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Archivio newsDivieto di licenziamento: come orientarsi nel dedalo di regole, eccezioni e termini
Il divieto di licenziamento, introdotto dal Cura Italia, impedisce dal 17 marzo 2020 l’irrogazione dei licenziamenti giustificati da motivo oggettivo e sospende le procedure di licenziamento collettivo iniziate alla data del 23 febbraio 2020. Oggetto di dibattito tra i più vivaci, il divieto di licenziamento è stato interessato da interventi normativi costanti che ne hanno prolungato la durata dai 60 giorni originari fino (in talune ipotesi) al 31 dicembre 2021. Come è articolato attualmente il quadro normativo sul divieto di licenziamento per ragioni economiche? Quali eccezioni prevede il legislatore?
Introdotto dal decreto “Cura Italia”, per ragioni straordinarie ed eccezionali al fine dichiarato di preservare il livello occupazionale, e con la previsione iniziale di una sua breve durata (60 gg.), il divieto di licenziamento, oggetto di dibattito tra i più vivaci che hanno interessato la normativa emergenziale di contrasto agli effetti della pandemia da Covid-19, si protrae ancora oggi ed arriverà a sfiorare i due anni di vigenza. Il rapido affastellarsi di decreti che hanno via via regolato i confini del divieto conferma l’esigenza, ricorrente nell’esperienza pandemica, di fare il punto della situazione, osservando la portata attuale del premesso divieto. Divieto di licenziamento: ambito applicativo Il divieto, introdotto dal decreto legge n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 27/2020, impedisce dal 17 marzo 2020 l’irrogazione dei licenziamenti giustificati da motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/66 e sospende le procedure di licenziamento collettivo già iniziate alla data del 23 febbraio 2020. Il decreto “Rilancio” (decreto legge n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77/2020) ha poi esteso la sospensione anche alle procedure di conciliazione preliminare imposte dall’art. 7 della legge n. 604/66 per i licenziamenti economici cui intendano provvedere le imprese con più di 15 dipendenti. L’esplicito riferimento normativo alla legge sui licenziamenti collettivi (artt. 4, 5 e 24, legge n. 223/91), ed a quella sul licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (art. 3, legge n. 604/66), ha consentito di escludere dall’egida del divieto tutti quei licenziamenti che, pur potendosi considerare giustificati latu sensu da ragioni economiche, risultano sottratti alla disciplina delle norme in questione. Così, il divieto non opera per il caso di licenziamenti nell’ambito del rapporto di lavoro domestico, dell’apprendista per fine del periodo di formazione, per mancato superamento del periodo di prova, per superamento del periodo di comporto. Si tratta di fattispecie le cui circostanze trovano la propria regolamentazione in norme diverse dalla legge sui licenziamenti individuali (codice civile per il comporto e la prova, il d.lgs. n. 81/2015 per l’apprendistato), o alle quali la disciplina dei licenziamenti individuali non si applica affatto (come per il lavoro domestico, che consente ancora il licenziamento ad nutum). Motivazioni analoghe a queste ultime, hanno condotto a ritenere estraneo al divieto il licenziamento del dirigente, al quale appunto non si applicano i canoni dell’art. 3 in tema di giustificato motivo oggettivo. Ciò con il conforto, anche recente, della giurisprudenza, che ha confermato la non soggezione al divieto del licenziamento del dirigente (Trib. Roma, Sez. lav., 19 aprile 2021). Pronuncia che ha placato le polemiche suscitate dall’unico precedente di segno contrario, che con motivazioni molto discutibili, muovendo dalla consapevolezza della impossibilità di applicare le regole di tutti gli altri lavoratori subordinati in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai dirigenti, aveva concluso invece per l’immanenza del divieto per la necessità rispondere ad esigenze di “tutela emergenziale diffusa” (Trib. Roma, Sez. lav., 26 febbraio 2021). Le eccezioni Il divieto di licenziamento per ragioni economiche, inizialmente imposto con una rigidità assoluta, tale da non contemplare nessuna ipotesi di esclusione, imponendosi finanche in caso di cessazione dell’attività aziendale (con difficoltà pratiche e ricadute economiche evidentemente di non poco conto), è stato via via temperato, acquisendo un minimo di ragionevolezza al proprio impianto, con l’individuazione di una serie di eccezioni in tutti quei casi in cui l’obiettivo dichiarato di garanzia del livello occupazionale è comunque perseguibile o evidentemente impossibile. Pertanto il divieto di licenziamento non opera in caso di: · appalto, in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto; · licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa oppure dalla cessazione definitiva dell'attività di impresa conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività; · cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile; · accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, ai quali è riconosciuto il trattamento di disoccupazione (NASpI); · fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa o ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso. Evoluzione normativa e assetto attuale Come premesso, il divieto di licenziamento è stato oggetto di interventi normativi costanti. Pressoché ogni decreto legge che è intervenuto in materia emergenziale si è occupato del tema, quasi sempre per prolungarne la durata, che dai 60 giorni originari del decreto Cura Italia lo hanno portato a protrarsi in talune ipotesi fino al 31 dicembre 2021, altre volte anche per intervenire sul contenuto, come ha fatto la legge di conversione (n. 27/2020) del decreto Cura Italia, che ha previsto la prima eccezione in materia di appalti, o il decreto Agosto (decreto legge n. 104/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 126/2020), che aveva introdotto la sua modulazione, parametrando la vigenza del divieto alla utilizzazione degli ammortizzatori sociali (schema poi eliminato dal decreto Ristori, decreto legge n. 137/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 176/2020) ed introducendo la serie di eccezioni alla sua applicazione ancora oggi vigenti. Attualmente il quadro normativo ci presenta un divieto di licenziamento per ragioni economiche così articolato (si veda anche la nota dell’Ispettorato nazionale del lavoro n. 5186/2021): · fino al 31 ottobre 2021 per le imprese aventi diritto all'assegno ordinario e alla cassa integrazione salariale in deroga previsti dagli articoli 19, 21, 22 e 22 quater del Dl 18/20, nonché a quelle destinatarie della cassa integrazione operai agricoli CISOA, nonché per le imprese del settore del turismo, stabilimenti balneari e commercio. Queste ultime, come previsto dall’art. 43 del decreto Sostegni bis (decreto legge n. 73/2021 convertito, con modificazioni, in legge 23 luglio 2021, n. 106), se richiedono l'esonero dal versamento dei contributi previdenziali, fruibile entro il 31 dicembre 2021, devono osservare l’estensione del divieto fino alla medesima data. Lo stesso termine del 31 ottobre, alla luce del decreto Sostegni convertito in legge, incombe per le aziende del tessile identificate secondo la classificazione Ateco2007, con i codici 13, 14 e 15 sino al 31 ottobre 2021, alle quali è riconosciuto un ulteriore periodo di cassa integrazione di 17 settimane dal 1° luglio al 31 ottobre. Il divieto opera a prescindere dalla effettiva fruizione degli strumenti di integrazione salariale; · per le altre aziende rientranti nell’ambito di applicazione della CIGO, la possibilità di licenziare è inibita ai sensi degli artt. 40, commi 4 e 5, e 40 bis, commi 2 e 3, del decreto Sostegni bis ai datori di lavoro che abbiano presentato domanda di fruizione degli strumenti di integrazione salariale ai sensi degli articoli 40, comma 3 e 40 bis, comma 1, per tutta la durata del trattamento e fino al massimo al 31 dicembre 2021. Secondo quanto riportato dalla nota n. 5186 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la ratio delle norme in questione risiede, quindi, nel collegare il divieto di licenziamento alla domanda di integrazione salariale e dunque al periodo di trattamento autorizzato e non a quello effettivamente fruito; · sempre fino al massimo al 31 dicembre 2021, ai sensi dell’art. 3 del decreto legge n. 103/2021, il divieto di licenziamento si protrae per le imprese con un numero di lavoratori dipendenti non inferiore a 1.000 che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale ai sensi dell'articolo 1 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, che presentano domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale di cui agli articoli 19 e 20 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, per una durata massima di ulteriori 13 settimane fruibili fino al 31 dicembre 2021. 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