e può limitarsi a - constatare, prima facie, la verosimile assenza (i) di pagamenti revocabili tali da rendere ictu oculi preferibile l’alternativa fallimentare e (ii) di atti di mala gestio che siano, ad un tempo, eclatanti e riferibili a soggetti patrimonialmente in grado di ristorare il danno in una misura che, tenuto conto del restante attivo nello scenario fallimentare (e dell’eventuale minor passivo in quello concordatario), appaia complessivamente superiore al livello di soddisfacimento stimabile nell’ipotesi di concordato; sempre che, beninteso, non si tratti di ipotesi rientranti nel perimetro dell’art. 240 (L.F.), stante in tal caso la legittimazione del commissario giudiziale a costituirsi parte civile allo stesso modo del curatore (Ambrosini S., IlCaso.it, aprile 2018). In sostanza, sembra chiedersi all’attestatore, pur con doverosi distinguo, ben di più del giudizio sulle azioni esperibili descritte nel piano; gli si chiede di indagare anche sulla mala gestio di precedenti organi amministrativi. Lascio al lettore immaginare il conseguente ampliamento del raggio delle verifiche e, soprattutto, l’impatto sulla natura del ruolo dell’attestatore, che passa così da figura sostanzialmente assimilabile a quella del revisore legale di una società a quella di fraud auditor, profili che come noto son ben diversi. A conclusione, la previsione di cui all’art. 87 forse andrebbe ripensata, anche perché nel concordato vi è un commissario giudiziale che ha tutti i poteri di un pubblico ufficiale per valutare nel merito l’esistenza di possibili motivi per muovere azioni di responsabilità e i proventi da essi derivabili. La norma che invece attribuisce al debitore e, di conserva, all’attestatore il compito di prospettare tali azioni, come si è visto sopra, non si limita a imporre una disclosure ma implicitamente innesca una serie di effetti reali nelle vicende del debitore, oltre ad aggravare il piano e le relative verifiche di forti incertezze, complessità e costi, dovuti alle battaglie di pareri che tali azioni scatenano. Copyright © - Riproduzione riservata